Medico e paziente rischiano sempre più spesso di trovarsi, oggi, nella situazione esistenziale descritta da Paolo Giordano nel suo romanzo La solitudine dei numeri primi: i protagonisti, Alice e Mattia, sono condannati a condurre due esistenze parallele, ma autonome, pur continuando a cercarsi perché la vita stessa li “accosta”, proprio come due numeri primi “gemelli”: sono i più vicini tra loro nella sequenza dei numeri possibili, ma non possono condividere nulla delle parti che li compongono. Allo stesso modo, medico e paziente, accomunati strettamente dal tema “salute” e da una relazione di cura, si ritrovano però separati da un invalicabile ostacolo di comunicazione, non riescono a creare quella relazione interpersonale che cercano dal profondo di se stessi.
C’è anche una realtà biografica…
Non credo sia un caso che la dimensione esistenziale della solitudine, sia del medico sia del paziente, torni alla ribalta ora, dopo la “traversata nel deserto” della pandemia Covid-19. Mia moglie, anche lei medico, ed io abbiamo vissuto questa avventura sia come medici sia come pazienti. È stata veramente un “segno dei tempi”, una lezione da fare nostra con la lettura sapienziale dello sguardo divino, oltre che con gli occhi dell’epidemiologo, del sociologo, dell’economista ecc. In particolare, abbiamo capito che di solitudine non sono malati i medici e/o i pazienti, ma è soprattutto malata la relazione tra di loro: in fondo solitudine significa, in assoluto, non relazione.
Di fronte allo spettacolo desolante di veder morire, in solitudine appunto, tanti pazienti e tanti familiari o amici, senza una persona cara vicino, né un sacerdote né una qualsiasi presenza amica, chi di noi non si è domandato se una rigida lettura “biologica” della realtà non avesse dovuto stemperarsi alla luce di una lettura anche “biografica”: non era proprio possibile aprire un minimo spiraglio di comunicazione, almeno nel momento estremo, anche per i pazienti in isolamento infettivo assoluto? Il tutto ovviamente con le doverose precauzioni del caso, anche la tuta integrale se necessario … Fa pensare che, per giorni e settimane, mentre si negava ogni contatto esterno ai moribondi dei “Reparti COVID”, noi operatori in prima linea eravamo costretti a lavorare senza neppure la mascherina…!
Credo quindi che la pandemia Covid-19 abbia semplicemente focalizzato ed amplificato all’estremo, come una reazione a catena, una situazione di solitudine già pre-esistente che trova le sue radici nella cultura individualistica e materialistica di cui è impregnata la nostra società e investe pesantemente anche il campo della Medicina e della Bioetica. La condizione di solitudine del medico e del paziente scaturisce infatti dalla mancanza di una relazione vera e profonda tra di loro, perché ciascuno è portato ad identificare – consciamente o inconsciamente – la propria felicità con la realizzazione narcisistica delle proprie aspettative individuali, ripiegandosi su se stesso. Ma come disse Zygmunt Bauman poco prima di morire, l’uomo, così come non è felice in condizione di coercizione e dipendenza, non lo è neppure se completamente libero e autonomo, avulso da ogni vincolo, perché si accorge così di essere del tutto irrilevante per gli altri, proprio come gli altri lo sono per lui. La condizione di vera felicità e di piena realizzazione di se stesso, l’essere umano la può trovare solo nell’interdipendenza, in una interazione non utilitaristica o di difesa o di aggressione, ma di solidarietà reciproca.
La solitudine, comune al medico, al paziente ed alla interazione tra di loro, può nascere sì dalla privazione dell’altro, come nel caso delle misure draconiane legate all’isolamento durante la pandemia Covid-19, ma anche dall’annullamento dell’altro come persona con cui relazionarsi in modo non egoistico, ma empatico e solidale.
Di quali solitudini soffre il medico?
Non valgono i soliti alibi “esterni”. La nostra solitudine non nasce dalla burocrazia che ci martirizza, dall’essere anche manager e non solo clinici, dall’”aziendalizzazione” della Sanità, dalle cause legali e dalla conseguente medicina difensiva. Il problema non sono i nuovi mezzi di comunicazione digitale, l’assillo dei WhatsApp e delle email dei pazienti o il fatto di dover confutare i consulti che hanno avuto dal “Dottor Google”.
Il problema della solitudine è che abbiamo sempre più connessione, ma sempre meno relazione, rimaniamo individui e non riusciamo a crescere e diventare persone (= individui relazionati). In altre parole cerchiamo la causa della nostra solitudine nei mezzi di comunicazione moderni, di cui disponiamo in modo smisurato e, purtroppo, ci bombardano di messaggi senza veicolare semi di interrelazione vera, semi che facciano germogliare la pianta di un’autentica alleanza terapeutica.
La solitudine del medico come puro professionista, erogatore di prestazioni tecniche, e del paziente come cliente, con un contratto in una mano e un esposto alla Magistratura nell’altra, rappresenta in fondo l’impossibilità di creare una vera relazione tra i due, tanto più che ci si muove in uno scenario di medicina sempre e solo biologica, ingabbiata dai sacri confini della EBM e basta, ma allo stesso tempo di una medicina non più dei bisogni ma dei desideri: chirurgia plastica per essere uguale alla propria foto elaborata al PC e messa su FB, tendere all’immortalità con l’uploading del proprio cervello o la sostituzione dei “pezzi anatomici difettosi” con soluzioni tecnologiche artificiali tipo cyborg ecc.
E allora non possiamo stupirci che anche di fronte alla pandemia COVID-19 le misure di salute pubblica, come pure le “coping strategies” personali di operatori e cittadini, producano inevitabilmente situazioni di solitudine. La solitudine dei reclusi/ricoverati forzati dell’Hubei, frutto della “controllocrazia” cinese, come la solitudine nella fuga e nell’autoisolamento di chi pensa solo a fuggire dagli altri come appestati e non si sogna neppure di condividere il minimo sforzo per aiutare la collettività (soluzione alla Decameron del Boccaccio).
La solitudine nella narrativa
E per restare nel campo letterario, troviamo bellissime descrizioni di solitudine in corso di epidemie, dove ognuno cerca di seguire individualmente – o forse potremmo dire egoisticamente – la sua personale via di fuga o il suo personale tornaconto, senza pensare agli altri, ma si ritrova alla fine sconfitto dalle circostanze. Chi invece crede in una speranza solidale, battendosi per gli altri, indica a tutti l’unica via, se non per risolvere la situazione, almeno per dare senso alla vita sua e altrui.
Tutti noi ricordiamo lo sguardo di carità cristiana con cui Alessandro Manzoni dipinge le vicende dei vari personaggi dei Promessi Sposi durante la peste di Milano. Ma anche scrittori assolutamente laici come Albert Camus (La peste) e José Saramago (Cecità) ci fanno comprendere come ogni soluzione individualistica ed egoistica nell’affrontare la vita, la malattia ed i suoi drammi, porti inevitabilmente ad una sterile solitudine, mentre la ricerca di una relazione solidale è l’unica soluzione per uscirne, se non sicuramente vittoriosi, certamente degni e realizzati come esseri umani.
© Bioetica News Torino, Luglio 2020 - Riproduzione Vietata