Per il suicidio assistito si fa prevenzione? Interrogativo dei Vescovi svizzeri nel messaggio per la GGM Anche considerazioni del dr Pavesi della Fiamc sul pericolo dell'effetto della publicizzazione del suicidio assistito
30 Gennaio 2019Inizia con il riferimento alle direttive sul fine vita elaborate di recente dalla Accademia Svizzera delle Scienze Mediche (ASSM), che hanno destato clamore e una contestata posizione anche da parte della Federazione dei Medici Svizzeri, il messaggio della Conferenza dei Vescovi svizzeri per la celebrazione della Giornata mondiale del Malato che ricorre nella solennità della Beata Vergine Maria di Lourdes, 11 febbraio.
Firmato da Monsignor dr Marian Eleganti Osb, vescovo ausiliare di Coira e responsabile della suddetta pastorale nella Conferenza dei Vescovi Svizzeri, il testo cita che tali linee guida «intendono ampliare i margini dell’assistenza al suicidio facendo leva su un concetto difficilmente precisabile di “sofferenza insopportabile, estendendone l’applicazione anche a bambini e adolescenti di ogni età, così come a malati psichici e portatori di handicap di varie tipologie».
I vescovi svizzeri pongono una domanda chiara che pone in evidenza un’ambigua interpretazione della relazione tra prevenzione e suicidio in sanità: «Esiste un “buon suicidio” o un “suicidio giustificato” promosso dalle organizzazioni per l’assistenza al suicidio, in opposizione a un suicidio “cattivo” da impedire tramite i tentativi di prevenzione promossi dallo Stato?». Al suicidio verrebbe data una connotazione ambivalente e anche contradditoria in sé. Se si considera il senso attribuito alla Giornata mondiale annuale per la prevenzione contro il suicidio, a causa del quale muoiono 800mila persone al mondo ogni anno secondo i dati dell’Oms, con gli impegni per cercare strategie di contrasto, la contraddizione appare evidente. Scrivono i vescovi: «da una parte il suicidio va impedito tramite la prevenzione, dall’altra si evita di affrontare il tema dell’assistenza al suicidio nella questione della prevenzione».
Se vale il principio di “autodeterminazione” e il concetto di «sofferenza insopportabile» per l’accettazione del “buon suicidio” allora perché, chiedono i vescovi, in quel che chiamano “cattivo” suicidio, determinato da sofferenze e da un carico considerato soggettivamente insopportabile, “autodeterminazione” e “autonomia” vengono messi in discussione per dare invece un aiuto attraverso misure preventive e assistenziali? Un’altra considerazione comparativa è che l’atto del suicidarsi si manifesta il più delle volte in modo pianificato e che tale gesto ricorre anche maggiormente in età avanzata.
Sul significato della vita umana quale dono di Dio, prosegue poi la lettera dei Vescovi, che anche nelle fasi di malattia e di invecchiamento va considerata quale bene prezioso di cui prendersi cura sempre in modo amorevole fino alla morte, accompagnandola, alleviando le sofferenze nel miglior modo possibile, e quando la cura non è più possibile, con gesti di amore, di accoglienza e di prossimità, in un uno scambio reciproco di relazioni. Alla figura di madre Teresa di Calcutta, concludono, citata come esempio da Papa Francesco nel Messaggio di quest’anno, che ha dato testimonianza di un amore verso il prossimo che «ha saputo incarnare».
Non solo l’opposizione viene da parte della Chiesa ma un deciso diniego alle nuove linee guida sul fine vita pubblicate dall’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche viene anche dalla Federazione dei medici svizzeri, composta da un centinaio di membri, nella riunione del 25 ottobre dell’anno scorso, determinato proprio dall’inserimento della voce «tra le condizioni per il suicidio assistito una “sofferenza insopportabile” ». Si verrebbe meno al «chiarimento delle questioni etiche in relazione al progresso medico» e alla rappresentazione della «coscienza morale dei medici svizzeri» che ci si aspetta dal ruolo dell’Accademia, con il proporre di «legittimare eticamente la partecipazione dei medici al suicidio assistito, contraddicendo il principio che l’arte medica deve servire alla vita e non alla morte». Ha spiegato il dottor Ermanno Pavesi, membro della Presidenza FIAMC (Federazione internazionale dei Medici Cattolici), nella relazione «Considerazioni su suicidio e suicidio assistito», pubblicato il 2 gennaio sul sito istituzionale.
Nella lettera di risposta alla Federazione dei Medici Svizzeri l’Accademia, il giorno successivo, prende atto della decisione di non integrare le direttive nel codice deontologico della FMH a causa del criterio che «”la sofferenza soggettivamente percepita come insopportabile” quale motivo per una possibile assistenza medica al suicidio», considerato «come un concetto giuridico impreciso, che apporta un po’ di incertezza nei medici». La prima volta che accade in vent’anni, dovrà considerare i tempi per analizzare le conseguenze della decisione e invita a partecipare ad un dialogo costruttivo sul tema.
Sull’effetto negativo che la pubblicizzazione del suicidio assistito potrebbe avere su un aumento del numero di suicidi, secondo l’analisi di alcuni studi, richiama l’attenzione il dr. Pavesi, sempre nella sua relazione Considerazioni... . Si creerebbe un disorientamento sul concetto di suicidio, non più ritenuto come «un “atto di disperazione”, ma come una scelta non solo razionale, moralmente accettabile e condivisa dai parenti, ma che viene anche proposta come affermazione di libertà e autonomia», disconoscendo invece quell’atteggiamento ambivalente che accompagna quasi sempre le idee suicidarie. Quando compaiono frustrazione, smarrimento, impotenza nel superare situazioni difficili della vita può svilupparsi «una sindrome presuicidaria, con alti e bassi». È in tal caso che chi ha bisogno di aiuto lo riceva, in un consultorio specializzato o in un gruppo di auto-aiuto, con «la sensibilizzazione di certe professioni che vengono a contatto con persone a rischio». Il problema è, come spiega il dr Pavesi, nel rischio che tali persone con la pubblicità data al suicidio assistito vengano indotte a considerarlo come «la soluzione migliore». Nella vasta rete di internet confluiscono diverse informazioni, seppure in canali differenti, legali e non, su istruzioni, medicinali e organizzazioni specializzate.
Pertanto necessita considerare l’ambivalenza, la sensazione di non poter più vivere o l’attaccamento alla vita, che fino alla fine è presente. Il dr. Pavesi riporta lo studio del prof. David Owens, professore di psichiatria all’Università di Edinburgo, effettuato sull’analisi di 90 studi sui dati di suicidi dopo un tentativo fallito: «entro un anno il 16% per cento delle persone aveva ripetuto un nuovo tentativo senza esito letale, mentre circa il 2% aveva commesso un suicidio, percentuale che sale al 7% a distanza di 9 anni. Quindi, a distanza di un anno, più dell’80% non ha ripetuto il tentativo e circa il 98% è ancora in vita». Pavesi conclude affermando che seppure sia «impossibile sapere se tutti gli aspiranti suicidi richiederebbero il suicidio assistito, ma quelli che lo facessero non avrebbero chance alcuna di sopravvivere, non avrebbero la possibilità di superare il momento di disperazione e di ritrovare il senso della vita, non avrebbero né la possibilità di chiedere aiuto dopo aver ingerito una dose eccessiva di medicinali, né quella di rallegrarsi per il fallimento del loro tentativo».