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79 Maggio - Giugno 2021
Speciale Giovani e sport Dalla cura del corpo alla sua esaltazione

Una medaglia e il suo rovescio: considerazioni su benefici e rischi dello sport in tema di salute

Introduzione: l’attività fisica e i vantaggi per la nostra salute

La nostra natura è il movimento: il riposo completo è la morte
Blaise PASCAL

Il concetto della frase citata del grande pensatore francese del Seicento, Blaise Pascal, mantiene tuttavia tutta la sua validità: la connotazione filosofica di allora è oggi ampiamente corroborata e sostituita dalle conoscenze scientifiche nell’ambito della Biologia e della Medicina, che si sono sviluppate soprattutto nella seconda metà del Novecento.

L’Organizzazione Mondiale per la Sanità pone l’attività fisica fra i “fattori determinanti della salute”, nella categoria degli “Stili di vita”, alla pari con una corretta alimentazione, l’uso moderato di alcolici, l’abolizione del fumo. Grandi studi osservazionali hanno dimostrato che la sedentarietà è un fattore di rischio indipendente per la salute, soprattutto — ma non solo — cardiovascolare. Molti studi di settore hanno inoltre dimostrato come fare abitualmente una quantità almeno apprezzabile di lavoro fisico sia specificamente vantaggioso nei confronti di patologie estremamente comuni, come l’ipertensione arteriosa e il diabete mellito dell’adulto. In generale, fare attività fisica regolare protegge il nostro sistema cardiovascolare, riducendo la progressione dell’aterosclerosi e del danno dell’endotelio arterioso, che sta alla base di tante condizioni come la cardiopatia ischemica e l’infarto miocardico, lo scompenso cardiaco, l’ictus cerebrale, molte forme di demenza, molte forme di insufficienza renale.
Per altre vie, una regolare attività motoria incide positivamente sulla capacità respiratoria, riduce la progressione dell’osteoporosi e dell’artrosi ed ha un effetto sensibilmente positivo sul tono dell’umore.

È, quindi, indiscusso che l’attività fisica abbia un ruolo che si direbbe prioritario per la salute psicofisica e contribuisca in modo rilevante ad una migliore qualità della vita: chi fa movimento ha molta più probabilità di vivere più a lungo e meglio, da persona sana, godendosi la vita nella sua interezza, mantenendo l’autosufficienza, così importante in una società composta da individui sempre più anziani. Sicuramente lo sviluppo di strategie che portino ad un aumento della diffusione dell’attività fisica è oggi un obiettivo di sanità pubblica che può essere raggiunto attraverso politiche sanitarie mirate e condivisione di obiettivi.

La prescrizione dell’attività fisica, da sola o in associazione a farmaci è quindi oggi, a pieno titolo, compito del medico e delle altre figure professionali che si occupano di salute, in collaborazione, su un livello di pari dignità professionale, con figure non ufficialmente comprese nell’ambito sanitario, come i laureati in Scienze Motorie.

Sport e sistema di interessi

Tuttavia, l’attività fisica — la semplice attività motoria a scopo “ludico”, più o meno strutturata in discipline sportive — è stata assorbita in un vortice di interessi diversi, di tipo mediatico, commerciale, politico, non diversamente da come è avvenuto ed avviene per molti altri aspetti della vita individuale e sociale. Il cibo, ad esempio, è drammaticamente carente in alcune aree del mondo, ma le nostre società “occidentali” o “evolute” sono ossessionate dalla pressione al consumo di alimenti in quantità e qualità largamente incongrue rispetto al nostro fabbisogno. Analogamente, accade che la fede religiosa sia stata e sia ancora pretesto per conflitti; che il progresso industriale uccida il pianeta con l’inquinamento ambientale, che i farmaci siano oggetto di abuso, facendo pendere la bilancia spesso dalla parte degli svantaggi più che dei benefici; e così via.

Anche lo sport, come sappiamo bene, è diventato un gigantesco business, una macchina per produrre incassi e far circolare miliardi. Basta un’occhiata alle quotazioni o ai guadagni di alcuni calciatori (ma anche giocatori di basket, di baseball, di tennis ecc.), ai bilanci di molte società, delle federazioni sportive nazionali e internazionali. Intorno alle manifestazioni sportive, che muovono molti milioni di persone, lavorano poi l’industria dei media (giornali, radio, televisione, ecc.), delle costruzioni (impianti “sportivi”), delle vie di comunicazione (strade, compagnie aeree), del turismo alberghiero e della ristorazione e tante altre.

Gli atleti, quelli che il pubblico mondiale vede e segue (con passione spesso fuori misura), sono le ultime pedine di questo gioco. Sono attori indispensabili per creare attrazione, ma al tempo stesso anche rotelle costrette a girare dal meccanismo che li sovrasta, che li manovra, che li sfrutta, in fin dei conti. E costrette a girare veloci, altrimenti vengono sostituite. Costrette a girare veloci e continuamente, in una successione di allenamenti e gare che coprono ininterrottamente la loro vita agonistica, di durata spesso breve quanto intensa.
Questo meccanismo, variabilmente stritolante, è alla base di diversi problemi che popolano quello che possiamo chiamare il rovescio della medaglia. A buon diritto, visto che di medaglie si tratta: olimpiche, mondiali, nazionali o anche semplicemente rionali.

Ripercussioni negative: stress da “sovrallenamento” e devianze alimentari

Il rovescio della medaglia ha diverse componenti, spesso intrecciate fra loro.
Uno degli aspetti importanti da considerare è che la prestazione fisica è di per sé un “evento stressante” per il nostro organismo, in gergo tecnico uno “stressor”, a cui rispondiamo automaticamente con adattamenti che seguono invariabilmente le stesse coordinate, tanto che si tratti di alzarsi al mattino ed affrontare la giornata, quanto di mettere i piedi sui blocchi di partenza della finale olimpica dei 100 mt. Le coordinate, cioè i sistemi coinvolti nella “risposta di stress”, sono ben identificate nell’attivazione del sistema simpatico, le cui parole sono le catecolamine, e dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con la produzione di cortisolo.

Le vie battute, come detto, sono sempre le stesse, ma l’entità e i tempi di questi “passi” sono infinitamente variabili e interdipendenti e così anche le modulazioni reciproche che ricadono su tutto l’organismo, dal sistema nervoso (riflessi, velocità e potenza di contrazione, ma anche comportamento, tensione psicologica, concentrazione) a quello cardiovascolare (battito cardiaco, pressione arteriosa, grado di vasocostrizione), immunitario (modificazioni dell’attività linfocitaria, della produzione anticorpale), metabolico (modificazioni della sensibilità insulinica). Gli effetti che si producono, quindi, pur essendo noti nei loro effetti considerati singolarmente, risultano imprevedibili nelle loro manifestazioni complessive. Questo fa sì, ad esempio, che la stessa situazione venga vissuta in momenti diversi, anche dallo stesso individuo, come una sfida da fronteggiare positivamente (eustress) o, alternativamente, come un compito improbo, dal quale si verrà probabilmente schiacciati (distress).

Dobbiamo poi considerare il fatto che, idealmente, tutto questo sistema estremamente composito di risposte adattative è predisposto per fronteggiare eventi stressanti anche importanti, ma di durata relativamente breve. Si pensi che, nell’evoluzione delle specie viventi, i tempi sono tali per cui l’Homo di oggi è sostanzialmente identico al suo progenitore Sapiens la cui vita dipendeva dall’abilità nell’essere predatore e non predato, di sfuggire ai pericoli e di adattarsi all’ambiente: tutte questioni immediate, che si succedevano nell’arco delle ore diurne, di veglia e attività. Immaginiamo quanto distante sia la condizione degli atleti odierni, soprattutto se di alto livello, esposti a una condizione “stressante” sostanzialmente continua, quando agli allenamenti, fisicamente molto impegnativi, si alternano sempre le gare, che includono una componente di stress psicologico tutt’altro che indifferente, per di più protratto nel tempo per meccanismi anticipatori, fatti di attesa, incertezza. Un errore non si paga con la morte, ma arrivare secondi diventa un fallimento da evitare ad ogni costo.

Tutto questo è alla base della condizione cosiddetta di “overtraining” o sovrallenamento, che viene sperimentata più volte nel corso della propria carriera da atleti agonisti di vario livello. Si tratta di una condizione difficilmente definibile e per la quale non vi sono, di fatto, precisi indicatori “diagnostici” al di fuori del calo di rendimento, per alcune discipline misurabile in termini di tempo o per altre, con minore evidenza, in termini di capacità coordinativa, efficacia di un gesto tecnico, e quindi magari frequenza di infortuni, o infine in termini di maggiore suscettibilità a infezioni anche banali. Insomma, una vera e propria malattia psico-fisica. Un problema nel quale è bene — atleti e allenatori lo sanno — non addentrarsi troppo, perché non ci sono cure specifiche se non la drastica riduzione o temporanea sospensione dell’attività, per settimane o per mesi.

Una risposta di stress protratta nel tempo, insieme ad altre componenti, è anche coinvolta nella cosiddetta “triade dell’atleta femmina” o anche “amenorrea delle atlete”, l’assenza di ciclicità mestruale per mesi o anni che si riscontra con frequenza preoccupante specialmente in atlete di discipline come la ginnastica o la danza. In questi casi l’altro punto nodale è l’estrema attenzione alimentare finalizzata a ridurre il più possibile la massa grassa, conservando al meglio l’efficienza (non la massa) muscolare e l’elasticità articolare. Si tratta di una combinazione di elementi che, insieme ad una feroce volontà di raggiungere la perfezione dei movimenti, sortisce l’effetto di bloccare il delicato equilibrio che governa il ciclo mestruale, pur così “difeso” dal nostro ipotalamo in quanto indispensabile per la conservazione della specie.

Il tema dell’alimentazione è poi venuto acquistando, negli ultimi anni, un’importanza crescente, sostenuta anche da interessi di chi “vende” diete miracolose così come integratori “indispensabili”. Molti sportivi, anche amatoriali, si lasciano attrarre e deviare da modi di pensare e di agire estremi.
È il caso dell’ortoressia, una forma di attenzione maniacale alle regole alimentari e alla scelta del cibo. Altri, che perseguono ossessivamente il fine di incrementare la propria massa muscolare, finiscono per avere un’immagine distorta di sé, in modo speculare a quanto accade nell’anoressia nervosa e ricadono in una condizione nota, per triste analogia, come vigoressia.

Anche al di fuori di queste deviazioni, che sono malattie riconosciute anche dalla nosografia ufficiale, in molte altre situazioni gli atleti si lasciano costringere a manipolazioni del proprio peso, del tutto lontane da una condotta salutare: moltissime discipline prevedono, infatti, confronti fra atleti suddivisi in categorie di peso corporeo, con lo scopo di mettere a confronto atleti di corporatura omogenea. In questi casi, riuscire a rientrare in una categoria più bassa rappresenta un vantaggio. Per questo, si riesce a perdere anche fino al 10% del proprio peso (7 kg per un atleta di 70 kg!) nella settimana precedente il controllo del peso e la competizione. Ogni mezzo utile al risultato viene impiegato: non solo dieta, naturalmente, ma allenamenti intensi alternati a saune e uso di diuretici per perdere litri, quindi chili.

In sostanza, in tutte queste “deviazioni” il fine è il risultato e il fine giustifica i mezzi, ogni tipo di mezzi. Non può stupire, naturalmente, che una logica di questo tipo includa l’uso — anche illegale — di sostanze in grado di incrementare la prestazione psico-fisica e quindi di aumentare la probabilità di raggiungere il risultato che ci si prefigge: vincere. Semplicemente vincere. Ad ogni costo, ma vincere. E così, la porta alla pratica del doping è aperta…

Come ho detto prima, anche qui gli atleti sono le ultime pedine di questo gioco, le ultime rotelle di un ingranaggio molto più grande di loro, pronto a sostituirle quando non girano più abbastanza veloci. Da sempre, morto un papa se ne fa un altro.

Doping: un problema culturale

Il doping non è solo un abuso sportivo: l’uomo ha notoriamente utilizzato droghe sin dalla preistoria con una funzione addirittura religiosa (sport-rito), con una funzione sociale (sport-guerra), con una funzione ricreazionale (sport-gioco), con una funzione strumentale, in quanto le droghe sono assunte per migliorare le prestazioni (sport-competizione).
L’attività sportiva, tuttavia, costituita da prestazioni per definizione misurabili, è un campo di applicazione ideale per chi “vende” incrementi di prestazione. Questo vale, lo sappiamo benissimo, per il mondo dello sport professionistico, ma vale altrettanto, purtroppo, per l’enorme massa degli sportivi amatoriali. Fenomeno molto più esteso, quindi redditizio, e completamente non controllato, quindi molto più denso di rischi.

E poi il mondo del doping non è solo fatto dagli atleti, che sono quelli che rischiano maggiormente, ma anche da coloro che, al di là dei “trafficanti”, contribuiscono al raggiungimento del risultato e traggono benefici economici dalla pubblicità e dalla propaganda: allenatori, società sportive, laboratori di analisi, media, le stesse nazioni, che si fanno vanto di essere ai primi posti della graduatoria per numero e “peso” di medaglie nelle grandi manifestazioni internazionali. Vale l’esempio, divenuto ufficialmente noto dopo la caduta del muro di Berlino, del “doping di stato” praticato per anni, molto pesantemente ed in modo sistematico, dalla DDR.

Attorno al problema del doping esiste, evidentemente, un atteggiamento sociale ambiguo: da un lato lo si condanna tiepidamente, dall’altro non si interviene seriamente per sradicare certe pratiche ormai consuete sin dai primi passi nell’attività agonistica. Come sempre, è un problema culturale.

È possibile sottrarsi a questa logica? Certamente sì, ma a prezzo di accettare di perdere, almeno quando incontriamo qualcuno migliore di noi. Individualmente è una scelta possibile, ancorché talvolta sgradita. Collettivamente il discorso è più complesso. È, come ho detto, un problema culturale. E la cultura si nutre di educazione: in ambito familiare, scolastico, sportivo, in definitiva sociale. Bisogna crederci.

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