Il terzo millennio è contrassegnato da una inedita mutevolezza. La compressione del tempo e dello spazio, la scoperta e l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale hanno dilatato enormemente l’orizzonte culturale entro cui si esperiscono differenti e contrastanti visioni dell’umano. L’uomo neomoderno1 è un soggetto disorientato e disilluso, alla ricerca di se stesso. Il recupero del sé, tuttavia, non avviene facendo appello ad un’Alterità metafisica e nemmeno alla forza della ragione pura, ma attraverso la tecnica che, nell’era del Post-, ha assunto le vesti di una dea. Le nuove biotecnologie, nelle loro pressoché illimitate possibilità di ricostruire e reinventare il corpo, spostare DNA tra specie diverse, cancellare il passato genetico e pre-programmarne il futuro, hanno un ruolo centrale.
Verso un’ideologia transumanista. Il ruolo delle biotecnologie nel postmodernismo
La vita, per secoli ritenuta opera di Dio, viene ora ripensata e reimmaginata come uno strumento artistico dalle illimitate possibilità.
Se la rivoluzione scientifica moderna aveva cambiato la natura intorno all’uomo, la rivoluzione biotecnologica postmoderna ha dischiuso la possibilità di modificare la stessa natura dell’uomo. Già Nietzsche, a suo tempo, scriveva: «Tutto il nostro essere moderno, in quanto non è fiacchezza, bensì potenza e coscienza di potenza, ha l’aspetto di mera hybris (…) Hybris è la nostra posizione di fronte a noi stessi, giacché eseguiamo esperimenti su di noi, quali non ci permetteremmo su nessuno animale, e soddisfatti e curiosi disserriamo l’anima tagliando nella carne viva: che cosa ci importa ancora la “salute” dell’anima!»2
Tutto ciò che avviene nell’uomo non sarebbe altro se non espressione di circuiti neuronali. Fenomeni come ragione, emozione, immaginazione e spiritualità sono ricondotti all’attività dei circuiti cerebrali. La postmodernità si configura come una sorta di metamorfosi delle relazioni personali trasformando queste ultime in relazioni funzionali, negando ogni fondamento pratico-affettivo del legame sociale. Il mondo è come privatizzato, senza più comunità, senza contenitori di legami sociali e significati collettivi, mortificato in una miriade di mediazioni: educazione, amicizia, lettura, lavoro, di cui è intrecciata la società.3
È sullo sfondo di questi modelli cognitivi che si sviluppa l’ideologia transumanista, rappresentando un approccio radicalmente nuovo alla biologia, alla natura e alla tecnica, basato sul concetto che l’essere umano non è il prodotto finale dell’evoluzione ma solo l’inizio. Il Transumanesimo, parola usata per la prima volta da Julian Huxley ma coniata dal gesuita paleontologo Theilard De Chardin, secondo quando riporta Wikipedia, è un movimento culturale e intellettuale internazionale che sostiene l’uso delle scoperte scientifiche e tecnologiche per aumentare le capacità fisiche e cognitive e migliorare quegli aspetti della condizione umana che sono considerati indesiderabili, come la malattia e l’invecchiamento, in vista anche di una possibile trasformazione postumana.
L’immortalità “terrena” dell’ “io” transumanista
Se gli umanisti sostengono l’importanza del singolo essere umano, del pensiero razionale, della libertà, della tolleranza e della democrazia, i transumanisti concordano con tutto ciò ma aggiungono una forte enfasi su quello che l’uomo potrebbe potenzialmente divenire. L’umanità, secondo questa visione, in un futuro indefinito ma non troppo lontano, sarà trasformata dalla tecnologia del futuro. Si vede la possibilità di ri-progettare la condizione umana in modo da evitare l’inevitabilità del processo di invecchiamento e di limitazione dell’intelletto umano. Gli appartenenti a questa ideologia sostengono il diritto morale di utilizzare metodi tecnologici, da parte di coloro che lo vogliono, per espandere le proprie capacità fisiche ed intellettuali e per aumentare il livello di controllo sulla propria vita. Essi aspirano ad una crescita personale ben al di là delle limitazioni biologiche a cui si è oggi legati. Il Transumanesimo ritiene che l’uomo così come lo conosciamo deve essere superato e desidera ardentemente l’immortalità e non in un fantastico aldilà, ma sulla Terra, mediante tutti gli strumenti che la scienza e la tecnica metteranno a disposizione dell’uomo nei decenni che verranno. I transumanisti vogliono, in buona sostanza, un lieto fine senza fine. E se magari nel frattempo si riuscisse pure a trasformare la terra nel Paradiso della Tecnica, cioè in un mondo molto migliore di questo, tanto meglio4.
Secondo Elena Postigo Solana la stessa definizione di Transumanesimo pone già una serie di interrogativi fondamentali: cosa intendiamo per miglioramento (enhancement) della specie umana? Dov’è il limite tra terapia e miglioramento? Quando un uomo è normale e quando non lo è? Il criterio di normalità è stabilito in base a degli standard fisici e a statistiche sul numero di esseri umani che la possiedono?.5
Migliorare la qualità della vita dell’essere umano potenziandone capacità fisiche e cognitive è, certamente, un impegno tanto lodevole quanto apprezzabile. Pensare, però, di eliminare aspetti non desiderati quali potrebbero essere l’invecchiamento o, perfino la morte, inizia ad essere complesso e suscettibile di numerosi interrogativi. L’idea dell’immortalità o di una esistenza scevra da qualsivoglia limite potrebbe, nell’immediatezza, risultare avvincente ed affascinante, ma come afferma il filosofo francese Jean Michel Besnier riconciliarci con la nostra finitudine, accettare le nostre debolezze è il prerequisito per salvare l’umanità̋̏̋̏.
Beigbeder nel suo romanzo Vita senza fine afferma perentoriamente: «La morte è roba da pigri, solo i fatalisti possono crederla ineluttabile. (…) L’umanità ha conquistato tutto: gli oceani più profondi, le montagne più inaccessibili, persino la luna e Marte. È venuto ora il momento per la medicina di fare l’eutanasia della morte. Poi ci si adopererà per trovare posto per tutta la popolazione in vita. Il cattolicesimo prega per la vita eterna: io voglio la vita eterna senza farmi pregare…».6
Riflessione etica
Le parole di Beigbeder suggeriscono che ciò che viene messo in crisi dalla prospettiva transumanista non è la morte in se ma il suo statuto ontologico e il suo ruolo simbolico. La morte viene svuotata di senso non solo dal punto di vista sociologico, ma anche dal punto di vista oggettivo, giacché ne viene proclamata ontologicamente la sua naturale insensatezza. Il morente viene considerato uno sconfitto, un perdente. La morte va non solo esorcizzata, ma affrontata e semmai superata a beneficio di una vita infinita. La morte non è sicuramente l’essenza dell’umano, ma certamente una sua condizione costitutiva che crea angoscia e paura se non accettata come il naturale trapasso verso una vita qualitativamente diversa. Siamo fatti per l’eternità o meglio per l’immortalità e quest’ultima «non nasce dal rifiuto della realtà biologica, ma dal suo riconoscimento, non dalla cecità nei confronti della morte ma dalla sua lucida accettazione».7
Migliorare la vita, potenziarla e curarla è compito precipuo dell’uomo, ma optare per un prolungamento all’infinito, anche in un ambiente che è non più il corpo ritenuto un involucro rottamabile, è poco rispettoso della dignità della struttura individuale costituita da coscienza e corpo. Accettare la finitudine, nella sua assoluta fragilità, significa accettare quell’intangibile mistero del tempo in cui ogni uomo è immerso e agisce.
1 MORDACCI, La condizione neomoderna, Einaudi 2017
2 F. NIETZSCHE, «Genealogia della morale», in Opere di Friedrich Nietzsche, Adelphi, Milano 1964, VI/2, III, 9, p. 316
3 Cfr. P. BARCELLONA, La strategia dell’anima, edizione Città aperta, Troina (EN) 2003
4 Cfr. R. MANZOCCO, Esseri Umani 2.0. Transumanismo: il pensiero dopo l’uomo, Spinger, Milano 2014, p. 3
5 E. POSTIGO SOLANA, Transumanesimo e postumano: principi teorici e implicazioni bioetiche, in «Medicina e morale», 2009/ 2, pp. 267- 268
6 F. BEIGBEDER, Una vita senza fine, Bompiani, Milano 2019, pp. 41-65
7 E. MORIN, L’uomo e la morte, Meltemi, Roma 2002, p. 44
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