Introduzione
a cura di Enrico Larghero
medico chirurgo
Lebbra e tubercolosi sono entrambe malattie causate da un micobatterio, ma evolvono in modo molto diverso tra loro. La prima devasta la superficie corporea, il volto, gli arti, l’esterno dell’uomo, l’altra, la tubercolosi si insinua subdolamente all’interno dell’organismo (veniva anche detta mal sottile…) e colpisce organi e apparati, in primis, i polmoni. La loro storia ed i conseguenti effetti drammatici sulla popolazione si perdono nella notte dei tempi, coinvolgendo non solo la Medicina ma anche la società nel suo insieme, che ha creato ad hoc luoghi idonei di isolamento, di cura e di vita. Lebbrosari e sanatori sono narrati nella storia dell’umanità sin dagli albori.
Ugo Marchisio, medico d’urgenza e membro di organizzazioni sanitarie internazionali, ne ripercorre le vicende, maturando in noi la consapevolezza che tali calamità del passato con la globalizzazione e il multiculturalismo continuano ad essere una minaccia anche ai nostri giorni, un pericolo da cui difenderci, che deve imporci di non abbassare al guardia.
Un excursus storico tra medicina, narrazioni artistico-letterarie e credenze popolari
Tubercolosi e lebbra hanno come causa lo stesso genere di microbi, i micobatteri: Mycobacterium tuberculosis e Mycobacterium leprae per l’appunto. Al di là delle analogie eziologiche, condividono soprattutto un’aura tutta particolare di maledizione, pregiudizio e stigma che ha dato origine, nella storia dell’umanità, a orribili nefandezze ma, allo stesso tempo, ha nutrito l’arte, la letteratura, lo spirito e l’impegno solidale con una intensità ignota a qualsiasi altra malattia. Il fatto è che si tratta di infezioni croniche ed endemiche in cui, nel contagio e nell’evoluzione clinica, più che l’agente patogeno in sé, contano le caratteristiche dell’essere umano colpito.
Una pestilenza (epidemia) “non guarda in faccia nessuno” e, se non ci si può isolare come i giovani del Decameron, colpisce ugualmente il potente e lo straccione, il denutrito e il pasciuto; le micobatteriosi, invece, diffuse nell’ambiente in modo costante e ubiquitario, sembrano scegliersi le loro vittime in base alle caratteristiche di ciascuna, genetiche, ambientali e sociali. Il passo è breve nel trasformare le sfortune in colpe e la malattia in un marchio infamante di condanna a tutto tondo e di irreversibile emarginazione… «I suoi discepoli lo interrogarono: Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?» (Gv 9,2).
Un primo insegnamento ci viene dal fatto che la tubercolosi ha avuto origine nel regno animale (bovini soprattutto) e passò all’Homo sapiens con l’avvento della pastorizia. Si tratta quindi di un’antropozoonosi come l’ebola o la pandemia COVID-19. La tubercolosi è stata probabilmente il primo caso di “spillover” (salto di specie) nella storia dell’umanità! La paleopatologia ci offre comunque prove della presenza di entrambe le malattie fin da epoca preistorica (15.000-20.000 anni fa) in tutti i continenti.
La lebbra – peraltro confusa con svariate altre patologie della pelle – ebbe da sempre una enorme dimensione “metabiologica” e “metasanitaria”, dalla Thorà ai più antichi documenti di medicina cinesi ed indiani, mentre il boom epidemiologico e “culturale” della tubercolosi si registrò molto più tardi, nel XVIII e XIX secolo con la rivoluzione industriale ed il concentrarsi di molte persone in ambienti domestici e lavorativi malsani. Questo fatto ci insegna che purtroppo l’uomo continua a dare troppa importanza all’aspetto della pelle (la cosa più superficiale che abbiamo) rispetto a quanto sta all’interno ed il razzismo può essere non solo etnico, ma anche sanitario. Il “mal sottile”, la tubercolosi polmonare che non si vede all’esterno, emarginò molto meno della lebbra e cominciò a farlo solo in epoca moderna. Infatti l’unica manifestazione clinica della TB che faceva particolare impressione in epoca classica e medioevale era la scrofola (linfoadenite tubercolare del collo) perché evidentissima all’esterno, tanto che era oggetto del taumaturgico “tocco reale”, introdotto da Clodoveo in Francia nel 596, successivamente esteso anche in Inghilterra e proseguito fino al XIX secolo.
L’importanza dell’ambiente nel condizionare l’interazione batterio-ospite ci fa capire il peso preponderante che hanno, nelle micobatteriosi, i determinanti sociali della salute. Gerhard Armauer Hansen scoprì il Mycobacterium leprae nel 1873 in Norvegia, dove la lebbra era ancora endemica in quegli anni. Poi scomparve completamente dalla Scandinavia, senza un vaccino e senza farmaci antibatterici, solo per effetto delle migliorate condizioni di vita e di lavoro, di igiene e nutrizione, del popolo.
Quanto alla tubercolosi, era considerata, nei secoli XVIII e XIX, la malattia dei miserabili e delle prostitute. Ai falansteri descritti da Émile Zola ed alle miniere della Ruhr, dove «la silicosi è il letto della tisi» (come scrisse il patologo Marc Armand Ruffer), fanno eco eroine non certo tutte casa e chiesa. La Dame aux Camélias di Alexandre Dumas figlio, Violetta nella Traviata di Verdi e Mimì nella Bohème di Puccini ben esprimono, nell’intreccio melodrammatico eros-thanatos, lo stigma sociale che il micobatterio portava inesorabilmente con sé.
Dallo stigma a malattia sociale
A cavallo tra ‘800 e ‘900 assistiamo allo sviluppo della Medicina Sociale, con l’attivazione dei sanatori e la capillare opera di prevenzione, trattamento/isolamento e protezione sociale svolta dai Consorzi Antitubercolari nei Paesi ad alto reddito. Molto meno si fece per la lebbra che era ormai confinata ai Paesi a basso reddito e diventata stigma anche di “sottosviluppo”.
A proposito vi racconto un aneddoto personale che sottolinea come tra gli stessi malati di micobatteriosi, con la loro comune dose di emarginazione e stigma da portare sulle spalle, si possono creare distinzioni e “gerarchie”. Alla fine degli anni ’70 partecipai ad un corso medico sulla lebbra che si teneva a Fontilles (Spagna), uno dei centri dove si concentravano gli ultimi casi endemici europei, e notai che gli stessi ricoverati preferivano dire che stavano – o erano stati – in “sanatorio” e non in un “lebbrosario” perché la tubercolosi era comunque meno infamante della lebbra…
Lo sforzo di affrontare la tubercolosi come malattia sociale, insieme all’affermarsi della radiologia, ridusse comunque la mortalità ad un quinto, tra gli ultimi anni dell’800 e l’avvento degli antibiotici (1950 circa). È l’era gloriosa dei sanatori, della schermografia e del pneumotorace terapeutico di Forlanini, descritta da Thomas Mann nella Montagna incantata e vissuta personalmente da una folta schiera di grandi artisti e intellettuali come Alberto Moravia, Franz Kafka, Edvard Munch, Guido Gozzano, Cristóbal Rojas, Amedeo Modigliani ed Anton Chekhof … giusto per citarne alcuni, ma varrebbe veramente la pena di approfondire, per ciascuno di essi, l’influsso determinante che la malattia ebbe nell’estrinsecarsi del loro genio.
Lebbra e tubercolosi: simboli di morte e di riscatto! La tubercolosi per esempio ha segnato la fine di tante “vite di scarto” e, accompagnata da alcool e pallottole, addirittura l’estinzione di intere popolazioni indigene. Ma allo stesso tempo la lebbra, l’impatto brutale con i suoi malati, ha segnato una svolta decisiva nella vita di grandi personalità “solidali”, da San Francesco d’Assisi (Testamento) ad Ernesto Che Guevara (Diarios de Motocicleta).
© Bioetica News Torino, Aprile 2021 - Riproduzione Vietata