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11 Luglio Agosto 2013
Bioetica News Torino Luglio Agosto 2013

Notizie dal mondo

1. Papà e mamma per ogni figlio. Lo dice la scienza

1 giugno 2013

La rivista «Early Children Development and Care» non piacerà a tanti modaioli che scambiano la famiglia padre-madre-figli con altre forme di genitorialità. Infatti il suo numero appena uscito è interamente dedicato alla figura del padre nello sviluppo mentale del bambino. E cosa apprendiamo? Che la scienza afferma che padre e madre sono ugualmente importanti per il figlio, ma che ognuno ha un suo ruolo indispensabile per l’equilibrio dei figli; tutto il contrario della moda secondo cui coppie dello stesso sesso sono la stessa cosa che coppie di sesso diverso. Eppure la rivista parla chiaro: nell’editoriale di questo numero monografico si ricorda proprio che i figli di genitori con ruoli madre-padre differenziati «hanno capacità sociali più sviluppate e sono più pronti alla competizione» rispetto ai figli di genitori con ruoli non differenti. E si ricorda che un altro studio mostra come i figli delle coppie con ruoli differenziati tra madre e padre «hanno minor aggressività».

Ovviamente, spiega, la specificità dei ruoli non significa un monopolio ma una complementarietà tra madre e padre: «I padri sembrano giocare un ruolo maggiore nel processo di apertura dei figli al mondo esterno, che è legato allo sviluppo dell’autonomia e alla capacità di affrontare i rischi». Rispetto ai padri, «le madri attribuiscono maggior valore al lavoro in casa, al supporto emotivo per i figli e all’educazione sessuale». La rivista esamina con sette articoli di studiosi internazionali proprio queste differenze sottolineando le specificità paterne: l’importanza del gioco-lotta tra padre e figlio, e il rapporto tra divisione dei ruoli padre-madre e la crescita sociale del figlio.

La scienza parla chiaro: il figlio è in rapporto di crescita con la madre per certi tratti del carattere e col padre per altri. Due padri (o due madri) rispondono a questa esigenza? Anche altre riviste scientifiche specializzate chiariscono i dubbi: «L’aiuto alla socializzazione dei figli dato da madre e padre differiscono in alcuni tratti ma servono nella loro complementarietà a creare l’impalcatura di regolazione delle emozioni» («New Directions for Child and Adolescent Development», 2010). Insomma, per far crescere bene un figlio non è vero che “basta volerlo”. Non si possono fare esperimenti in un campo come la cura dei figli quando migliaia di anni di crescita sociale umana hanno “selezionato” un ambito preferito chiamato famiglia, facendo darwinianamente sparire ogni altro tipo di convivenza. E la famiglia che ha vinto per millenni e ha permesso che il mondo arrivasse fino a oggi è quella che ha le caratteristiche della complementarietà psicologica e sociale tra donna e uomo.

Avere due “mamme” senza papà o due “papà” senza mamma è la stessa cosa rispetto ad avere un padre e una madre? La scienza risponde no. Ma i bambini non sanno reclamare i loro diritti nei Parlamenti e sui media, i loro diritti lì non hanno spazio: si affermano solo i presunti diritti dei “grandi”. Ci piacerebbe un mondo in cui le decisioni sui figli si prendono su basi solide – criteri scientifici e amore, due pilastri che si sostentano reciprocamente -, non sulle mode.

Carlo Bellieni

(Fonte: Avvenire )
(Approfondimenti: http://www.researchgate.net/journal/0300-4430_Early_Child_Development_and_Care)

2. Campagna «Uno di noi»: Casini, «superate le 500 mila firme, la raccolta continua»

3 giugno 2013

«C’eravamo proposti di raggiungere mezzo milione di adesioni alla fine di maggio e ci siamo riusciti. Ad oggi le adesioni sono 504.993. È  motivo di soddisfazione constatare che sei Nazioni (Austria, Spagna, Ungheria, Italia, Polonia e Slovacchia) hanno superato il minimo richiesto. La raccolta continua puntando al milione di firme». Lo ha dichiarato al Sir Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita italiano e della commissione italiana per la campagna «Uno di noi», impegnata da mesi nella raccolta firme per chiedere alle istituzioni comunitarie la tutela giuridica dell’embrione umano.

Dopo aver precisato che, per poter essere ammissibile, tale richiesta deve raccogliere firme in almeno sette nazioni europee, in ciascuna delle quali il totale delle adesioni deve superare un numero minimo, Casini afferma che «nel complesso ad oggi le adesioni pervenute on line in tutta Europa sono 241.562, mentre 263.437 sono su carta». Spiega quindi che «l’esperienza italiana mostra 109.927 firme su carta e 44.261 online, a dimostrazione che la raccolta su scheda cartacea è più fruttuosa perché consente agli organizzatori di andare a cercare gli aderenti anche in luoghi pubblici, mentre l’adesione on line avviene privatamente e per iniziativa individuale. Ma – nota infine – la maggioranza dei Paesi europei fino ad ora ha utilizzato in grande prevalenza solo il sistema online».

(Fonte: Sir)

(Approfondimenti: http://www.oneofus.eu/it/)

3. Al Congresso Usa arriva il “grande tabù”: il dolore del feto

4 giugno 2013

Dicono: le cavie da laboratorio hanno diritto a garanzie in caso di intervento doloroso; è mai possibile che si alzino le spalle davanti alla sofferenza del feto? Rispondono che non è sicuro che senta qualcosa, e comunque mai prima della ventesima settimana, e forse anzi dalla ventottesima, e sì, non ci sono certezze di assenza di dolore, però comunque probabilità.

Ci ha pensato Trent Franks, deputato repubblicano al Congresso degli Stati Uniti, che con il Pain-Capable Unborn Child Protection Act ha proposto di estendere a tutta la nazione una legge per proteggere i bambini non nati ora vigente nel distretto di Columbia. Una iniziativa politica fragile, visto il largo consenso costituzionale e legislativo che regna ormai attorno al diritto di aborto che vige in America. Ma Franks ha portato per la prima volta nel Parlamento degli Stati Uniti qualcosa di letteralmente inaudito: il dolore del non nato oltre le venti settimane.

In America la sofferenza del feto è la nuova frontiera della guerra sull’aborto. Le testimonianze al Congresso a favore della proposta Franks, firmata anche dal democratico Daniel Lipinski, sono state a dir poco scioccanti. Fra i primi a parlare Anthony Levatino, il medico che tra il 1981 e il 1985 ha praticato 1.200 aborti, molti oltre la 24esima settimana. «Immaginate di essere un ginecologo pro choice come lo ero io», ha detto il medico. «La vostra paziente è alla 24esima settimana di gravidanza. Se riusciste a vedere il bambino, come mostra l’ecografia, lo vedreste grande, dalla testa al sedere escluse le gambe, una volta e mezza la vostra mano». Il medico ha poi mostrato un forcipe d’acciaio lungo trentatré centimetri: «Serve a prendere e distruggere i tessuti. Il bambino può essere in qualsiasi posizione dentro il ventre materno. Immaginatevi di raggiungerlo con il forcipe e di afferrare tutto quello che potete, una volta che avete preso qualcosa, lo comprimete con la morsa e tirate forte, molto forte». Poi ha parlato Maureen Condic, professoressa di Neurobiologia e di Anatomia all’Università dello Utah, autrice di tante pubblicazioni scientifiche, ha spiegato che «il primo nucleo del sistema nervoso si forma dopo ventotto giorni dalla fecondazione. Qui il cervello primitivo è già formato». Il che significa che anche nei primissimi giorni «il cervello c’è e non è un ammasso di cellule insensato».

Condic ha chiarito che il primo circuito neuronale di risposta al dolore è presente già all’ottava settimana. «È universalmente riconosciuto che nei primi tre mesi di gravidanza può già sentire male». La neurobiologa ha concluso: «Fare male a qualunque creatura umana è una crudeltà. E ignorare il dolore sperimentato da un altro essere umano, per qualsiasi ragione, è una barbarie».

Trent Franks, promotore della legge, ha mostrato foto dei bambini uccisi in una clinica abortiva. Creature letteralmente massacrate: «Non so quanto questa società e il mondo abbiano perso a causa dell’uccisione di 55 milioni di piccoli bambini americani negli ultimi quarant’anni. Ma credo che se non si ritiene sbagliato l’omicidio di un bambino innocente, allora tutto è permesso e nulla è più sbagliato».

Dalla fine degli anni Ottanta ci sono studi che raccontano il dolore del feto, i recettori cutanei che coprono tutta la superficie corporea dalle venti settimane di gestazione, la produzione di ormoni da stress, la memoria a breve e a lungo termine (una canzone mai ascoltata se non nella pancia e conosciuta a memoria, la preferenza durante lo svezzamento per i sapori che aveva sentito più spesso nell’utero, sono i risultati di uno studio pubblicato nel 2001 sulla rivista «Pediatrics»).

Al Congresso sono stati portati gli studi di Sunny Anand. Solo nel 1985, quando uscì il primo lavoro di Anand, lo studioso indiano padre di tutte le cure per il dolore del non nato, si è iniziato a parlare pubblicamente di dolore fetale, il “grande tabù”, ha scritto il «Daily Mail» su una battaglia che ha preso campo anche in Inghilterra. Il 13 febbraio del 1984 decine di medici e accademici, laici e religiosi, scrissero una lettera aperta a Ronald Reagan: «Il non nato risponde agli stimoli, al di là di ogni ragionevole dubbio».
Gli studi di Anand, centrali nella legge Franks, hanno dimostrato che «il dolore del feto ben prima del terzo trimestre di gravidanza è una realtà», mentre per molti anni i pro choice hanno cercato di minimizzare il dolore fetale come un “riflesso”.

Il filosofo Stuart Derbyshire sosteneva nel 1999 sulla rivista «Bioethics» che «l’esperienza del dolore sorge approssimativamente a dodici mesi di età», dato che senza «coscienza di sé» non può esserci dolore. È per questo che il dolore del feto non dispone ancora di una retorica per descriverlo. Come ha scritto Luc Boltanski ne «La condition foetale», «una manipolazione ontologica del feto di tipo “costruzionista” mira a distribuire gli esseri che s’inscrivono nella carne in categorie tanto più lontane l’una dall’altra, a seconda che essi siano destinati a essere distrutti o, al contrario, a essere confermati attraverso la parola». L’International Association for the Study of Pain affidò così nel giugno 2006 ad Anand il compito di mettere la parola fine alle polemiche. Adesso il suo lavoro è arrivato al Congresso degli Stati Uniti.

È stata proprio l’introduzione di nuove tecnologie a sollevare il tema del dolore fetale, come l’immagine a ultrasuoni, il monitoraggio elettronico del cuore del feto, la fetologia, l’isteroscopia, la chimica dell’immunizzazione radioattiva e una serie di altre incredibili tecnologie che costituiscono insieme la scienza della fetologia. Si spiega che gli esami effettuati sul feto provocano stress e sofferenza nel feto stesso e che durante un’ecografia il feto ha una reazione di arretramento, proprio come qualsiasi bambino, e il suo battito cardiaco aumenta. Ha confessato il professor Nicholas Fisk: «Per anni la madre mi chiedeva: “Il mio bambino sente dolore?”. La tradizionale risposta irriflessiva era: “Ovviamente no”».

Passano gli anni, la medicina neonatale fa passi da gigante e Fisk è costretto a cambiare idea: «Le ricerche di Fisk in laboratorio hanno mostrato che un feto di 18 settimane reagisce a una procedura invasiva, attraverso una strategia che si vede anche negli adulti di protezione degli organi vitali da una minaccia».

Nel 2004 il Congresso americano aveva cassato per pochi voti il disegno di legge Unborn Child Pain Awareness Act presentato da Sam Brownback, che avrebbe costretto i medici a informare la madre del dolore del feto durante un aborto. Da allora in molti stati americani sono state approvate legislazioni che obbligano i medici a informare le donne sulla sofferenza del feto. I pro choice sostengono che queste leggi limitano il diritto all’interruzione di gravidanza.

A chi gli chiese quale senso avesse parlare del dolore fetale, Ronald Reagan rispose: «Ho notato che tutti gli abortisti sono già nati».

(Fonte: Il Foglio)
(Approfondimenti: http://franks.house.gov/press-release/house-passes-pain-capable-unborn-child-protection-act)

4. Non si nasce gay. Nuove evidenze da studi sui gemelli

7 giugno 2013

Una delle certezze che sostengono le lobby LGBT è che l’omosessualità è una condizione genetica. In realtà recenti studi su coppie di gemelli dimostrano che l’attrazione per persone dello stesso sesso non dipende dal codice genetico ma è qualcosa dovuta a esperienze successive alla nascita.

Il dott. Neil Whitehead, ricercatore scientifico per il governo della Nuova Zelanda, per le Nazioni Unite e la International Atomic Energy Agency, fa il punto della situazione: i gemelli identici hanno lo stesso codice genetico, sono allevati in condizioni prenatali identiche, perciò se l’omosessualità fosse causata da fattori genetici o condizioni prenatali e uno dei due fosse gay, anche l’altro gemello dovrebbe esserlo. Ma gli studi scientifici rivelano che le cose vanno diversamente. «Se uno dei due gemelli prova attrazione per persone dello stesso sesso le possibilità che l’altro gemello l’abbia sono solo dell’11% per i maschi e il 14% per le femmine».  Visto che i gemelli identici sono sempre geneticamente identici, l’omosessualità non può essere dovuta a fattori genetici. «Nessuno nasce gay», conclude Whitehead. Ciò che produce l’omosessualità, perciò, deve essere dovuto a fattori post nascita, come ad esempio le differenti reazioni personali a eventi o circostanze che hanno un diverso impatto sui due gemelli.

Il primo studio approfondito su gemelli identici è stato effettuato in Australia nel 1991, seguito da un altro negli Stati Uniti nel 1997. Nel 2002 Bearman e Brueckner hanno pubblicato uno studio effettuato su 5.552 coppie di gemelli degli Stati Uniti. L’attrazione per persone dello stesso sesso (Same-sex attraction) tra gemelli identici era comune solo al 7,7% per i maschi e al 5,3% per le femmine. Nella stessa ricerca si parla dei cambiamenti di orientamento sessuale. E i due autori osservano che la maggior parte di questi cambiamenti, non terapeutici ma accaduti “naturally” durante la vita, sono rivolti verso un’esclusiva eterosessualità (il 3% della popolazione eterosessuale sostiene di essere stata in passato anche bisessuale o omosessuale). Il numero delle persone che hanno cambiato il loro orientamento sessuale verso un’esclusiva eterosessualità è più alto dell’attuale numero di bisessuali e omosessuali messi insieme. In altre parole: gli ex gay superano per numero gli attuali gay.

A proposito della battaglia per ottenere i matrimoni tra omosessuali, Mercatornet ha segnalato un episodio interessante sulla concezione che hanno alcuni gay del matrimonio. Durante il Sydney Writers Festival del 2012 in un incontro pubblico è stato rivolta a quattro scrittori gay questa domanda: «Perché sposarsi quando si poteva essere felici?». Erano tutti d’accordo sul fatto che i gay non vogliano sposarsi, dato che i gay non aspirano alla rispettabilità borghese. La risposta più interessante è venuta dalla giornalista e attivista Masha Gessen, sposata con una partner lesbica in Massachusetts da cui in seguito ha divorziato, ora ha tre bambini che hanno cinque diversi genitori. Nella sua risposta la Gessen afferma che vorrebbe vedere abolita l’istituzione del matrimonio, e perciò è necessario mentire quando si promuovono i matrimoni gay: «Anche uno stupido capirebbe che l’istituzione del matrimonio non dovrebbe esistere… [applausi del pubblico] La lotta per il matrimonio gay comporta in generale mentire su quello che faremo con il matrimonio una volta che lo otterremo, perché mentiamo dicendo che l’istituzione del matrimonio non cambierà: sì questa è una falsità».

«Tempi» ha riportato alcuni stralci della testimonianza di Robert Oscar Lopez, professore presso la California State University, rilasciata lo scorso 12 marzo davanti al Parlamento del Minnesota. Lopez, cresciuto dalla madre lesbica con la sua compagna, nel suo racconto sottolinea alcuni aspetti che fanno riflettere, soprattutto perché vissuti sulla propria pelle: il disagio che ha comportato vivere senza una figura maschile di riferimento e quindi le difficoltà a creare stabili rapporti di amicizia sia con le ragazze che con ragazzi. Una volta giunto all’Università la comunità gay gli aveva detto che necessariamente era destinato a essere gay, mentre lui si sentiva ancora a disagio. Non ha mai trovato, specialmente nel mondo gay, che ha frequentato per tanti anni, qualcuno che affrontasse sul serio le sue difficoltà, perché veniva malvisto chi metteva in dubbio la sua omosessualità. Gli adulti cresciuti da genitori dello stesso sesso nel contattarlo gli chiedono di dare voce alle loro preoccupazioni: pur amando i propri cari spesso «provano rabbia verso i loro “genitori” per averli privati del genitore biologico (o, in alcuni casi, di entrambi i genitori biologici), rimpiangono di non aver avuto un modello del sesso opposto, e provano vergogna o senso di colpa per il fatto di sentire un risentimento verso i propri genitori».

La comunità gay, dentro la quale ha trascorso 40 anni della sua vita, spesso trasmette odio e recriminazione, parlando talvolta male delle coppie eterosessuali per giustificare le adozioni.

Giovanni Vasallo
(Fonte: http://www.documentazione.info/)
(Approfondimenti: http://www.isthereagaygene.com/scientific-evidence/)

5. Diabete: un morto su due nel mondo è under 60

10 giugno 2013

Il diabete spaventa, non è solo un modo di dire. 371 milioni di persone colpite nel mondo: quasi 100 milioni solo in Cina (92,3) e 63 milioni in India. Ma nella top 10 dell’International Diabetes Federation (IDF) compaiono USA (24,1), Brasile (13,4), Russia (12,7), Messico (10,6), Indonesia (7,6), Egitto (7,5), Giappone (7,1), Pakistan (6,6).

«L’Italia ha superato i 3 milioni, siamo a 3,3, senza considerare 1 milione di persone che nel nostro Paese ha il diabete non diagnosticato», commenta Giorgio Sesti, Presidente Comitato scientifico Italian Barometer Diabetes Observatory (IBDO) Foundation, che come ogni anno organizza l’Italian Barometer Diabetes Forum, summit internazionale di esperti, politici ed  economisti sanitari, giunto alla sua sesta edizione, in programma il 10 e 11 giugno 2013 a Villa Mondragone (Monte Porzio Catone).

Organizzato da IBDO Foundation, in collaborazione con Università di Roma Tor Vergata, Diabete Italia, Associazione di iniziativa parlamentare e legislativa per la salute e la prevenzione, World Diabetes Foundation, European Public Health Association, Think Tank Horizon 2020, con il supporto non condizionato di Novo Nordisk, il Forum 2013 ha come «obiettivo principale l’identificazione di strategie per affrontare il diabete, che siano frutto della collaborazione tra addetti ai lavori e Istituzioni a livello sempre più globale, e non solo dal punto di vista clinico, ma soprattutto sociale, economico e politico», spiega Renato Lauro, Rettore Università di Roma Tor Vergata e Presidente IBDO Foundation. A testimonianza di ciò, nell’ambito della manifestazione viene siglato un “memorandum of understanding” tra IBDO Foundation e Observatorio de Diabetes de Colombia, «per un impegno comune tra i nostri Paesi nel tracciare una roadmap, in grado di individuare priorità di intervento nella lotta alla malattia», aggiunge Lauro.

Secondo i dati IDF 2012 presentati nel corso della sessione «The Global Burden of Diabetes» organizzata da World Diabetes Foundation: 4 persone con diabete su 5 vivono in Paesi a medio-basso reddito e 1 morte su 2 riguarda persone con diabete che hanno meno di 60 anni di vita. «Una situazione che potrebbe facilmente scappare di mano senza la cooperazione e la collaborazione tra Paesi evoluti economicamente e scientificamente, come il nostro, e il resto del mondo», dice Sesti. «D’altronde, siamo tutti sulla stessa barca, il diabete e le altre malattie croniche non trasmissibili stanno diventando insostenibili per l’economia sanitaria mondiale. Guardiamo solo in casa nostra, – prosegue Sesti – un decimo della spesa sanitaria nazionale se ne va per il diabete e le sue complicanze. E siamo ancora un Paese virtuoso da questo punto di vista, rispetto a molti altri».

In Italia, secondo il Rapporto «Facts and figures about diabetes in Italy», che analizza l’andamento dei principali indicatori della malattia regione per regione, redatto sotto l’egida dell’IBDO Foundation e presentato al Forum 2013, i costi diretti del diabete continuano ad essere attribuibili in misura preponderante ai ricoveri ospedalieri, che rappresentano circa il 57% dei costi complessivi, mentre i costi legati ai farmaci rappresentano meno del 7% della spesa pro-capite, stimata mediamente in circa 3.000 euro. Bisogna tuttavia considerare che i costi crescono esponenzialmente con il numero di complicanze croniche. Fatto pari a uno il costo annuale di un paziente senza complicanze, il costo quadruplica in presenza di una complicanza, è 6 volte maggiore in presenza di due complicanze, circa 9 volte maggiore in presenza di tre complicanze, e 20 volte maggiore in presenza di 4 complicanze.

In termini assoluti, i costi diretti per le persone con diabete ammontano a circa 9 miliardi di euro l’anno. Non va inoltre dimenticato che a questi costi vanno aggiunti quelli derivanti da perdita di produttività, pensionamento precoce, disabilità permanente e altri costi indiretti, che possono riguardare anche le perdite di produttività di chi assiste la persona con diabete. L’insostenibilità dei costi del diabete è legata particolarmente alla tardività degli interventi, secondo Sesti, che spiega come «la strada da percorrere è quella di battere la via della prevenzione e della diagnosi precoce, che permettono interventi rapidi e maggiormente efficienti».

Il tutto senza trascurare un altro aspetto oggetto di dibattito al Forum 2013: la geomedicina. «Il boom di diabete, soprattutto nei Paesi asiatici, è certamente frutto di una occidentalizzazione dei costumi. Per questo la geomedicina si impegna a studiare l’evoluzione delle malattie analizzando le influenze ambientali: studiandone non solo gli aspetti genetici o l’impatto dell’alimentazione, ma l’influsso nel suo complesso del clima, dell’ambiente fisico, delle implicazioni sociali, culturali ed economiche. Tutti questi fenomeni concorrono all’epidemia di diabete, non dobbiamo limitarci a osservarli ma dobbiamo anche comprenderli. Questo è il razionale di iniziative come il Forum e dei progetti internazionali che IBDO Foundation promuove», conclude.

L’Italian Barometer Diabetes Forum 2013 è parte integrante del progetto Changing Diabetes. «Un progetto su scala internazionale, sostenuto da Novo Nordisk, che risponde alle richieste di cambiamento espresse in tutto il mondo dalle persone con diabete: un cambiamento nel modo in cui il diabete viene trattato e curato e di come viene percepito dalle istituzioni e dall’opinione pubblica», spiega Costas Piliounis, Vice President Novo Nordisk Italia e Grecia.

(Fonte: HealthCom Consulting)
(Approfondimenti: http://www.changingdiabetesbarometer.com/index.aspx)

6. Fondazione Gates e Ue: «Farmaci e cure per malattie legate alla povertà

11 giugno 2013

«Mettendo a disposizione le risorse sufficienti e perseverando nell’impegno politico, potremo migliorare insieme la vita di milioni di persone entro la fine di questo decennio»: Bill Gates, copresidente della fondazione Bill&Melinda Gates, commenta l’impegno assunto l’11 giugno, in partenariato con l’Unione europea, per contrastare le malattie diffuse nei Paesi in via di sviluppo e legate alla povertà, fra cui tubercolosi, malaria, Hiv/Aids, patologie che colpiscono circa un 1 miliardo di persone in tutto il mondo. L‘accordo, firmato a Parigi dallo stesso Gates e da Máire Geoghegan-Quinn, commissaria Ue, istituisce un “partenariato strategico” per la ricerca nel settore.

Tra il 2007 e il 2011 – è stato ricordato – la fondazione e la Commissione hanno destinato 2,4 miliardi di euro», pari a 3,1 miliardi di dollari, «alla ricerca sulle malattie infettive legate alla povertà, sostenendo lo sviluppo di oltre 20 prodotti nuovi o migliorati». Il partenariato «investirà –come spiega Geoghegan-Quinn – in attività di ricerca e sviluppo nel settore dei farmaci e dei trattamenti salvavita per migliorare la salute e il benessere delle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo». Oltre ad accelerare lo sviluppo di farmaci, vaccini, esami e cure, «i due partner saranno impegnati a migliorarne l’accesso in modo da permetterne una diffusione rapida, sostenibile e a prezzi abbordabili a chi ne ha più bisogno».

(Fonte: Sir Europa)
(Approfondimenti: http://ec.europa.eu/commission_2010-2014/geoghegan-quinn/)

7. Olanda, eutanasia per i bimbi malati

13 giugno 2013

Se un neonato ha problemi di salute così gravi da impedirgli di sopravvivere, il medico che si occupa del caso può decidere di porre fine alla sua vita per limitare la sofferenza sua e quella dei genitori, costretti ad attendere il lento e letale decorso della malattia.

Il nuovo confine dell’eutanasia è tracciato dalla Knmg, l’associazione dei medici olandesi, che ha predisposto un documento in cui sono contenute le linee guide per seguire i bimbi che non hanno alcuna speranza, come nel caso dell’asportazione dell’apparato polmonare. La notizia, stata pubblica dal «Volkskrant», riguarda un numero di casi “limitato”, in media 300 creature l’anno.

Nel 2001 l’Olanda è stato il primo paese europeo  a legalizzare l’eutanasia. Dieci anni più tardi, i numeri di casi di “dolce morte” superava le 3500 unità. Il Belgio, arrivato secondo, sta prendendo in considerazione l’allargamento di quella possibilità anche per minori. Il ragazzo «se reputato in grado di giudicare ragionevolmente nei suoi interessi», potrà richiedere l’eutanasia. Se ha meno di 16 anni, è necessaria l’autorizzazione dei genitori. Se ha già compiuto i 16 anni, è obbligatorio avere il parere dei genitori, che però non è vincolante. Il testo è attualmente in discussione al parlamento federale. La proposta è stata avanzata in dicembre dal Partito socialdemocratico in carica. Ora è al Senato per conseguire il via libera definitivo. La legge è sostenuta da tutti i partiti, ad eccezione dei cattolici.

I medici dei Paesi Bassi intendono intervenire anche per limitare la sofferenza dei piccolissimi e dei loro padri e madri. Nel caso di soggetti a cui è stato asportato il sistema polmonare, si tratta di somministrare un farmaco che rilassa i muscoli e accelera il decesso invitabile.

Eduard Verhagen, un pediatra affiliato alla Knmg, rileva che spesso alcuni bimbi impegnano tempi molto lunghi per spegnersi. E che «dottori e genitori si interrogano spesso sulla necessità di costringere l’esserino a soffrire così a lungo». I bimbi, rileva, «diventano grigi e si raffreddano, le labbra cambiano colore al blu, e gemono per la mancanze dell’ossigeno. Può durare ore, a volte giorni». La legge richiede ai medici di fare rapporto sui decessi accelerati a un organismo di controllo centralizzato. Le autorità sanitarie monitorano da vicino ogni decisione.

Marco Zatterin
(Fonte. La Stampa)
(Approfondimenti: http://www.volkskrant.nl/)

8. Se lo sceriffo vuole il tuo DNA

14 giugno 2013

Due recenti decisioni della Corte Suprema degli Stati Uniti stanno facendo discutere. Si tratta di due cause diverse, senza alcuna correlazione giuridica fra loro, ma con un minimo comune denominatore: entrambe sono destinate a influire in qualche modo sul rapporto fra noi e il nostro DNA. La più recente riguarda la brevettabilità delle sequenze di DNA, con il caso della Myriad Genetics che meriterebbe un approfondimento a sé, non fosse altro che per raccontare l’altalena in borsa delle azioni di Myriad Genetics, di pari passo con le interpretazioni contrastanti della sentenza da parte dei mercati.

La decisione su cui mi soffermo risale invece al 3 giugno scorso. In essa, la Suprema Corte (sentenza Maryland vs King) ha stabilito che la polizia può legalmente prelevare e analizzare a scopo identificativo il DNA di chi viene arrestato per crimini gravi. Il DNA entra così a far parte a pieno titolo dell’armamentario identificativo a disposizione di qualunque stazione di polizia (e non solo dell’FBI), insieme alle buone vecchie impronte digitali e foto segnaletiche. Una pratica che fino ad oggi molti consideravano incompatibile con la Costituzione americana.

A riaccendere il dibattito arriva un articolo del «New York Times» dove si racconta che  le polizie locali di tutto il Paese  da tempo accumulano database di DNA sempre più estesi, molti dei quali provenienti da sospetti di basso profilo. Spacciatori, ladruncoli o rapinatori che hanno accettato il in cambio di uno sconto di pena, pur non essendo accusati di crimini gravi, come prescrive la legge. È lecito pensare che chiunque, magari arrestato a torto per un’infrazione, possa vedere il proprio DNA catapultato in una banca dati della polizia. Non è sorprendente che in molti giornali la notizia  sia stata assimilata allo scandalo datagate che imperversa oltreoceano, anche se l’accostamento è inaccurato.

Pur essendo un sostenitore della privacy, in particolar modo di quella genetica, la vicenda raccontata dal «New York Times» non mi sconvolge particolarmente. Certo, l’idea di sputare in una provetta affinché il nostro DNA diventi un file nei computer delle questure può non essere piacevole, e si può non essere d’accordo sul principio generale della schedatura individuale. Ma anche le impronte digitali, quelle dell’iride e le foto-tessera che tutti noi depositiamo in prefettura quando chiediamo un passaporto, o lasciamo sui computer delle dogane, vengono già digitalizzate e inserite nei database della polizia. Passando al DNA il concetto non cambia. O almeno, non cambia finché la polizia si limita a raccogliere, come ha fatto finora, dati esclusivamente identificativi, analizzando zone del DNA estremamente variabili da un individuo all’altro, “impronte digitali genetiche” da cui non si ricavano informazioni biologiche e predittive.

Tutt’altro scenario si porrebbe se un giorno le autorità decidessero di utilizzare il nostro DNA per leggere la predisposizione alle malattie mentali, all’alcolismo, al comportamento antisociale, informazioni che si possono già ricavare da un campione genetico, ma in modo ancora troppo vago per essere utile. Questi abusi sono per ora ipotetici e forse per i limiti intrinseci della genetica lo saranno per sempre. Ma è certo che qualunque esame del DNA che vada oltre la mera identificazione non dovrà mai essere effettuato senza il nostro consenso, e la società dovrà vigilare affinché questa sia una regola assoluta.

Se si accetta il principio, è logico che anche lo sceriffo di contea, o la locale stazione dei carabinieri, vogliano attingere alle migliori tecnologie di identificazione, e il DNA è un metodo semplice, sensibile e sempre più economico.

L’ironia è che mentre ci preoccupiamo di cosa fanno i questurini con il nostro DNA, l’evoluzione rapidissima della genetica sta togliendo alle autorità costituite l’appannaggio di questo tipo di raccolta dati, mettendolo nelle mani di chiunque abbia un computer e un po’ di iniziativa.

Già allo stato attuale non esistono ostacoli tecnici per cui il sottoscritto, o chi legge questo articolo non possa raccogliere e analizzare il DNA di amici e conoscenti. Nel 2008 due redattori di «New Scientist» dimostrarono come questa impresa sia relativamente facile. Chiunque può ricavare un profilo genetico da chi, magari ignaro dell’esperimento, viene a casa a bere un bicchiere coprendolo inevitabilmente di minuscole tracce di saliva. Oggi bisogna ricorrere a siti internet specializzati e spendere qualche decina di euro a campione, ma gli apparecchi per l’analisi casalinga del DNA, di cui oggi esistono vari prototipi sono destinati a cambiare le carte in tavola. Fra non molto un ragazzino sarà in grado di mettere in piedi una collezione (illegale) di  profili  genetici tale da fare concorrenza  a quella di una stazione di polizia di media grandezza, sfuggendo facilmente a qualunque controllo.

Arriverà il giorno in cui, per usare le parole del «New Scientist», vivremo perennemente come in una puntata di CSI? Andremo a cena dagli amici portandoci i bicchieri da casa? Avremo paura di stringere la mano al nostro assicuratore? Per diversi motivi che qui tralascio, ma che racconto nel mio libro sulla genomica di consumo, è improbabile che questi scenari catastrofici  si verificheranno davvero.

Quello che conta, invece, è essere coscienti dei rischi. C’è un fatto ad esempio che tendiamo a sottovalutare, ma che gli esperti di sicurezza ci insegnano: i principali nemici della nostra privacy dobbiamo cercarli in noi stessi, nella nostra incapacità di gestire il flusso delle informazioni che condividiamo, più che negli altri. Esiste sempre la possibilità che qualcuno ci spii dall’altro, ma il più delle volte siamo noi ad esagerare. Se postiamo qualcosa di compromettente su Facebook e lo facciamo leggere a tutti, siamo noi i colpevoli, non il Grande Fratello.

Questa constatazione vale anche per la nuova frontiera della biotecnologia, il social networking genetico, un nuovo paradigma basato sulla condivisione del nostro DNA, di cui il sito 23andMe è l’esempio più noto. Chi liquida questi fenomeni come una moda passeggera è fuori strada. Si tratta di strumenti nuovi e potenti, che offrono prospettive straordinarie per la ricerca, la medicina e perfino per la vita sociale.

Focalizzarsi unicamente sui rischi e non sfruttare queste opportunità sarebbe sbagliato. Altrettando sconsiderato è buttarsi a capofitto in un social network, per di più genetico, senza riflettere su costi e benefici.  Dovremo imparare a usare questi nuovi strumenti in modo proficuo: così come possiamo decidere di tagliare fuori i nostri amici di Facebook dalle cose più private della nostra vita, è possibile tutelare la nostra privacy genetica, condividere “in chiaro” solo le informazioni genetiche che sono utili per  noi, e valutare i pro e i contro prima di mettere in rete i nostri cromosomi.

Mentre ci preoccupiamo (giustamente) di cosa fa la polizia con il nostro DNA, non dimentichiamo che il futuro dietro l’angolo è ancora più complicato, rischioso e promettente di quello che vediamo oggi. In una parola, molto più interessante.

Sergio Pistoi
(Fonte: ScienzaInRete)

9. DNA brevettabile: dalla Corte Usa un saggio «no»

14 giugno 2013

«La sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti secondo la quale il Dna umano non può essere brevettato è una scelta di assoluto buon senso». È il commento di Bruno Dallapiccola, direttore scientifico dell‘Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, alla sentenza della Corte Suprema Usa.

«È una polemica che viene da lontano, legata ai grossi investimenti fatti da società soprattutto nord-americane – ha evidenziato il professore – . La scelta della Corte Suprema è una scelta di assoluto buon senso. Che ribadisce quanto già ribadito dalla Società europea di genetica umana e dalla Società italiana di  genetica umana: non si può brevettare qualcosa che è già stato “creato”, che è già presente biologicamente in natura giunto a noi attraverso l’evoluzione. Quello che si può brevettare è solamente la tecnologia o qualcosa di costruito sinteticamente».

«Viene meno – ha continuato Dallapiccola – anche l’argomento sollevato da coloro che facevano forti investimenti finalizzati alla ricerca di nuovi geni. Se questo era vero in passato, infatti, oggi i costi si sono abbattuti e ancora di più lo saranno nel prossimo futuro. Nel giro di pochi, per esempio, sarà possibile ottenere un’analisi completa del genoma umano nell’arco di una giornata e con soli 100 euro».

«La storica sentenza della Corte Suprema Usa che dichiara la non brevettabilità dei geni umani, come non è brevettabile tutto ciò che è considerato appartenente alla natura e ai suoi fenomeni, ha ribadito un principio fondamentale: del corpo umano non si fa commercio», dichiarano Paola Ricci Sindoni e Domenico Coviello, presidente e copresidente dell’Associazione Scienza & Vita. «Negli Stati Uniti  – proseguono– le sequenze del Dna umano erano brevettabili, quindi imprese private hanno usato in esclusiva kit diagnostici quali quello per la diagnosi del rischio di tumore della mammella (Brca1 e Brca2). Pur comunicando il risultato del test, tenevano tuttavia nascoste tutte le altre informazioni lette sul Dna dei pazienti che venivano analizzate. Grazie a questa sentenza, che demarca nettamente il “naturale” dal “sintetico” e quindi ciò che è patrimonio di tutti da ciò che è prodotto artificialmente, i brevetti vengono annullati ponendo le basi per una nuova era per il libero accesso alle informazioni genetiche».

«In Europa – chiariscono Ricci Sindoni e Coviello – la legislazione in tal senso è sempre stata più attenta, dichiarando che il Dna è patrimonio dell’umanità e le informazioni in esso contenute, utili ai progressi diagnostici e terapeutici, non possono essere commercializzate ma, salvaguardando la privacy dei pazienti, vanno condivise tra tutti i ricercatori». «Il divieto di brevettabilità del Dna non concerne solo lo sfruttamento commerciale del genoma umano, ma, ricordando la lezione di vita e di scienza del professor Jerome Lejeune, ci auguriamo che questa sentenza tenga alta l’attenzione su tutte le tipologie di utilizzo, anche eugenetico, che viene proposto o perpetrato, il più delle volte in modo surrettizio, anche nel mondo scientifico», concludono.

(Fonte: Sir)
(Approfondimenti: http://www.huffingtonpost.com/2013/06/13/supreme-court-dna-ruling_n_3435274.html)

10. Il deserto maschile e una società senza padri. I numeri che nessuno vuole vedere

17 giugno 2013

Un rapporto pubblicato a giugno dal think-tank britannico Centre of Social Justice (CSJ), mette in luce che le famiglie monoparentali raggiungeranno presto un totale di due milioni. È in atto uno «tsunami della famiglia che sta percuotendo il paese», ammonisce il direttore del CSJ, Christian Guy, nella prefazione del documento, intitolata: «Famiglie divise: perché conta la stabilità».

Il rapporto stima che le famiglie con un solo genitore stanno crescendo ad un ritmo di 20.000 all’anno e che raggiungeranno i due milioni al momento delle prossime elezioni politiche (2015). La convivenza, rileva il dossier, è il principale fattore alla base della crescita delle famiglie monoparentali. Dal 1996, il numero delle persone che convivono è raddoppiato, fino a sfiorare i 6 milioni. Secondo i dati del rapporto, i genitori conviventi sono tre volte più propensi alla separazione entro il compimento dei cinque anni del primo figlio, rispetto alle coppie sposate. Oggi, in Gran Bretagna, un quarto di tutte le famiglie con figli a carico sono guidate da un solo genitore, ed il paese mostra uno dei più alti tassi di rotture familiari nel mondo sviluppato, si legge nel rapporto.

QUANTO COSTANO. Il CSJ ha criticato il governo per aver ignorato il bisogno di stabilità delle famiglie, ricordando quanto detto dal primo ministro Davide Cameron durante la passata campagna elettorale, quando promise «il governo più amico della famiglia di sempre». Eppure il dossier rileva che per ognuna delle 6.000 sterline che il governo spende per i costi delle famiglie sfasciate, soltanto una sterlina viene spesa per aiutare le famiglie a mantenersi unite.

Il think-tank mette poi in luce gli enormi costi dell’aumento delle famiglie monoparentali. Il totale dei costi delle rotture familiari ammonta a 46 miliardi di sterline all’anno, quindi poco più di 1.500 sterline per ogni contribuente. Questi valori, si legge ancora nel dossier, sono aumentati di quasi un quarto negli ultimi quattro anni.

SENZA PADRI. Un’altra grave conseguenza dell’indebolimento della vita familiare è l’assenza di modelli maschili per i figli. Secondo il dossier almeno un milione di bambini crescono senza la presenza di un padre in casa. Il CSJ, inoltre, descrive come alcune delle regioni più povere del paese siano diventate dei “deserti maschili” poiché ben poche scuole primarie dispongono di insegnanti uomini. In Inghilterra e Galles un quarto delle scuole primarie sono totalmente prive di insegnanti di sesso maschile, mentre quattro quinti delle scuole primarie ne hanno meno di tre. L’assenza di padri e di modelli di riferimento maschili, osserva il rapporto, è legata a più alti tassi di delinquenza minorile, a precarietà economica e a gravidanze precoci.

NON È UN’OSSESSIONE “DI DESTRA”. Il direttore del CSJ ha osservato che i politici trovano sempre delle scuse per non aiutare le famiglie. Alcuni di loro affermano che la politica non debba interferire nelle questioni personali, altri ritengono che i cambiamenti nelle famiglie sono semplicemente parte della vita moderna, mentre altri ancora, addirittura negano che esista il problema del collasso della famiglia. «Questo atteggiamento deve cambiare – sollecita Guy -. Il collasso della famiglia è un urgente tema di salute pubblica», ha dichiarato. «Appoggiare l’impegno e porsi un obiettivo di ridurre l’instabilità non equivale a criticare o stigmatizzare i genitori single o i loro figli», ha detto. Dobbiamo percepire che il sostegno al matrimonio «non è un’ossessione della destra ma un tema di giustizia sociale», ha spiegato il direttore del CSJ. Infatti, ha proseguito, «nella società, i giovani vorrebbero sposarsi, tuttavia le barriere culturali e finanziarie che essi devono fronteggiare nelle comunità più povere, contrastano con le loro aspirazioni».

I BENEFICI DELL’UNITA’ FAMILIARE. L’ampiezza dei problemi determinati dalle divisioni nella vita familiare è stato il tema di un altro dossier britannico, pubblicato lo scorso anno dall’Economic and Social Research Council. Secondo il rapporto, pubblicato dal quotidiano «Telegraph» lo scorso 7 novembre, assistere allo sfascio della propria famiglia quando si è bambini, è associato a problemi psicologici che emergono dopo i trent’anni.

Numerosi altri studi hanno dimostrato i vantaggi di una vita matrimoniale stabile, con risultati positivi che vanno dagli stipendi più alti per i padri a più alti livelli di salute e felicità. Un sito web sul matrimonio sponsorizzato dalla Conferenza Episcopale degli USA include una pagina (http://www.foryourmarriage.org/what-are-the-social-benefits-of-marriage/) sui benefici sociali del matrimonio.

UN DANNO PER LA SOCIETÀ. Nonostante la grande quantità di informazioni che dimostrano l’importante ruolo del matrimonio per la società, il numero delle famiglie monoparentali continua a crescere. Nel 2010, negli Stati Uniti, solo il 63% dei figli viveva in una famiglia con due genitori, contro l’82% del 1970. Questi dati sono stati riportati da un articolo pubblicato lo scorso 20 marzo dal «New York Times», che rileva anche le condizioni economiche peggiori degli uomini con minore istruzione. L’articolo cita anche una ricerca che mostra come i bambini che crescono nelle famiglie a più basso reddito, di solito sono cresciuti soltanto dalle loro madri e, a loro volta, sono destinati a diventare genitori di figli con basso reddito.

Con una tale quantità di prove che dimostrano come il declino della famiglia sia dannoso per la società, la domanda che richiede una risposta è come mai i governi fanno così poco per dare sostegno al matrimonio e alle famiglie.

John Flynn
(Fonte: Zenit.org)
(Approfondimenti: http://www.centreforsocialjustice.org.uk/UserStorage/pdf/Pdf%20reports/CSJ_Fractured_Families_Report_WEB_13.06.13.pdf)

(http://www.telegraph.co.uk/news/uknews/9660231/Children-suffer-effects-of-parents-divorce-into-adult-life-study.html)

11. America, più limiti all’aborto: la Camera approva la legge

20 giugno 2013

Con 228 voti a favore e 196 contrari, la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, a maggioranza repubblicana, ha approvato un disegno di legge che vieta di abortire dopo la 20ma  settimana di gravidanza. Il limite, secondo la controversa teoria sposata da una minoranza di medici Usa, entro il quale il feto può sentire dolore. Anche se la proposta di legge non ha alcuna chance di diventare effettiva, dato che i democratici controllano il Senato e la Casa Bianca minaccia di porre il veto, il voto è considerato uno spartiacque da entrambi gli schieramenti. «È un evento storico che spiana la strada alla revisione dell’intera legge», esulta Marjorie Dannenfelser, presidente della potente lobby antiabortista «Susan B. Anthony List», dal nome della celebre attivista Pro-Life scomparsa nel 1906.

Di ben altro avviso i gruppi Pro-Choice quali Naral, secondo i quali la norma è «anticostituzionale» perché viola la legge federale Roe Vs. Wade del 1973 che autorizza l’aborto fino alla 24ma settimana di gravidanza. Contro l’iniziativa che certifica la crescente influenza dell’ala ultraconservatrice all’interno del Gop e rischia di alienargli ulteriormente le simpatie delle donne, si è schierata la Casa Bianca che l’ha già bollata come «un attacco al diritto della donna di scegliere». «Questo disegno è un affronto diretto a Roe v. Wade — spiega — e mostra disprezzo nei confronti della salute e dei diritti delle donne, del ruolo dei medici e della costituzione».

Per lo speaker repubblicano della Camera John Boehner si tratta invece di «una risposta appropriata» alla recente condanna per omicidio colposo del ginecologo di Philadelphia Kermit Gosnell, che nella sua clinica praticava aborti oltre i limiti fissati dalla legge. «Dopo ciò che è successo a Philadelphia — ha detto — la stragrande maggioranza degli americani crede in questa legge».

Dopo essersi focalizzati per anni su un’agenda fiscale- economica, i repubblicani tornano ad occuparsi di temi sociali quali il matrimonio gay e l’aborto. Quest’anno, ben 14 Stati dell’Unione, tra cui Alaska, Georgia, Montana, Utah, hanno varato 32 misure ad hoc che impongono nuove restrizioni sull’aborto. E se i numeri continuano a favorire i democratici, l’ago della bilancia potrebbe presto invertirsi. «La morte del senatore Frank Lautenberg e la nomina di John Kerry a segretario di Stato hanno finito per vacare due importanti seggi democratici, rispettivamente in New Jersey e in Massachusetts», scrive il «Washington Post», secondo cui le prossime elezioni senatoriali nei due Stati Pro-Choice potrebbero «alterare il voto sull’aborto in direzione opposta».

Alessandra Farkas

(Fonte: Corriere della Sera)
(Approfondimenti: http://www.csmonitor.com/USA/DC-Decoder/2013/0618/House-GOP-passes-major-antiabortion-bill.-Why-Democrats-are-pleased.-video)

12. Femminicidio, Oms: un terzo dei casi causati dal partner

20 giugno 2013

Poche ore dopo la ratifica definitiva da parte del Senato italiano della Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere, escono sulla rivista «Lancet» le cifre più affidabili sul cosiddetto “femminicidio”, secondo le quali in almeno un terzo dei casi questi crimini sono commessi dal partner, di solito al culmine di una storia di abusi.

La revisione sistematica della letteratura è stata diretta per conto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità da Heidi Stöckl, epidemiologa della London School of Hygiene and Tropical Medicine. «I dati sono stati ottenuti per 66 Paesi. Complessivamente il 13,5% degli omicidi risulta essere stato commesso dal partner intimo, e questa proporzione è risultata essere sei volte più elevata per gli omicidi con vittime femminili rispetto agli omicidi con vittime maschili (38,6% rispetto a 6,3%)», scrivono Stöckl e colleghi della McMaster University canadese, del South African Medical Research Council, della Johns Hopkins University di Baltimora e dell’Organizzazione mondiale della sanità. «Le correzioni per tenere conto dei casi in cui la relazione tra vittima e autore del crimine non è nota in generale fanno salire la prevalenza, suggerendo che i dati presentati siano prudenti».

Stabilire con precisione la prevalenza di omicidi del partner, in effetti, non è semplice, perché dipende dalla qualità dei dati di partenza, non sempre all’altezza: le informazioni sui delitti vengono raccolte dalla polizia o attraverso gli obitori in modo disomogeneo, e i rapporti tra vittima e assassino non sono comunemente registrati, nonostante la loro importanza per le strategie di prevenzione. La conclusione dei ricercatori è comunque molto significativa: «Almeno un omicidio su sette nel mondo e oltre un terzo degli omicidi con vittime femminili sono commessi dal partner intimo. Questa violenza di norma rappresenta il culmine di una lunga storia di abusi» riepilogano i ricercatori. «I nostri risultati sottolineano che le donne sono sproporzionatamente vulnerabili alla violenza e che i loro diritti sono trascurati da troppo tempo. Bisogna aumentare gli investimenti nella prevenzione della violenza del partner, sostenere le donne che denunciano una violenza domestica e proibire il possesso di armi negli individui con storia di violenza».

E in un editoriale Norman Rosana, ricercatore dell’Università del Queensland in Australia, commenta: «La ricerca sulle complesse questioni relative alla relazioni intime può essere intrapresa solo su dati affidabili raccolti in modo sistematico. Sono dunque auspicabili miglioramenti in questo senso in ogni paese, in quanto la disponibilità e la qualità dei dati variano molto da una regione all’altra».

Questo è il presupposto anche per rendere più efficaci i quattro principi alla base della convenzione di Istanbul, sottoscritta da 28 Paesi e già ratificata da quattro paesi (Albania, Montenegro, Portogallo e Turchia) oltre all’Italia. I quattro principi sono riassunti da altrettante P, che stanno per Prevenire, Proteggere e aiutare le vittime, Perseguire i colpevoli, con Politiche integrate. A questo scopo, la convenzione prevede che vengano sanciti i nuovi reati per punire la «violenza contro le donne» (reato contro i diritti umani commesso con ogni tipo di attività violenta, anche solo minacciata, in pubblico o in privato) la «violenza domestica» (ogni atto di natura violenta fisico, sessuale, psicologico o economico che si verifichi all’interno della famiglia o fra chi un tempo costituiva un nucleo familiare, anche non convivente) e «violenza di genere contro le donne», che punisce qualsiasi atto violento diretto contro una donna perché donna.

(Fonte: DoctorNews)
(Approfondimenti: http://download.thelancet.com/pdfs/journals/lancet/PIIS0140673613612222.pdf)

13. Bioetica, nuove istruzioni DNR nel Regno Unito

21 giugno 2013

Anticipata alla fine dell’anno la pubblicazione delle nuove istruzioni a cui medici e infermieri britannici dovranno attenersi davanti a un ordine DNR, «do not resuscitate», che ha finora previsto il rispetto della volontà del paziente nel non prendere misure straordinarie per tenerlo in vita.

La necessità di prendere rapidamente una posizione chiara in merito all’argomento è stata sottolineata da numerosi enti medici, fra cui la Care Quality Commission, la British Medical Association (BMA), il Servizio Sanitario Nazionale (NHS), e il General Medical Council. Tante voci dibattono su un tema estremamente delicato che secondo la BMA sarebbe «un complesso ramo della medicina, che può colpire profondamente i pazienti e le persone a loro care.»

La decisione di anticipare la revisione del documento, la cui ultima pubblicazione risale a novembre 2007, è stata presa nonostante la precedente notizia divulgata secondo cui il tutto sarebbe stato rimandato a dopo la fine del caso legale che coinvolge la famiglia di Janet Tracey, deceduta nel novembre 2011 presso l’ospedale di Addenbrooke, Cambridge. Ciò per cui i familiari stanno portando avanti la causa legale è la possibilità di avere una politica di governo perché i medici si rivolgano ai familiari prima di eseguire l’ordine di «non resuscitare» che i pazienti hanno precedentemente firmato in un momento in cui fu loro certificata la capacità di intendere e di volere. Nel caso di Janet, l’accusa che viene rivolta al personale medico è quella di averle negato il diritto alla vita. Già l’anno scorso il giudice si era pronunciato sull’inappropriatezza di un controllo giurisdizionale per un caso legale, ma la famiglia Tracey sta combattendo contro questa sentenza anche se non è ancora chiaro quando si concluderà l’intero caso.

In loro favore, ha parlato la rappresentante di Leigh Day, Merry Varney, affermando di «rimanere convinta che revisionare questi documenti sia una necessità non solo per i medici, ma anche per i pazienti e le famiglie perché sia chiaro quando e in che modo queste volontà debbano essere eseguite.»

Anche David Pitcher, cardiologo a capo del Resuscitation Council, si è detto favorevole all’anticipata pubblicazione del documento: «Abbiamo sentito il bisogno di assicurarci che fosse solido e aggiornato». L’importanza di queste istruzioni emerge in modo chiaro quando si tratta di accertarsi che altri professionisti siano a conoscenze di queste decisioni, nel caso in cui i pazienti vengano trasportati in un altro ospedale, spostati da case di cura o portati avanti e indietro dalle loro abitazioni. «In momenti come questi, in cui le condizioni dei pazienti cambiano, bisogna tornare su queste volontà e assicurarsi che non siano cambiate».

Il Dipartimento della Salute ha invece affermato che «il Servizio Sanitario Nazionale dovrebbe occuparsi di queste regolamentazioni localmente, appoggiandosi ad enti autorevoli come il BMA, il Royal College of Nursing e il Resuscitation Council». Una tale soluzione è in contrasto con ciò che è emerso finora, la sensazione cioè che fosse prioritario un accordo su base nazionale su come gestire queste situazioni.

Con argomentazioni opposte, si è schierato il General Medical Council, sostenendo che «la decisione finale concernente il trattamento, deve essere dei medici. Le famiglie dei pazienti mentalmente abili non hanno diritti legali in materia». A dare un po’ di speranza sono intervenuti alcuni rappresentanti dei dottori, che hanno chiarito come sia in vigore la buona abitudine, quando è possibile e con il consenso del paziente, di parlare anche con i familiari prima di mettere in atto una volontà ultima tanto solenne.

Posizioni difficilissime, in merito ad un gravissimo tema, affrontato in Scozia con una regolamentazione nazionale, e che in Inghilterra sarà sviscerato in tutte le sue possibili complicazioni fino a fine anno, quando la nuova versione delle norme da applicare sarà nota a tutti.

Andrea Francesca Franzini
(Fonte: www.ilreferendum.it)
(Approfondimenti: http://www.resus.org.uk/pages/dnarrstd.htm)

14. In Cina mancano 37 milioni di donne

24 giugno 2013

In Cina, la politica del figlio unico ha ridotto il numero delle donne e sta facendo esplodere il fenomeno del traffico sessuale e della prostituzione. Il Population Research Institute, nel weekly briefing del 24 giugno, ha pubblicato un servizio a firma di Anne Roback Morse, secondo cui il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti nel suo ultimo rapporto (Trafficking in Persons Report) constata che la Cina è scesa nella classifica ed è diventata un Paese destinatario del traffico del sesso.

Secondo il Dipartimento di Stato Usa, la politica del figlio unico adottata 33 anni fa in Cina è la principale causa dell’incremento del traffico sessuale e della prostituzione all’interno del Paese. La politica del figlio unico ha costretto centinaia di milioni di coppie cinesi a scegliere se avere un figlio femmina o un figlio maschio, e la scelta si è risolta in grandissima maggioranza verso il figlio maschio.

Le figlie femmine non sono state fatte nascere, è stato praticato un aborto selettivo nei confronti delle bambine. Attualmente ci sono oltre 30 milioni di maschi in più delle femmine. Si tratta di una popolazione pari al numero delle donne di California, Texas e Pennsylvania messi insieme. Immaginate di cancellare tutte le donne di questi tre Stati, a quel punto gli uomini si metteranno in viaggio per cercare le donne.  La politica del figlio unico in Cina ha quindi cancellato almeno 37 milioni di bambine. Ed è evidente che la risposta alla domanda di donne ha fatto esplodere il fenomeno del traffico sessuale e della prostituzione. Si sono verificati, infatti, rapimenti di donne dalle zone rurali verso le città. Il crimine organizzato sta “esportando” donne dalle altre nazioni verso la Cina. Donne provenienti da Russia, Europa, Africa e dalle Americhe sono state rapite, comprate, ingannate, e portate in Asia per cercare di colmare la mancanza di 37 milioni di donne.

Questi tristi dati sono solo uno dei tanti motivi per cui la politica del figlio unico dovrebbe essere abolita…

Antonio Gaspari
(Fonte: Zenit.org)
(Approfondimenti: http://www.pop.org/content/us-state-department-acknowledges-china%E2%80%99s-sex-trade-fueled-one-child-policy)
(http://www.scribd.com/doc/148788611/JTIP-2013-Intro-Section-17June)

15. Nozze gay, arriva il sì della Corte Suprema Usa. Scienza&Vita: gli Stati Uniti non sono l’Italia

26 giugno 2013

Svolta negli Stati Uniti. Così come aveva chiesto il presidente Obama nel discorso del suo secondo insediamento, la Corte Suprema legittima il matrimonio tra persone dello stesso sesso. E lo ha fatto bocciando il Defence Marriage Act (DOMA), la legge federale americana secondo cui ci si può sposare solo tra uomo e donna.

Lo stesso Obama, subito dopo la decisione della Corte Suprema, ha esultato con un tweet: «La sentenza è uno storico passo avanti verso l’uguaglianza». Dopo qualche minuto è arrivata anche una nota ufficiale del presidente Usa: «Applaudo la scelta della Corte Suprema. Cancellata legge discriminatoria che trattava coppie gay innamorate e impegnate come cittadini di serie B».

L’incostituzionalità della norma è stata approvata con cinque voti a favore e quattro contrari, con il giudice Anthony Kennedy che ha fatto la differenza, schierandosi con i quattro giudici scelti dai democratici. La norma, secondo la Corte, viola i diritti delle coppie gay negando loro i benefici federali riconosciuti dal matrimonio.

«È un giorno tragico per il matrimonio e per la nostra nazione», si legge nel comunicato della conferenza episcopale americana firmato dal presidente, l’arcivescovo di New York Timothy Dolan.

«La decisione della Corte Suprema Usa in tema di equiparazione delle diverse forme di famiglia, compresa quella omosessuale, ha immediatamente scatenato entusiasmo da parte di quanti chiedono che l’Italia non resti indietro e si adegui alla “civiltà” espressa dall’ordinamento statunitense. Nonostante i fenomeni innescati dalla globalizzazione, ogni nazione ha il diritto/dovere di formulare soluzione proprie, tenendo conto della propria cultura e del proprio ethos», afferma Paola Ricci Sindoni, presidente nazionale dell’Associazione Scienza & Vita. «Non v’è dubbio che questa sentenza abbia valore storico, soprattutto perché scardina pesantemente la legge naturale che vuole siano un uomo e una donna a trasmettere la vita all’interno di un istituto riconosciuto socialmente. Vale la pena ricordare che nessuna nazione può esprimere una presunta superiorità culturale; si pensi ad esempio che la sentenza di ieri è espressione dello stesso Paese che considera normale ammettere la pena di morte». «La pretesa di uniformare e rendere neutro ciò che neutro e uniforme non è, vuol dire imporre un’equivalenza che non trova fondamento né antropologico né culturale. Non possiamo condividere la deriva di una società che, avvalendosi ideologicamente della teoria del gender, vuole garantire un’uguaglianza eliminando la differenza».

(Fonti: Corriere della Sera, Scienza&Vita)
(Approfondimenti: http://en.wikipedia.org/wiki/Defense_of_Marriage_Act)

16. Manuale di Bioetica in distribuzione alla GMG Rio 2013

27 giugno 2013

Durante la Giornata Mondiale della Gioventù di Rio de Janeiro (23-28 luglio 2013) verranno distribuite più di due milioni di copie, in quattro lingue, del Manuale di Bioetica per i giovani, intitolato «Keys to Bioethics» (Chiavi per la bioetica).

«Il contenuto è stato elaborato da professionisti nel campo della bioetica, della salute e delle scienze umane e sociali, molti dei quali sono legati o vicini alla Fondazione Jérôme Lejeune, creata per continuare l’azione del professor Lejeune», ha spiegato all’agenzia Zenit padre Rafael Fornasier, consultore della Commissione Pastorale Episcopale per la Vita e Famiglia della Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile (CNBB).

Nel 1958 il genetista e pediatra francese Jérôme Lejeune scoprì che la sindrome di Down è un’anomalia genetica, la quale comporta che le cellule contengono 3 copie del cromosoma 21 anziché due, per cui viene anche chiamata trisomia 21. Da allora, Lejeune si è dedicato alla ricerca scientifica di una terapia per curare la sindrome e migliorare la vita dei portatori della trisomia 21, respingendo con fermezza la legalizzazione dell’aborto.

«Keys to Bioethics» – preparato dalla Fondazione Jérôme Lejeune, in collaborazione con la Commissione Nazionale di Pastorale familiare della CNBB e con il Centrode Estudios Biosanitarios(Spagna) – è una rielaborazione del manuale della stessa Fondazione Jérôme Lejeune in Francia, distribuito gratuitamente pochi anni fa in varie lingue.

«L’idea di distribuirlo durante la GMG è partita dai colloqui condotti dalla Fondazione Jérôme Lejeune con i vescovi, i sacerdoti e i laici che lavorano nel campo della bioetica, raggiungendo così una proposta comune che è stata fatta con l’organizzazione della Giornata Mondiale della Gioventù, la quale, a sua volta, ha abbracciato l’idea e si sta impegnando con molta forza e dedizione per far arrivare il manuale nelle mani dei giovani», ha detto padre Rafael.

L’introduzione del Manuale, firmata da monsignor Orani João Tempesta, arcivescovo di Rio, e da Jean-Marie Le Méné, presidente della Fondazione Jérêome Lejeune, afferma: «Si tratta di una presentazione oggettiva delle grandi questioni bioetiche con le quali veniamo tutti confrontati e che ci lasciano frequentemente impreparati. Basato sui fondamenti della scienza e della ragione, “Keys to Bioethics” permette al lettore di coglierle semplicemente grazie ad una informazione precisa e rigorosa, a cui la fede della Chiesa arriva a dare il suo pieno significato».

«Il manuale – spiega don Rafael – oltre a dare alla fine del testo un elenco di riferimenti bibliografici, si basa anche sulle posizioni attuali dei ricercatori. È stato adattato e rivisto per quanto riguarda la sua terminologia e la sua applicazione da un Paese all’altro, con l’aiuto degli organismi sopra menzionati». Secondo padre Rafael Fornasier, «il Manuale non ha alcun interesse a far valere o difendere questa o quella linea di bioetica. Di fronte al linguaggio puramente sanitario (preoccupandosi più della trasmissione di malattie sessualmente trasmissibili che di una vera e umana educazione sessuale per i giovani), contraccettivo (mirato ad un controllo delle nascite, senza una corretta informazione per quanto riguarda il rischio rappresentato dall’uso di metodi contraccettivi ampiamente diffusi, spesso per interessi economici di parte), utilitarista (proponendo l’uso di esseri umani a scopo di ricerca o di eliminarlo quando è indesiderato, inutile o economicamente oneroso per il sistema di sicurezza sociale) e ideologico, il Manuale si propone di mettere in chiaro alcuni elementi che aiutano i giovani a realizzare un giudizio etico su quello che viene proposto loro – a volte imposto – come informazione relativa ai temi scottanti riguardanti la vita umana di oggi».

«Keys to Bioethics» ha ricevuto fondi per la produzione e la distribuzione da parte della stessa Fondazione Jérôme Lejeune e da generosi donatori provenienti da vari Paesi.

Per informazioni: vidafamilia@cnbb.org.br

(Fonte: Zenit.org)
(Approfondimenti: http://www.fondationlejeune.org/)

17. Londra accelera sull’embrione con tre genitori. Scienza&Vita: non si manipola la natura

28 giugno 2013

La Gran Bretagna ha dato il via al processo che potrebbe farle ottenere un primato controverso. Ovvero, il titolo di prima nazione al mondo che permette la fecondazione artificiale utilizzando materiale genetico da tre genitori diversi.

Il 28 giugno il governo ha confermato di appoggiare la tecnica studiata nei laboratori dell’università di Newcastle sotto la guida del professor Doug Turnbull. E ha dichiarato che presenterà la proposta di legge alla fine di quest’anno sperando che possa entrare un vigore entro due anni. L’esperimento è controverso e sta sollevando forte opposizione perché implica la manipolazione e lo scarto di embrioni e la creazione di cosiddetti “designer baby”, ovvero neonati su misura. Il sistema “crea” un embrione con il materiale genetico di una coppia, sostituendo però i mitocondri che presentano dei difetti con quelli sani dell’embrione ottenuto da una terza donatrice. Durante il procedimento l’embrione che rimane con il materiale genetico “difettoso” viene poi distrutto.

Per l’ufficiale sanitario Sally Davies che il 28 giugno ha annunciato i piani del governo, la tecnica rappresenterebbe la risposta alla cura di rare malattie genetiche ma per David King, direttore dell’associazione Human Genetic Alert, è motivo di profonda preoccupazione. «Ancora una volta – dice ad “Avvenire” – è la Gran Bretagna a promuovere l’ultima follia nel mondo della genetica. Non capisco questo accanimento. Una coppia che teme di mettere al mondo un bambino a rischio di malattie gravi ha varie possibilità: può adottare o anche usare l’ovulo di una donatrice senza per forza manipolare geneticamente un embrione».

Preoccupazione è stata espressa anche dall’italiana Scienza&Vita. «Ancora una volta, usando lo schermo dell’uso terapeutico, si vuole far accettare l’ipotesi che la manipolazione genetica degli embrioni umani sia giuridicamente ed eticamente accettabile», si legge nel comunicato. Dopo una consultazione pubblica durata circa un anno, lo scorso dicembre la Human Fertlisation and Embryology Authorithy, l’ente che regola in Gran Bretagna il campo della fecondazione assistita, aveva fatto pressione sul governo affinché approvasse questa legge.

«Il fine di evitare la trasmissione di malattie ereditarie non rende lecito intervenire sulla base fondante del nostro essere umani», hanno dichiarato Paola Ricci Sindoni e Domenico Coviello, presidente e copresidente nazionali dell’Associazione Scienza & Vita. «In questo caso, addirittura, l’eventuale nato da un embrione così ottenuto avrebbe un patrimonio genetico riconducibile ad almeno tre persone. Da ultimo, non bisogna dimenticare il problema eugenetico che questa ricerca porta con sé: un essere umano in cui vi siano solo “buoni” geni e in cui la perfezione viene prima di ogni altra dimensione».

(Fonti: «Avvenire», Scienza&Vita)

(Approfondimenti: http://www.ncl.ac.uk/iah/news/news/item/paving-the-way-for-law-change-for-pioneering-ivf-technique-copy

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