Presso lo storico Palazzo Greppi dell’Università Statale di Milano, alcuni mesi fa, era il primo febbraio, l’Associazione dei medici cattolici sezione milanese organizzò un convegno, in collaborazione con l’Omceo, intitolato «Solitudine del medico, solitudine del malato».
Il medico sente su di sé l’impotenza di non poter dedicare abbastanza tempo, di ascolto, di attenzione, di qualità verso i pazienti che una relazione di cura richiederebbe. Si trova a vivere una professione medica tra il disbrigo di pratiche burocratiche digitalizzate e il carico di responsabilità nelle decisioni etiche, tra la conflittualità all’interno della struttura sanitaria “aziendale” e la prepoderanza tecnologica nella comunicazione con i pazienti e il senso di solitudine interiore nella scelta di cure nell’assistenza di un malato con prognosi infausta.
Ha bisogno di poter parlare, condividere le proprie difficoltà con i colleghi di lavoro, di avere del tempo per sé, o “una buona solitudine”, per recuperare quelle forze fisiche, intellettive e spirituali necessarie per porsi in una relazione di alleanza “terapeutica” con i pazienti.
Sono questi alcuni dei punti discussi nella gremita sala Napoleonica, che sono stati moderati da Mauro Percudani, Direttore del Dipartimento di Salute mentale presso l’Ospedale Niguarda di Milano. Ha aperto i lavori il presidente dell’Amci di Milano Alberto Cozzi spiegando che con l’incontro si vuol elaborare e condividere in seno ad un dialogo laico e cristiano possibili soluzioni alle difficoltà che i medici incontrano nello svolgimento della loro professione e anche far emergere quella accezione positiva della solitudine, che guardando ad essa come a un modo di prendersi cura di se stessi, può migliorare la relazione medico – paziente, espressione di una comunicazione unica e singolare.
La ” buona” solitudine è quella che Monsignor Mario Delpini, Arcivescovo della Diocesi di Milano, paragona ad un’oasi, «sospirata nel cammino logorante del deserto», che sta per «un tempo per sé», ovvero «una risorsa necessaria per persone che hanno responsabilità professionali sulle persone e sulle istituzioni: hanno bisogno di tempo per l’aggiornamento, per la riflessione in vista delle scelte da compiere, per recuperare lucidità e calma per essere nelle condizioni di esercitare la pazienza nelle relazioni, l’ascolto attento negli incontri, la proporzione nelle reazioni».
Alle tante solitudini che possono “ferire” il medico ha fatto riferimento il Magnifico Rettore Elio Franzini dell’Università degli Studi di Milano UniMi nel porgere un saluto istituzionale: dinanzi all’inguaribilità di un malattia la riflessione profonda sulla cura nell’accompagnamento del paziente morente, le decisioni, l’adattamento all’evolversi della medicina per struttura, metodiche, ricadute etiche.
Da un problema legato ad una situazione esistenziale intimistica, del privato, segreta, che solo la poesia e la narrativa sapevano dare voce, oggi la solitudine assume la condizione di un fenomeno nuovo sociale, sanitario e persino politico, che viene descritto da Elisa Buzzi, ricercatore di Filosofia morale dell’Università degli Studi di Brescia.
Da oncologo Carlo Verusio, Direttore dei dipartimenti di Oncologia medica ASST Valle Olona e dell’ATS dell’Insubria, fa notare come solitamente si pensa che l’oncologia sia la specialità che più di tutte richiami il senso della sofferenza e della morte. L’ipertecnologia è uno dei temi della solitudine e l’antidoto è l’umanizzazione della medicina: «Davanti ad una medicina tecnica non posso non sentire il bisogno di ribadire a gran voce l’importanza per ogni medico di avere come missione la cura della persona dell’uomo prima della sua malattia». E domanda: «Una maggiore attenzione alle capacità attitudinali di un adolescente che vuole diventare medico, ed un monitoraggio delle motivazioni e dello sviluppo di capacità umanistiche nel corso degli studi di medicina è solo un’utopia?»
Stanchezza, demoralizzazione si riversano sul medico che vive il conflitto interiore per la sproporzione tra quello che si può fare e quello che sarebbe giusto fare, tra quello di cui c’è bisogno e quello che in qualche modo viene dato. Chi cura non è il singolo medico, ci sono radiologi, infermieri…un’equipe. «Oggi curare è un atto cooperativo, comunitario… Chi non ha la concezione di sapersi distaccare dalla propria competenza, dal “faccio tutto quello che posso fare”, nobilitante da un lato ma cieca dall’altro, per concentrarsi sul paziente chiedendo aiuto, una collaborazione “interdisciplinare”, si condanna alla solitudine, afferma Marco Trivelli Direttore generale ASST degli Spedali civili di Brescia.
Pubblichiamo alcuni interventi per i quali siamo grati per la collaborazione, ed esprimiamo un vivo ringraziamento, al vice Presidente nazionale dell’AMCI Franco Balzaretti. Oltre al saluto del suddetto vice Presidente Amci, l’introduzione curata da Alberto Cozzi, presidente Amci sezione di Milano, la relazione magistrale dell’Arcivescovo di Milano Monsignor Mario Delpini e la conclusione dei lavori di Alfredo Anzani, docente di Etica clinica presso l’Ospedale San Raffaele – Milano e membro corrispondente della Pontificia Accademia per la Vita.
© Bioetica News Torino, Luglio 2020 - Riproduzione Vietata