I progressi tecno-scientifici rivolti alla tutela della salute, che stanno provocando nel mondo di oggi, ma ancora di più provocheranno in futuro, grandi cambiamenti socio-culturali con forte impatto su sanità, società ed etica, meritano alcune riflessioni.
L’impatto sociale e sanitario degli straordinari progressi della medicina degli ultimi tempi
Una prima considerazione riguarda gli straordinari progressi della medicina degli ultimi tempi, dalla diagnostica all’ambito terapeutico, sia farmacologico che tecnologico, le cui ricadute sulla collettività si riflettono sia sugli aspetti sociali della gestione della sanità e, più specificamente dei servizi socio-sanitari soprattutto a livello ospedaliero.
Per quanto riguarda gli aspetti sociali, va registrato il grande cambiamento culturale che ha progressivamente trasformato il modo di percepire il rapporto tra il cittadino e la struttura socio-sanitaria. Un cambiamento che ha contribuito a spersonalizzare progressivamente il rapporto medico-paziente.
La grande attenzione al bene salute, la maggior complessità delle strutture sanitarie, la plurisoggettività numerica e specialistica dei percorsi diagnostici e terapeutici, nonché una diffusa filosofia aziendale che tende a fare prevalere la competenza manageriale su quella professionale e, non da ultimo, come ho già accennato, il progresso della scienza medica, hanno determinato maggiori aspettative nel paziente e mutato completamente il contesto in cui si svolge la prestazione sanitaria causando gradualmente l’affievolimento del binomio medico-paziente.
Nella realtà si fa sempre più evidente il passaggio dal tradizionale senso di ammirazione e di gratitudine dei pazienti nei confronti dei sanitari a un atteggiamento sempre più critico verso questi ultimi, che si è evoluto in un desiderio, spesso dominante, di rivalsa nelle ipotesi di fallimento delle cure. Infatti, questa trasformazione, nel corso degli ultimi anni, ha avuto un impatto determinante sulla giurisprudenza, la quale, con il fine di assicurare una sempre più adeguata tutela al paziente, è entrata in modo diretto nella valutazione delle prestazioni e del comportamento professionale del medico non soltanto sul piano tecnico, ma anche sul modo di condurre le sue relazioni nei confronti del paziente. Il cambiamento che è derivato dall’atteggiamento dei giudici nei confronti degli operatori sanitari, in primis il medico, ha finito per caricarli di una gravosa responsabilizzazione che non ha di certo giovato all’intenzione di migliorare la qualità dei servizi rivolti al paziente e che gli interventi giurisprudenziali si erano prefissi. Nell’esercizio della professione, il medico, per principio e per consuetudine, sente fortemente l’esigenza di poter operare liberamente e serenamente nelle decisioni diagnostiche e nelle scelte terapeutiche. Per contro, il rigoroso controllo della legge può indurre il medico a fare scelte terapeutiche e richieste di indagini collaterali sovrabbondanti allo scopo di sottrarsi al rischio di un giudizio legale, trascinandovi anche la struttura in cui egli è inserito e opera (medicina difensiva: oltre 10 miliardi di euro).
Come afferma in un suo articolo la professoressa Carla Vignali, dell’Istituto di Diritto Privato dell’Economia, Università degli Studi Milano-Bicocca («Acta Biomedica», Ateneo Parmense 2004; 75:197):
Mutano i principi etici e bioetici con l’affermarsi di paradigmi sociali e sanitari
Una seconda considerazione riguarda anche i cambiamenti dei principi etici e bioetici sui quali i nuovi assetti sociali e sanitari, nonché i mutamenti culturali, si riflettono. Sant’Agostino, nel suo De Rhetorica offre una illuminante premessa a quella che già in nuce configura le caratteristiche che preludono alla definizione del senso della bioetica quando afferma che
Il concetto espresso da Sant’Agostino fa riferimento a un’intrinseca e capacità di giudizio da parte dell’uomo nel discernere i valori positivi da quelli negativi della stessa azione dell’uomo. La bioetica moderna, fin dal suo emergere negli anni ’70, a opera dell’oncologo van Rensselaer Potter, rappresenta un forte appello alla coscienza di ciascuno e della collettività in generale, a chiedersi in quale direzione l’umanità stia dirigendo il progresso scientifico e quali siano i criteri per giudicarlo, riconoscendone anche le derive.
Alla bioetica, allora, è affidato il compito di unire l’etica e la biologia, insegnando ad usare bioeticamente la conoscenza in ambito scientifico le ragioni che hanno sempre reso difficile coniugare l’etica con la scienza, specie in campo biologico, le spiega molto bene il Cardinale Elio Sgreccia (Bioetica. Manuale per i Diplomi Universitari della Sanità, Vita e Pensiero, Milano 1999, p. 1):
Più specificamente, la Carta degli Operatori Sanitari (emanata dal Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari) precisa che
Ma è legittimo mettere a confronto la garanzia di “validità” che offre la scienza con quella, che sembra invece la semplice “opinabilità” della bioetica, in quanto espressione di una credenza che non include alcuna garanzia di validità? Qui si confrontano due funzioni della ragione umana: l’aspetto della “razionalità scientifica”, propria delle attività scientifiche e l’aspetto della “razionalità morale”, le cui radici sono altrettanto solide nello spirito umano di ciascuno e la cui validità emerge dalla condivisione di tutti. Ne è prova il fatto che la “molla” che fa scattare l’attenzione su vasta scala ai problemi bioetici, e qui sta la validità della “razionalità morale”, è il potere che l’uomo − soprattutto attraverso le nuove tecnologie in biologia e in medicina − acquisisce su se stesso e sui suoi simili. Un potere nuovo rispetto al passato, e cioè il potere di entrare nel mistero della vita, “catturando” quei momenti cruciali, come l’esperienza del dolore e della malattia, per realizzare un obiettivo nuovo, ovvero la vita “di qualità”.
Non si può non pensare qui all’ambigua definizione di salute data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (1948): «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non (…) soltanto assenza di malattie e infermità». Il concetto di salute come “completo benessere” esprime una visione sostanzialmente astratta e irrealistica con la conseguenza di scoraggiare, come sostiene Ivan Cavicchi (Ripensare la Medicina, Bollati-Boringhieri, 2004 Torino, p. 251):«l’autentica etica della cura, perché – invece di portare l’attenzione della medicina verso l’assistenza alle varie forme di disagio e di malessere psico-fisico – discrimina ingiustamente fra vita sana e vita malata, fra vita del forte e vita del debole, fra vita “bella” e vita “brutta” e, in una parola, fra vita di qualità e vita indegna».
Giovanni Paolo II nella Lettera enciclica Evangelium Vitae (1995, n. 64) afferma: «Quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile». Si rifiuta la realtà del dolore, che non è altro che il richiamo alla condizione finita dell’uomo, la cui vita evolve inevitabilmente verso la morte fisica. Nella stessa enciclica (Ibid., n. 15) il Pontefice, a proposito dell’etica di fine-vita osserva che «gravi minacce incombono sui malati inguaribili e sui morenti, in un contesto sociale e culturale che, rendendo più difficile affrontare e sopportare la sofferenza, acuisce la tentazione di risolvere il problema del soffrire eliminandolo alla radice con l’anticipare la morte al momento ritenuto più opportuno».
D’altra parte, l’enfatizzazione del piacere come fine unico, genera un disordine del desiderio, che si risolve in una tirannia, anche nei confronti della Medicina, cui si richiede un ruolo di supporto. L’assolutizzazione del desiderio, che si esprime ad esempio nella ricerca del figlio attraverso le tecnologie riproduttive, si trasforma in schiavitù del desiderio, che pretende non solo il figlio ad ogni costo, ma insegue il mito del figlio perfetto.
L’incidenza sull’ecosistema delle strutture e servizi sanitari
Una terza e ultima considerazione. Infine, voglio concludere con un semplice accenno a una questione che prende spunto da una recente letteratura in merito agli effetti che le attività delle strutture e dei servizi sanitari determinerebbero sul sistema ecologico generale, a livello mondiale. Il problema non è ancora emerso nel nostro Paese, tuttavia esistono dati secondo cui i servizi sanitari, a cominciare dagli ospedali, contribuirebbero in maniera significativa all’impronta ecologica causando danni oltreché all’ambiente, anche alla salute delle popolazioni. Gli effetti ecologici complessivi dei servizi sanitari vengono riferiti alle loro attività, ai prodotti e alle tecnologie che usano, all’energia e alle risorse materiali che consumano, ai rifiuti che generano, agli edifici che costruiscono e occupano.
Questa impronta ecologica è stata misurata, come risulta dal documento fornito dalla “Rete Sostenibilità e Salute” RSS (insieme di associazioni che da anni si impegnano in maniera critica per proteggere, promuovere e tutelare la salute). Ad esempio il servizio sanitario inglese avrebbe emesso, nel 2015, 22,8 milioni di tonnellate equivalenti di anidride carbonica con un aumento annuale costante dal 1992, anno in cui sono iniziate le misurazioni. Negli USA, sono stati emessi nel 2013 655 mtCO2eq. Revisioni della letteratura sull’argomento mostrano che i servizi sanitari sono responsabili di circa il 3% dell’impronta ecologica totale in Gran Bretagna e di circa l’8% negli Stati Uniti.
Non ci sono dati per l’Italia, ma è probabile che si navighi sulle stesse cifre, come sostiene il curatore del documento Adriano Cattaneo, il quale inoltre afferma:
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