Se l’utero in affitto nasconde lo sfruttamento
08 Dicembre 2015La discussione assai accesa che si è aperta sulla maternità per contratto, oltre a sottolineare l’urgenza di chiarire tale questione per sottrarla al dibattito sul disegno di legge relativo alle unioni civili, mostra la complessità delle sfide che ci troviamo ad affrontare, nella consapevolezza che ogni progresso scientifico rende più difficili la morale e il diritto.
All’appello lanciato, da un lato, da «Se non ora quando», che evidenzia i pericoli
connessi ad una mercificazione del corpo femminile – ridotto a mero contenitore per i desideri procreativi altrui – nonché la riduzione del bambino a merce di scambio e invoca la necessità di una messa al bando internazionale della pratica dell’“utero in affitto”, fa riscontro, dall’altro, la difesa di un’idea di famiglia non più legata al dato biologico e di rapporti parentali fondati su accordi liberi e volontari tra adulti, aventi per oggetto l’utilizzo delle capacità riproduttive.
Al cuore della questione, come si vede, è l’idea stessa di contratto e la possibilità di applicare tale figura alla procreazione. Quali opportunità può offrire e quali problemi comportare? È auspicabile? Chi sostiene tale opzione rileva, ad esempio – è la tesi della femminista Carmel Shalev – che essa, oltre a sancire il potere economico della donna e la sua piena capacità di assumere impegni e di stipulare contratti consentirebbe la transizione ad una visione più aperta della famiglia, quella di individui liberamente cooperanti e quindi più atti ad assumere la cura dei figli. Parlare di cooperazione e di modello aperto di famiglia è certo assai suggestivo ma, occorrerebbe chiedersi,
cosa c’entra tutto questo col contratto? Contratto significa interessi da comporre
più che responsabilità da condividere.
La cronaca ha mostrato esempi clamorosi di diritti in conflitto tra le diverse figure parentali – la madre “portatrice” e la coppia committente – ciò che ha consigliato il legislatore di affermare prudentemente l’illiceità dei cosiddetti contratti di surrogazione. L’esperienza stessa dell’adozione – cui talora ci si si richiama per sottolineare l’importanza del vincolo affettivo rispetto a quello biologico – non deve farci dimenticare una differenza profonda: il contratto “crea” deliberatamente una situazione di separazione tra madre e neonato, l’adozione “ripara” il lutto di una separazione non voluta, un lutto che per molti aspetti si rivela spesso insanabile.
A chi sostiene che il contratto sarebbe un modo di rendere “razionale” la procreazione, con l’affermazione del potere decisionale della donna, si potrebbe obiettare che si tratta di una forma ben misera di razionalità, quella ispirata dalla ragione tecnica del mercato, a cui la donna dovrebbe accedere per contrastare le immagini stereotipate che la vogliono dominata dall’affettività. In
tal modo, paradossalmente, la donna si affermerebbe come soggetto autonomo solo nella misura in cui può vendere o affittare una parte di sé.
Parlare di contratti “oblativi” in cui lo spirito della donazione ispiri la decisione di diventare madre per altri significa, d’altra parte, avallare una contraddizione in termini tra due logiche incompatibili: quella del dono, che è gratuità assoluta, e quella del mercato, che è contabilità della prestazione. Non è possibile ignorare che dietro la maternità per contratto si può celare, come sotto la punta di un iceberg, la realtà drammatica di decisioni che, dietro la veste rassicurante della liceità legale,nascondono situazioni di estremo bisogno, se non di sfruttamento.
Può essere seducente difendere il principio stesso della surrogazione – come invita a fare lo scrittore Emanuele Trevi – affermando che «la possibilità di prendere su di sé parte del destino di un altro è uno dei fatti che può renderci fieri di essere umani». Peccato,verrebbe amaramente da aggiungere, che si tratti esattamente dell’opposto. Perché mettere al mondo un figlio per un altro e consegnarlo alla sua nascita significa ipso facto rinunciare a
prendere su di sé quel destino e aver semplicemente contribuito ad avviarlo…La nostra “fierezza di essere umani” dovrebbe semmai consistere nella responsabilità per ogni singolo atto, specie quando, comporta conseguenze per altre persone che intraprendono, grazie a noi, un’avventura non richiesta ma di cui dovremmo comunque sentirci chiamati a prenderci cura.
Luisella Battaglia
Fonte:«Il Secolo XIX»