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8 Aprile 2013
Supplemento Laici e cattolici in bioetica: Storia e teoria di un confronto

Notizie dall’Italia

1. Nuovo Piano di azioni nazionale per la salute mentale

7 marzo 2013

Dalle singole prestazioni al «percorso di presa in carico e di cura». È questo il tratto fondamentale del Piano di azioni nazionale per la salute mentale, approvato in Conferenza unificata il 24 gennaio 2013.

Elaborato dal Ministero della salute, in collaborazione con il Gruppo tecnico Interregionale Salute Mentale (GISM) della Conferenza delle Regioni, il documento affronta, in maniera sistematica e condivisa, le tante criticità del settore, definendo gli obiettivi di salute per la popolazione, le azioni e gli attori necessari per conseguirli, i criteri e gli indicatori di verifica e valutazione.

In particolare, il Piano individua alcune aree omogenee, ritenute prioritarie, sulle quali orientare progetti specifici e differenziati, di livello regionale e locale, che prevedano l’implementazione di percorsi di cura capaci di intercettare le attuali domande della popolazione e che contribuiscano a rinnovare l’organizzazione e l’integrazione dei servizi, le modalità di lavoro, i programmi clinici offerti.

Il documento è stato elaborato a partire da una prima stesura, che già suggeriva le principali linee di indirizzo relative alla tutela della salute mentale della popolazione rilevando, accanto alla diffusione dei disturbi psichici, l’emergere di nuovi bisogni in uno scenario sociale e sanitario mutato, definendo con chiarezza i punti di criticità da affrontare nell’ambito della salute mentale, sia dell’età adulta, che dell’infanzia e adolescenza.

Aree di bisogno.

Le aree indicate sono:

• area degli esordi-intervento precoce
• area dei disturbi comuni ad alta incidenza e prevalenza (depressione, disturbi d’ansia)
•area dei disturbi gravi persistenti e complessi
• area dei disturbi dell’infanzia e dell’adolescenza

Altre aree di interesse individuate dal piano, sulle quali viene richiamata l’attenzione, sono:

• disturbi dell’umore
• prevenzione del suicidio
• disturbi della personalità e disturbi del comportamento alimentare
• disturbi dello spettro autistico
•trattamenti psichiatrici residenziali
• problemi della salute mentale degli immigrati

Particolare attenzione viene dedicata, inoltre, alle aree di integrazione fra i servizi, necessarie per assicurare la continuità delle cure. Un aspetto fortemente qualificante del Piano è rappresentato dalla ridefinizione del concetto di LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) in salute mentale, laddove il riconoscimento della complessità, multifattorialità e necessità di integrazione degli interventi ne giustifica la declinazione in termini di «percorso di presa in carico e di cura esigibile», incoraggiando, così, il superamento dell’approccio “prestazionale” alla domanda di cura.

Il Piano prevede che, entro sei mesi dall’approvazione, si debba implementare e sviluppare il sistema informativo per la Salute mentale.

(Fonte: http://www.salute.gov.it)

2. Stop ai test sugli animali per i cosmetici

9 marzo 2013

Niente più test sugli animali per i prodotti cosmetici. Da lunedì 11 marzo è entrato in vigore il divieto totale, in tutto il territorio comunitario, di testare e commercializzare ingredienti e prodotti cosmetici sperimentati su cavie.

Si tratta della tappa finale di un processo di progressiva limitazione dell’impiego di test su animali per le verifiche di sicurezza da parte dell’industria cosmetica. Sono quasi 20 anni, infatti, che va avanti l’iter legislativo per l’abolizione dei test su animali per i prodotti cosmetici.

La normativa italiana e quella europea hanno imposto divieti graduali. Tra i traguardi più recenti, va ricordato che già da marzo 2009 nessun ingrediente dei cosmetici può essere testato su animali in Ue ed è vietato commercializzare nel territorio comunitario prodotti che contengono ingredienti testati su animali al di fuori dell’Europa comunitaria. Ma dai divieti restavano fuori ancora cinque test, fortemente invasivi e diffusamente praticati: tossicità per uso ripetuto, inclusi sensibilizzazione cutanea e cancerogenicità, tossicità riproduttiva, e tossicocinetica. E sono proprio questi i test che sono stati proibiti dall’11 marzo.

Le aziende cosmetiche utilizzeranno altri metodi per testare i vari prodotti, diventando così un esempio per tutti gli altri settori.

(Fonte:  http://www.salute.gov.it/cosmetici/paginaDettaglioCosmetici.jsp?id=160&menu=sperimentazione)

3. Cattolici e musulmani: doppio no all’eutanasia

9 marzo 2013

Un tema controverso, dibattuto, fortemente sofferto. La fine della vita, la condizione dei pazienti terminali, l’eutanasia. Si tratta spesso di un momento dell’esistenza caratterizzato da forti sofferenze, dolore e angoscia: sentimenti provati non solo dai degenti, ma anche dai loro cari e dai medici che li accompagnano.

Quale l’atteggiamento adottare? Quale terapia? Fino a dove spingersi? Di questo si è parlato il 9 marzo scorso a Milano in un convegno promosso dall’Associazione Davide Soligo, dove sulla questione “eutanasia” hanno preso la parola esperti di bioetica cattolici e musulmani accompagnati dal professore Gianni Vattimo.

Un argomento che è tornato d’attualità in Francia e in Belgio e che non ha cessato comunque di scuotere le coscienze anche in Italia. Maria Chiara Biagioni per l’agenzia giornalistica Sir ha raccolto le posizioni dell’etica cattolica e musulmana. «Quantitativamente – esordisce Michele Aramini, docente di bioetica all’Università Cattolica di Milano – la richiesta di eutanasia è assolutamente minima. Dai media si ha invece l’impressione che la metà della popolazione ponga questa domanda. In realtà le persone che sono effettivamente nella condizione della terminalità non chiedono di morire ma chiedono di essere accompagnate con la terapia del dolore e di essere trattate bene».

L’esperta ricorda a questo proposito uno studio condotto dall’Istituto dei Tumori di Milano secondo il quale in 25 anni, su 40 mila soggetti oncologici, le domande di eutanasia erano state circa 900. Trattati con le cure palliative, il numero di pazienti scendeva addirittura a 5. «Credo sia importante partire dalla realtà perché le persone possono avere paura della morte ma non chiedono l’eutanasia». L’eutanasia, dunque, secondo l’esperta «fa parte di quella categoria di nuovi diritti di cui si vorrebbe l’introduzione, ma che non corrispondono a un’esigenza reale della popolazione».

In Francia, Belgio e Olanda il dibattito sull’eutanasia è sempre più acceso. In Belgio per esempio si discute per estenderla ai minori di 15 anni e ai malati di Alzheimer, in Francia, è il Consiglio etico dell’Ordine dei medici a spingere in questa direzione. «È cambiato il paradigma culturale», commenta Aramini, parlando del rischio che può correre il medico di fronte a condizioni di fragilità e vulnerabilità come nella malattia terminale per cui «non si ci trova più di fronte ad una persona, ma di fronte ad un oggetto biologico». E aggiunge: «È civile un Paese non quando concede l’eutanasia, e quindi si disinteressa del destino delle persone. Ma è civile un Paese quando risponde ai bisogni reali delle persone. In Italia c’è stato un grande passo avanti nelle cure palliative che stanno crescendo, purtroppo però a macchia di leopardo. La vera sfida è rendere questo lavoro omogeneo su tutto il territorio».

L’esperto conferma come nella dottrina cristiana «non c’è una ferrea concezione secondo la quale si debba vivere a tutti i costi un dolore insopportabile fino alla fine. C’è la giusta valutazione della situazione del malato e dei suoi desideri. Le terapie non devono diventare accanimento terapeutico: si possono sospendere, se non necessarie, mantenendo l’accompagnamento del paziente attraverso le cure palliative. Per cui c’è un rifiuto netto per l’accanimento, ma anche per le “scorciatoie” come la sospensione di alimentazione e idratazione».

Anche secondo la prospettiva etica musulmana «non c’è accanimento terapeutico», spiega Ahmad ‘Abd Al Quddus Panetta, esperto di bioetica della Comunità religiosa islamica Co.Re.Is. La posizione islamica è molto vicina a quella cattolica. «Nel momento in cui la domanda di eutanasia viene posta – spiega Panetta – l’uomo si fa carico del suo destino, diventa arbitro della vita e della morte. Ma questo è un atteggiamento individualistico nei confronti dell’esistenza. Occorre pertanto vigilare su cosa si nasconde dietro la richiesta.

Il Corano, poi, a questo riguardo dice due cose. La prima è che a nessuno viene dato un peso maggiore di quello che non può sopportare. La seconda regola vieta al credente di chiedere a Dio la morte. Tutto questo però non impedisce ai medici di cercare di alleviare il dolore del malato terminale». Sì, dunque, alle cure palliative. Ma l’esperto aggiunge anche un altro particolare, strettamente collegato alla visione “religiosa” della morte: «L’Islam non può non dare peso alla coscienza dell’individuo, accompagnandolo nella sua fase terminale. E un eccesso di terapie può provocare confusione, annebbiamento della coscienza, impedendo alla persona di vivere il momento del trapasso. È il momento culmine verso cui tutta una esistenza si prepara. È il momento in cui si raccolgono i frutti di una vita. Fino all’ultimo si è ancora responsabili e l’uomo non può abdicare a questa responsabilità. C’è dunque una imperscrutabilità nel momento del trapasso, che a nessuno è dato di conoscere né tantomeno di disporre». Per questo, aggiunge Panetta, «noi religiosi non vorremmo essere costretti un giorno per legge ad accettare l’eutanasia».

Su questo e altri fronti, musulmani e cattolici hanno molto in comune e possono intraprendere insieme importanti strade di dialogo sull’etica: perché – spiega l’esperto della Coreis – anche se «ogni Rivelazione ha il suo linguaggio», e pertanto le questioni teologiche sono diverse e le leggi rituali differiscono da religione a religione, l’uomo è sempre uomo e cioè «creato ad immagine di Dio» e in questa etica tutte le religioni della tradizione abramitica si riconoscono.

(Fonte:www.angensir.it)

4. Istat: italiani più longevi, ma stili di vita peggiorano la salute

12 marzo 2013

Si vive sempre più a lungo, ma il diffondersi di certi stili di vita tende a peggiorare lo stato di salute delle persone. È questa la sintesi dei dati forniti dal rapporto Istat «Bes 2013, il benessere equo e sostenibile in Italia». In un solo decennio la durata media della vita degli italiani è aumentata di circa due anni, mantenendo la nostra popolazione tra quelle più longeve del continente. Le differenze di genere si stanno progressivamente riducendo, le donne continuano comunque a vivere più a lungo, ma la qualità della loro vita è peggiore: vivono mediamente un terzo della loro esistenza in condizioni non buone.

E non si tratta solo di un fattore biologico, infatti nell’Italia meridionale, dove gli indicatori socioeconomici sono peggiori, la vita media è più breve ed è inferiore il numero di anni vissuti in buona salute. Le donne che vivono al Sud, quando raggiungono i 65 anni, hanno la prospettiva di trascorrere in media altri 7.3 anni senza limitazioni dovute alla salute, mentre per le loro coetanee del Nord gli anni salgono a 10.4. Anche un basso livello di istruzione si associa a condizioni di salute peggiori.

Fumo, sedentarietà e tipo di alimentazione influiscono in modo notevole sulla qualità della vita. Negli ultimi dieci anni la percentuale di persone sovrappeso è aumentata di due punti, passando dal 42,4% al 44,5% e configurando un allarme obesità. È anche la conseguenza della poca attività fisica nel tempo libero: addirittura nessuna per il 40% degli adulti. A questo si aggiunge un consumo insufficiente di frutta e di verdura per quattro italiani su cinque. Fumo e alcol sono in calo, ma restano ancora abitudini diffuse. Nonostante le restrizioni al fumo nei locali pubblici, i fumatori sono scesi solo dal 23,7% al 22,7% negli ultimi dieci anni. I giovani costituiscono sempre di più una categoria a rischio e tendono a fumare più spesso e ad abusare maggiormente di bevande alcoliche.

(Fonte: http://www.istat.it/it/files/2013/03/bes_2013.pdf )

5. Clausura: la preghiera combatte lo stress

13 marzo 2013

In un’intervista rilasciata a margine del Conclave dei Cardinali elettori, Angelo Gemignani, psichiatra dell’Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e del centro Extreme di Pisa, conferma che la preghiera e la clausura possono aiutare a combattere lo stress.

«In generale», ha dichiarato Gemignani, «dobbiamo distinguere chi si separa dal mondo “volontariamente” (ad esempio la clausura o gli astronauti che hanno simulato il volo umano su Marte, rimasti chiusi per 500 giorni all’interno di un’astronave), da chi lo fa perché costretto, come i carcerati, i minatori bloccati in una miniera, le persone rapite, ecc».

«Se l’essere isolati dal mondo è frutto di una scelta», ha proseguito l’esperto, «lo stress neurofisiologico è difficilmente quantificabile, in quanto entrano in gioco molte variabili: la motivazione a compiere l’impresa o, nel caso della clausura religiosa, la spiritualità. Per il Conclave, se da un lato la condizione di isolamento sociale e l’età avanzata dei Cardinali elettori entrano sicuramente in gioco nel compromettere la resilienza agli effetti dello stress, altri fattori come la tensione spirituale dell’evento e la preghiera possono invece aiutare, se non addirittura annullare gli effetti negativi».

È ormai un dato consolidato in letteratura che il ritmo presente nella preghiera induca effetti benefici a carico della sfera sia psichica sia fisiologica. «In particolare, è stato osservato che il recitare l’Ave Maria in latino si associ a una sincronizzazione cardiorespiratoria caratterizzata da sei atti respiratori al minuto, condizione ideale per indurre il rilassamento profondo», continua il ricercatore dell’Ifc-Cnr.

«Il centro di ricerca Extreme di Pisa ha dimostrato che un simile effetto è presente anche in alcuni atleti eccezionali, come gli apneisti d’élite, che adottano a tale scopo discipline meditative orientali come il Pranayama. Un gruppo di ricerca dell’Ifc ha inoltre dimostrato che la religiosità, nei pazienti che hanno subito un trapianto di fegato, migliora le chance di sopravvivenza, suggerendo quindi che la fede può essere considerata un indice predittivo favorevole di “outcome” clinico».

(Fonte:  Almanacco della Scienza Cnr – Istituto di fisiologia clinica Cnr, http://www.almanacco.cnr.it/reader/ArchivioTematico_tema.html?MIval=cw_usr_view_articolo.html&id_articolo=4326&id_rub=32&giornale=4298)

6. Impiantato per la prima volta in Italia un sistema di neurostimolazione per la terapia del dolore compatibile con la risonanza magnetica integrale

13 marzo 2013

È avvenuto nei primi giorni di marzo, presso l’ospedale Molinette dell’Azienda Città della Salute e della Scienza di Torino, il primo impianto in Italia di un dispositivo di neurostimolazione midollare indicato per il trattamento del dolore cronico, compatibile con la Risonanza Magnetica Integrale (MRI).

Si tratta del primo sistema impiantabile ad aver ricevuto, a gennaio 2013, il marchio di Conformità Europea (CE) di compatibilità con la Risonanza Magnetica (MRI) integrale, in specifiche condizioni d’uso.

«La disponibilità di questo nuovo dispositivo ci dà un grande vantaggio nel trattamento di alcune tipologie di pazienti con dolore cronico che ora potranno accedere a tutti i vantaggi della Tecnica di Risonanza Magnetica», afferma la dottoressa Anna De Luca, direttore del Centro di Terapia del Dolore della Città della Salute e della Scienza di Torino. «Sino a ieri, la Risonanza Magnetica, che, come tutti sanno, è diventata uno standard of care per la diagnosi di patologie, talora gravi, e per il controllo nel tempo dell’evolvere di patologie pregresse, era preclusa ai portatori di neurostimolatori e per effettuarla occorreva prima disimpiantare chirurgicamente il dispositivo. Per contro, numerosi pazienti che avrebbero potuto alleviare, in questi anni, il loro dolore cronico con la neurostimolazione, non hanno potuto essere sottoposti all’impianto se consapevoli di dover effettuare risonanze magnetiche».

Il primo paziente in Italia a essere impiantato con neurostimolatore compatibile con la Risonanza Magnetica integrale, in specifiche condizioni d’uso, è un uomo di 39 anni, residente in Piemonte, che da circa 15 anni soffre di sclerodermia.

«La sclerodermia», spiega la dottoressa Anna De Luca, «è una patologia molto invalidante perché, oltre ad interessare diversi organi, determina la comparsa di ulcere molto dolorose alle estremità degli arti, a causa di una scarsa circolazione sanguigna». «Per questo ultimo motivo», prosegue la dottoressa De Luca, «in associazione alla terapia farmacologica del caso, nel 2009 il paziente è stato sottoposto a impianto di un neurostimolatore midollare, con risultati eccellenti. Nel 2012, però, la necessità di effettuare una Risonanza Magnetica, a seguito della comparsa di sintomi di tipo neurologico, ha reso necessaria la rimozione dell’intero sistema, con la ricomparsa della sintomatologia dolorosa legata alle ulcere. Il dispositivo impiantato nei giorni scorsi non presenta questo tipo di problematica, in quanto compatibile con la Risonanza Magnetica».

La neurostimolazione rappresenta un pilastro nella gestione del dolore cronico. Fino a oggi i pazienti con impianto di neurostimolazione per la gestione del dolore cronico non hanno potuto sottoporsi a risonanza magnetica per paura che il sistema potesse essere compromesso durante l’esecuzione dell’esame di imaging, per effetto delle onde elettromagnetiche coinvolte.

Il ricorso alla risonanza magnetica è notevolmente aumentato negli ultimi anni, grazie ai progressi della tecnologia che ne ha migliorato la precisione, l’efficacia e il comfort per il paziente e si stima che ogni anno vengano effettuate 60 milioni di procedure di risonanza magnetica nel mondo. Solo in Europa occidentale, nel 2010, ne sono state eseguite 29 milioni, numero che raddoppierà ogni cinque anni. Già solo questo dato rende idea del potenziale di applicazione di questi nuovi dispositivi MRI compatibili.

Oggi la neurostimolazione midollare viene raccomandata nei pazienti con dolore cronico neuropatico da danno dei nervi periferici, da neuropatia diabetica, da insuccesso della chirurgia vertebrale, da nevralgia posterpetica, da lesioni parziali del midollo spinale, da sindrome dolorosa dell’arto fantasma, da lesioni del plesso brachiale, da dolore ischemico degli arti e da angina pectoris grave e da dolore delle sindromi regionali complesse.

(Fonte:  Azienda Ospedaliera Città della Salute e della Scienza di Torino, http://www.cittadellasalute.to.it)

7. Ospedali, nel 2011 quasi un ricovero ogni 6 abitanti. In calo rispetto al 2010

14 marzo 2013

Nel 2011 in Italia sono stati erogati 10.749.246 ricoveri ospedalieri, corrispondenti a un totale di 69.417.699 giornate, con una riduzione rispetto al 2010 di circa 520.000 ricoveri (-4,5%) e di circa 2.400.000 giornate (-3,5%). Sono i dati del Rapporto annuale sull’attività di ricovero ospedaliero relativi alle Schede di dimissione ospedaliera (SDO) del 2011, realizzato a cura dell’Ufficio VI della Direzione generale della Programmazione sanitaria del Ministero della Salute.

La degenza media per acuti si mantiene pressoché costante da diversi anni intorno al valore di 6.7 giorni, mentre per le degenze medie per riabilitazione e per lungodegenza si osserva un decremento a partire dal 2009; per l’anno 2011 la degenza media per riabilitazione in regime ordinario è pari a 26.6 giorni, mentre la degenza media per l’attività di lungodegenza è pari a 30.6 giorni.

L’attività per acuti in regime ordinario si attesta a 7.043.070 ricoveri, corrispondenti a 47.963.625 giornate, mentre i cicli di day hospital erogati sono stati 2.828.910, per un totale di 7.979.357 accessi. Si conferma la tendenza a migliorare l’erogazione appropriata dell’assistenza ospedaliera: rispetto al 2010 i ricoveri ad alto rischio di inappropriatezza in regime ordinario sono diminuiti di circa 185.000 unità (-10%) e quelli in regime di day hospital di circa 80.000 unità (-7%).

Il tasso di ospedalizzazione in acuti in regime ordinario per l’anno 2011 si riduce ulteriormente rispetto all’anno precedente passando da circa 116 dimissioni per 1.000 abitanti nel 2010 a poco meno di 110 per 1.000 abitanti nel 2011, pur mantenendo una discreta variabilità regionale. Il decremento è presente in tutte le fasce di età. Si osserva inoltre la presenza di un gradiente geografico con valori più elevati rispetto al valore nazionale nel Sud Italia.

La principale causa di ricorso all’ospedalizzazione in regime ordinario, pur non costituendo una condizione patologica, è rappresentata dal parto con 316.814 dimissioni. Escludendo il partole principali cause di ospedalizzazione sono riconducibili a patologie cardiovascolari (insufficienza cardiaca e shock) e respiratorie (edema polmonare e insufficienza respiratoria), interventi chirurgici per sostituzione di articolazioni maggiori o reimpianto degli arti inferiori.

Per quanto concerne l’attività di day hospital, la principale causa di accesso è rappresentata dalla somministrazione di chemioterapia (chemioterapia non associata a diagnosi secondaria di leucemia acuta) con 1.917.024 di accessi (24% del totale degli accessi in day hospital).

Il rapporto fotografa l’attività di ricovero e cura per acuti degli ospedali italiani, pubblici e privati, in modo affidabile e completo. Grazie all’impegno congiunto del Ministero, delle Regioni e delle strutture erogatrici, la banca dati SDO assicura infatti una copertura della rilevazione superiore al 99,5% degli istituti pubblici e accreditati e l’elevata qualità del dato.

(Fonte:  http://www.salute.gov.it)

 

8. Caso «Stamina»: l’appello degli scienziati al ministro Balduzzi

15 marzo 2013

Nel mese di marzo la Stamina Foundation diventa un caso sanitario, giuridico e mediatico. La onlus di Davide Vannoni, infatti, è depositaria del cosiddetto “metodo Stamina”, ovvero la somministrazione a scopo terapeutico di staminali come cura contro malattie degenerative.

Un metodo del quale però non esiste protocollo vero e proprio, né alcuna conferma scientifica, e sul quale a novembre 2012 una commissione voluta dal ministero della Salute era intervenuta, dichiarandolo potenzialmente pericoloso. E che il 14 marzo ha ricevuto un nuovo monito della comunità scientifica: tredici esperti di fama internazionale hanno infatti scritto una lettera al ministro della Salute, Renato Balduzzi, preoccupati che l’ondata emotiva del caso stravolga il funzionamento della sanità e della somministrazione delle cure.

Perché, scrivono gli esperti in un appello diffuso sulle principali testate quotidiane nazionali,

scegliere per sé una terapia impropria, o anche solo immaginaria, rientra tra i diritti dell’individuo. Non rientra tra i diritti dell’individuo decidere quali terapie debbano essere autorizzate dal Governo, e messe in essere nelle strutture pubbliche o private. Non rientra tra i compiti del Governo assicurare che ogni scelta individuale sia tradotta in scelte terapeutiche e misure organizzative delle strutture sanitarie. Non sono le campagne mediatiche lo strumento in base al quale adottare decisioni di carattere medico e sanitario. Il diritto del singolo a curarsi con l’olio di serpente, se così reputa opportuno, non implica la preparazione dell’olio di serpente nella farmacia di un ospedale, né la sua autorizzazione da parte del Governo.

Ma ripercorriamo brevemente le tappe della controversia, che vede le aspettative dei malati da un lato e il necessario rigore della comunità scientifica dall’altro. Lo scorso novembre un panel di esperti era intervenuto in merito al caso, dopo che l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e il Tribunale di Brescia avevano imposto l’interruzione della somministrazione della terapia della Stamina Foundation. Di fronte prima alla decisione dell’Aifa a maggio di bloccare la somministrazione delle terapie presso gli Spedali Civili di Brescia, ribadita poi da un provvedimento preliminare del Tar, erano insorti i familiari dei pazienti che avevano fino ad allora beneficiato delle cure.

Così i genitori di Celeste Carrer, affetta da atrofia muscolare spinale, e Smeralda Camiolo, in coma dalla nascita dopo danni da asfissia, si rivolsero al giudice del lavoro, ottenendo la continuazione delle terapie, in attesa di una decisione definitiva della sentenza preliminare emessa dal Tar (attesa per gennaio e a quanto pare rimandata a novembre 2013).

Nel frattempo, però, il Ministero aveva provato a far chiarezza interpellando una commissione di esperti che, dopo aver esaminato la situazione, si era espressa così:

Il board, applicando i principi base dell’etica medica, ritiene che il progetto terapeutico e le condizioni di applicazione della terapia siano assolutamente insufficienti e senza valida documentazione scientifica e medica a supporto riconosciuta. Sottolinea che i rischi biologici connessi alla terapia sono gravi e inaccettabili e che la conduzione della metodologia non solo non ha rispettato le norme di manipolazione e sicurezza, ma anche i più elementari standard di indagine di laboratorio.

Una condanna chiara al metodo Stamina che però non è riuscita a chiudere la questione. A riportarla alla ribalta a marzo 2013 è stato il caso della piccola Sofia, la bimba fiorentina affetta da leucodistrofia metacromatica, al quale il Tribunale di Firenze aveva imposto lo stop delle cure in virtù dell’ordinanza Aifa. Dopo un passaparola mediatico – passato attraverso la trasmissione «Le iene» e una lettera di Adriano Celentano al «Corriere della Sera» – il ministero della Salute aveva dato l’ok alla continuazione delle cure, dichiarando: «Quanto è stato fatto concilia il rispetto delle norme e delle sentenze della Magistratura con la situazione eccezionale nella quale si trova la bambina».

Parallelamente c’era stata la sentenza del Tribunale di Torino su un altro caso, quello di Salvatore Bonavita, affetto dal morbo di Niemann Pick, a cui era stato consentito di procedere alle cure compassionevoli ma in una struttura che avesse le necessarie autorizzazioni sanitarie, e quindi non agli  Spedali Civili di Brescia. A complicare la questione, infine la situazione della sorella di Salvatore, colpita dalla stessa malattia, ma alla quale i giudici avevano negato l’accesso alle stesse cure.

Malgrado i vari passaggi giudiziari, però, la questione dal punto di vista scientifico resta la stessa: il metodo Stamina, che si basa sull’infusione di staminali, rimane misconosciuto e non convalidato scientificamente. Motivo per cui, di fronte alle sentenze dei giudici, un gruppo di autorevoli scienziati, fra cui esperti di staminali, ma anche un giurista, un filosofo della scienza, uno storico della medicina e un rettore, ha sentito il bisogno di intervenire.

A firmare l’appello sono stati: Paolo Bianco, Andrea Biondi, Giulio Cossu, Elena Cattaneo, Michele De Luca, Alberto Mantovani, Graziella Pellegrini, Giuseppe Remuzzi, Silvio Garattini, Giovanni Boniolo, Gilberto Corbellini, Amedeo Santosuosso, Gianluca Vago.  Gli esperti scrivono, rivolgendosi al Ministro:

La comunità dei ricercatori e medici che lavora per sviluppare attraverso la ricerca e l’innovazione tecnologica trattamenti sicuri ed efficaci contro gravi malattie comuni o rare è perplessa di fronte alla sua decisione, sull’onda di un sollevamento emotivo, di autorizzare la somministrazione di cellule dette mesenchimali, anche se prodotte in sicurezza da laboratori specializzati. Non esiste nessuna prova che queste cellule abbiano alcuna efficacia nelle malattie per cui sarebbero impiegate.

E continuano:

Ci sembra questo uno stravolgimento dei fondamenti scientifici e morali della medicina, che disconosce la dignità del dramma dei malati e dei loro familiari. Una condizione che abbiamo presente e che ci motiva moralmente ed empaticamente a produrre e garantire risultati attendibili, visibili e pubblici, senza i quali nessuna ipotesi diventerà mai cura.

In un decreto-legge, approvato il 21 marzo dal Consiglio dei Ministri ,si stabilisce che

tutti i pazienti che hanno iniziato la terapia con le staminali preparate con metodo Stamina potranno portare a termine i loro protocolli, anche se il laboratorio di riferimento (in questo caso quello degli Spedali Civili di Brescia) non è autorizzato.

Per il ministro Balduzzi «la norma si basa sul principio etico per cui un trattamento sanitario già avviato, che non abbia dato gravi effetti collaterali, non deve essere interrotto».

Il nuovo regolamento per le cure compassionevoli prevede dunque che

per poter usufruire di una terapia cellulare con preparazione su base non ripetitiva, in applicazione delle normative europee, saranno necessarie la prescrizione di un medico responsabile, il consenso informato, l’approvazione di un Comitato etico, la produzione del farmaco da parte di una struttura che garantisca la qualità farmaceutica. Con lo stesso provvedimento saranno fissate regole precise per garantire la sicurezza dei pazienti e sarà determinata una precisa procedura di valutazione degli esiti dell’impiego di queste terapie.

Cautela dal mondo scientifico rispetto alla nuova decisione del ministro. Il genetista Bruno Dallapiccola, direttore scientifico del Bambin Gesù di Roma auspica che «non si verifichino più situazioni non regolamentate». Dallapiccola prova «amarezza per la discriminazione tra chi potrà continuare la cura perché già avviata e chi è fuori» ma, d’altronde, «siamo di fronte a un protocollo che non ha seguito un percorso scientifico tradizionale».

Definisce invece un «grave errore» la scelta del decreto Silvio Garattini, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano: «Pur comprendendo i motivi di compassione per cui è stato fatto. Il rischio è quello di incoraggiare altri scienziati che portano avanti sperimentazioni di ogni genere a non rendere pubblici, come vuole la legge, i propri dati».

(Fonte:  
http://www.sanita.ilsole24ore.com/art/medicina-e-scienza/2013-03-15/staminali-mondo-scientifico-protesta-192342.php)

9. Doping: ne fanno uso il 5% dei bambini ed il 25% degli adulti negli sport amatoriali

22 marzo 2013

Fanno rabbrividire i dati diffusi nell’ambito del convegno «Doping: ieri, oggi, domani», svoltosi il 22 marzo presso l’Aula Magna dell’Accademia di Medicina di Torino. In Italia ne fanno uso il 5% dei bambini ed il 25% degli adulti negli sport amatoriali.

Il termine doping è comunemente riferito all’impiego di sostanze o metodologie proibite, potenzialmente pericolose per la salute dell’atleta o in grado di alterarne artificiosamente le prestazioni agonistiche. Dal 1971 esiste in Italia una legge che punisce sia chi fa uso di sostanze proibite, sia chi le distribuisce agli atleti. Nel 2000 l’antidoping è stato rafforzato varando una nuova legge, la 376 del 14 dicembre, “disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta al doping”. La legge 376 ha istituito la Commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive (CVD), introducendo sanzioni penali e rendendo così l’Italia uno dei Paesi più severi nella lotta contro il doping.

Ma, a sentire gli esperti, il fenomeno doping è tutt’altro che debellato e, dato ancora più allarmante, non riguarda solo gli atleti professionisti ma anche chi frequenta amatorialmente palestre o centri sportivi.

Per quanto riguarda le attività agonistiche ufficiali, il fenomeno sembra in discesa, come appare dal minor numero di positività riscontrate negli ultimi tempi. Ciò deriva certamente dall’elevato numero di controlli eseguiti (circa 10.000 l’anno), ma anche da una maggiore sensibilizzazione ed educazione degli sportivi sul problema.

Per quanto riguarda le attività amatoriali, organizzate da Enti di promozione sportiva o privati, non vi sono dati precisi. Esistono però indicazioni fornite dal consumo di prodotti, quali integratori o altre sostanze vendibili anche al di fuori delle farmacie, che fanno ritenere che il fenomeno sia di ampia portata. Una recente analisi, che ha sintetizzato i risultati di molti studi epidemiologici, ha stimato la prevalenza del doping dal 3% al 5% nei bambini, fino a raggiungere valori compresi dal 15% al 25% negli adulti che pratichino sport competitivo.

Il problema, quindi, riguarda anche i dilettanti, che vi ricorrono non per ottenere maggiori guadagni, dato che nelle attività amatoriali non sono previsti emolumenti che possano giustificare pratiche illecite, ma solo per la soddisfazione del risultato sportivo. Il fenomeno è probabilmente dovuto a una cultura impropria e a una non corretta informazione sui rischi impliciti, che pure sono molti.

Le malattie cardiovascolari rappresentano oggi la principale causa dei decessi improvvisi degli atleti d’età superiore ai 35 anni. In atleti più giovani le cause più importanti di mortalità sono invece anomalie congenite, quali cardiomiopatie ipertrofiche, displasie del ventricolo destro e malformazioni coronariche.

L’obiettivo è dunque educare e sensibilizzare i giovani per non farli incorrere nel pericolo doping. I genitori possono fare attenzione all’eventuale acquisto di farmaci o integratori, dei quali ultimi purtroppo la vendita è libera e molto diffusa. Ma anche qui è bene intendersi: il termine integratore non indica di per sé una sostanza proibita; esistono infatti integratori assolutamente leciti e molto utili sia per la cura di determinate patologie che per ripristinare il corretto equilibrio idro – elettrolitico nell’atleta che abbia perduto grandi quantità di acqua e sali per via dell’attività sportiva. Esistono peraltro integratori che promettono il miglioramento della massa muscolare e della performance sportiva, ed è di questi che si deve diffidare.

Il ruolo dell’attività sportiva, sia nella prevenzione di molte patologie che nel miglioramento delle condizioni di soggetti malati, è ormai ampiamente riconosciuto. Va inoltre considerato che i ragazzi traggono un grande beneficio dall’attività motoria anche sotto il profilo della loro maturazione psichica. Sotto questo aspetto assume grande importanza anche la conoscenza dei danni provocati da una non corretta alimentazione e dall’uso e dalla dipendenza dall’alcol e dalle sostanze farmacologicamente attive. Grande è infatti la diffusione di prodotti da automedicazione nei soggetti che praticano attività sportiva, il più delle volte senza alcun controllo medico e solo per “passaparola”.

Una capillare educazione alla salute, alla corretta alimentazione ed alle attività sportive nella scuola potrebbe preparare le nuove generazioni a uno stile di vita che può certamente portare a un forte risparmio da parte del Sistema Sanitario Nazionale.
Questo risultato si può conseguire ampliando la disponibilità delle strutture sportive scolastiche o, per le scuole che non ne disponessero, istituendo convenzioni fra le scuole e strutture sportive ad esse vicine, in modo che i ragazzi, in particolare quelli tra la quinta elementare e la terza media, possano svolgere un’attività fisica controllata a costi realmente accessibili a tutti.

(Fonte: www.accademiadimedicina.unito.it)

10. Medici non punibili: il giudice contro il decreto Balduzzi. Polemiche tra gli addetti ai lavori

23 marzo 2013

Il Tribunale di Milano impugna il decreto Balduzzi davanti alla Consulta, nell’ambito di un processo per lesioni colpose a carico di quattro sanitari milanesi. Il decreto, che sottrae alla punibilità penale la colpa lieve di medici e infermieri attenutisi a linee guida e buone prassi, è stato molto contestato dal punto di vista giuridico. Tra le motivazioni portate dal giudice Bruno Giordano, oltre alla genericità delle linee guida a cui il decreto si riferisce e al «rischio di burocratizzazione delle scelte del medico», c’è anche l’eccessiva vaghezza del concetto di “colpa lieve”.

Secondo Maurizio Maggiorotti, presidente di Amami, l’Associazione dei medici accusati di malpractice ingiustamente, il provvedimento ministeriale «è assolutamente errato e pericoloso, al contrario di quello che hanno detto diverse sigle mediche purtroppo non adeguatamente preparate in ambito giuridico. È pericoloso perché può rivelarsi un boomerang nei riguardi dei medici ospedalieri ed è errato giuridicamente». Il punto è che il concetto di “colpa lieve” non ha logica in ambito penale:

Le strutture ospedaliere coprono le eventuali responsabilità perché non si è mai verificato il concetto di colpa grave. Quando un medico ospedaliero viene condannato a un risarcimento, normalmente l’ospedale ne assume il carico, tranne che se fosse condannato per colpa grave: a quel punto sarebbe lui a dover risarcire l’erario. Si immagini che razza di boomerang sarebbe una cosa del genere.

La colpa lieve è dunque un concetto amministrativo, mentre, nel penale, la graduazione della colpa non c’è.

Dello stesso avviso Sergio Barbieri, direttore dell’U.O. Neurofisiopatologia – Fondazione IRCSS Cà Granda all’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, che sul sito dell’Associazione «Medicina e persona» aggiunge: «Per quanto attiene la colpa medica in sé, senza distinzioni, che sia lieve o grave, si deve chiedere la depenalizzazione della stessa anche se gli ostacoli da superare saranno molti. Vi sono però altri provvedimenti che si possono prendere per ridurre l’orgia risarcitoria che a mio parere sta mettendo a rischio la stessa sopravvivenza del nostro sistema sanitario:

• applicazione del concetto di lite temeraria con diritto di rivalsa del medico nei confronti di coloro che intentano cause strumentalmente, senza alcun fondamento clinico

• inversione dell’onere della prova nei procedimenti civili (nel civile attualmente è il medico che deve dimostrare di avere agito correttamente, nel penale è il contrario)

• obbligo di copertura assicurativa o di gestione diretta del sinistro da parte della struttura identificando un fondo regionale finanziato anche con i risparmi derivanti dalla riduzione della medicina difensiva

• obbligo di percorsi extragiudiziali per la risoluzione del contenzioso e penalizzazioni per chi rifiuta l’accordo strumentalmente, come avviene già in alcuni Paesi Europei.  Automatica remissione della querela in presenza di un accordo risolutivo

• introduzione del concetto di alea terapeutica (quando ad esempio vi siano effetti avversi non prevedibili e dovuti all’uso di un farmaco con rischi insiti ed ineliminabili, così come in una determinata procedura)

• albi dei periti costituiti con criteri stringenti che certifichino la professionalità di chi indiscutibilmente contribuisce al formarsi del giudizio

• obbligo dell’introduzione nelle Aziende di una vera prevenzione del rischio

Nel frattempo è bene che tutti i medici dipendenti sottoscrivano una cosiddetta polizza per la colpa grave che copra l’eventuale rivalsa della Corte dei Conti a integrazione di quella per colpa lieve sottoscritta sino ad ora dall’Ente di appartenenza e garantita contrattualmente.

Per i medici in extramoenia, per i liberi professionisti e per i pensionati che continuino ad esercitare la professione deve essere stipulata una polizza con copertura globale, non dipendente quindi dall’eventuale giudizio di merito sulla graduazione della colpa. È poi utile, in considerazione delle spese legali che spesso sono assai sostenute, stipulare una polizza che copra l’assistenza legale e che preveda la libera scelta del legale ed un adeguato massimale».

(Fonte:  http://www.medicinaepersona.org/cm/rassegna.jhtml?param1_1=N13db02f245210fa8328&param2_1=N13db02f245210fa8328)

11. La verità su ellaOne, la “pillola dei cinque giorni dopo”

24 marzo 2013
di Anna Fusina

È online, sul sito della prestigiosa rivista internazionale «Trends in Pharmacological Sciences» (http://www.cell.com/trends/pharmacological-sciences//retrieve/pii/S0165614713000370?_returnURL=http://linkinghub.elsevier.com/retrieve/pii/S0165614713000370?showall=true ) l’articolo: «Ulipristal acetate in emergency contraception: mechanism of action». Gli autori, i Ginecologi padovani Bruno Mozzanega, Erich Cosmi e Giovanni Battista Nardelli, direttore quest’ultimo della Clinica Ginecologica dell’Università, discutono il meccanismo d’azione di Ulipristal Acetato (UPA), commercializzato come «ellaOne» per la contraccezione di emergenza (CE).

Ogni compressa di ellaOne contiene UPA micronizzato 30 mg (equivalente a UPA non micronizzato 50 mg) ed è efficace fino a 120 ore dal rapporto non protetto.

I produttori – riferiscono gli autori – sostengono che UPA agisca ritardando l’ovulazione ed escludono qualsiasi interferenza con l’impianto dell’embrione. Essi basano la loro conclusione su quattro studi sperimentali che valutano gli effetti di UPA sull’ovulazione e sull’endometrio umano e queste conclusioni vengono integralmente recepite  dalle più autorevoli agenzie del farmaco internazionali.  La FDA  statunitense si limita ad aggiungere soltanto che alterazioni dell’endometrio potrebbero contribuire all’efficacia di UPA, mentre l’EMA (European Medicines Agency) menziona solamente il posticipo dell’ovulazione. Le più importanti società scientifiche e molte reviews si rimettono completamente a queste conclusioni e ripetono che ellaOne, somministrato immediatamente prima dell’ovulazione, ritarda significativamente la rottura del follicolo.

I tre medici padovani, tuttavia, esaminando in modo approfondito i medesimi articoli, mettono in discussione le conclusioni di cui sopra, sia riguardo agli effetti sull’ovulazione sia riguardo a quelli sull’endometrio.

EllaOne e ovulazione 

Un solo studio (Brache. Hum Reprod 2010;25:2256) valuta gli effetti di UPA nel periodo fertile: in esso si afferma che UPA può ritardare la rottura del follicolo anche se somministrato immediatamente prima dell’ovulazione, un dato che viene enfatizzato nel titolo. In questo studio si rileva che gli effetti di UPA sono fortemente dipendenti dai livelli dell’ormone luteinizzante (LH) al momento della somministrazione del farmaco: prima dell’inizio della crescita di LH, la capacità di UPA di ritardare l’ovulazione era del 100%; dopo l’inizio ma prima del picco di LH, essa scendeva al 78.6%, mentre dopo il picco cadeva all’8.3%.

Inoltre, nel riportare l’intervallo fra la somministrazione di UPA e la rottura del follicolo, la Brache riporta letteralmente che “quando UPA veniva dato al momento del picco di LH, la distanza temporale fra l’assunzione del farmaco e l’ovulazione era simile a quella osservata col placebo (1.54  ± 0.52 versus 1.31  ± 0.48)”.  Secondo gli studiosi padovani, questo dato indica con chiarezza che sia il placebo sia l’Ulipristal sono ugualmente inefficaci quando vengono somministrati circa due giorni prima dell’ovulazione; il che è l’opposto di quanto affermato dalla Brache nelle sue conclusioni.

Poiché i giorni fertili sono i 4-5 precedenti l’ovulazione più il giorno stesso dell’ovulazione, i Ginecologi padovani concludono che UPA è in grado di ritardare l’ovulazione soltanto se viene assunto nei primi giorni fertili, mentre nei giorni più fertili (il pre-ovulatorio e i due giorni intorno a esso), UPA si comporta come un placebo.

Nonostante questi limiti evidenti, tuttavia, l’efficacia di UPA nel prevenire le gravidanze è molto alta (≥80%) e non diminuisce, in qualunque dei cinque giorni successivi al rapporto non protetto esso venga assunto. Questo è sorprendente – a detta degli studiosi padovani – se si pretende di affermare che l’efficacia di UPA sia dovuta alla sua azione anti-ovulatoria, la quale decresce con l’avvicinarsi dell’LH al suo picco: l’efficacia dovrebbe progressivamente ridursi col trascorrere dei giorni e l’avvicinarsi dell’ovulazione.

D’altra parte, – si chiedono – come potrebbe mai UPA, se assunto dopo l’ovulazione, ritardare una rottura del follicolo che può anche essere avvenuta fino a quattro giorni prima? (è il caso di un rapporto nel giorno pre-ovulatorio con assunzione del farmaco 5 giorni dopo). Tutto questo suggerisce che l’efficacia di ellaOne si basi su altri meccanismi, in particolare sui suoi effetti endometriali.

EllaOne e l’endometrio

Bruno Mozzanega e i suoi co-Autori riportano, a questo proposito, che gli studi sperimentali concludono che la quantità di UPA necessaria per modificare la morfologia endometriale è più bassa di quella richiesta per alterare la crescita dei follicoli. L’effetto inibitorio dell’UPA si esplica direttamente sul tessuto endometriale attraverso l’inibizione dei recettori per il progesterone e si osserva anche dopo una singola somministrazione della sua dose più bassa.

Lo studio prosegue con l’analisi dei tre articoli che riportano gli effetti di Ulipristal sull’endometrio:

Quando UPA non micronizzato (1-100 mg) viene somministrato nella fase medio-follicolare, una fase che precede il periodo fertile, tutte le dosi inibiscono la maturazione luteale dell’endometrio in egual modo (Stratton. Hum Reprod 2000;15:1092). L’ovulazione viene certamente posticipata, ma il periodo fertile non è ancora iniziato. L’effetto inibitorio sull’endometrio dura a lungo: si osserva anche nelle fasi luteali fortemente ritardate che seguono la rottura di un nuovo follicolo dominante e persiste fino al flusso mestruale successivo. Questo significa che tutti i rapporti non protetti che si verificassero in quel ciclo dopo l’assunzione di Ulipristal potrebbero portare al concepimento, ma senza alcuna possibilità di annidamento.

Se UPA non micronizzato (10-100 mg) viene somministrato nella fase luteale iniziale, si osserva sempre una riduzione dello spessore endometriale, senza variazioni nei livelli luteali di estrogeni e progesterone (Stratton. Fertil Steril 2010;93:2035). Inoltre, le dosi più alte, 50 mg – equivalente a ellaOne – e 100 mg, inibiscono significativamente l’espressione endometriale (legata al progesterone) di quelle sostanze che  indicano che l’endometrio è pronto per l’annidamento: le “node-addressine” periferiche appaiono significativamente diminuite, e questo si associa a fallimento dell’impianto. Le cellule del trofoblasto (cioè le cellule periferiche dell’embrione attraverso le quali lo stesso si nutrirà), infatti, iniziano l’annidamento legandosi con le  proprie L-selectine alle addressine dell’endometrio.

Quando, infine, UPA non micronizzato viene somministrato nella fase medio-luteale, a singole dosi da 1 a 200 mg, le dosi più alte inducono costantemente un sanguinamento endometriale anticipato. Questo effetto si osserva anche nel 50% delle donne trattate con 50 mg, la dose equivalente a ellaOne (Passaro. Hum Reprod 2003;18:1820).

Tutte queste osservazioni – affermano Mozzanega e co-Autori – evidenziano che gli effetti endometriali di Ulipristal possono interferire con l’annidamento dell’embrione e che l’elevata efficacia di ellaOne nella contraccezione d’emergenza probabilmente è dovuta a questi effetti endometriali, piuttosto che a effetti anti-ovulatori.

È esattamente il contrario di quanto divulgano l’OMS, le maggiori agenzie internazionali del farmaco e le più rappresentative società scientifiche: esse infatti sostengono che ellaOne sia antiovulatorio e quindi prevenga il concepimento, mentre invece i dati scientifici indicano un meccanismo d’azione prevalentemente post-concezionale e di contrasto all’annidamento.

(Fonte:  http://vitanascente.blogspot.it/ )

 

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8 Aprile 2013 Supplemento Laici e cattolici in bioetica: Storia e teoria di un confronto