Descartes avrebbe fatto meglio a scrivere: Soffro, dunque sono.
Paul Valéry, Quaderni, V, «Affettività»
I. Due titoli
Il titolo dato a questo convegno – I volti della sofferenza − delimita e al tempo stesso intensifica la riflessione e la meditazione nel dare un volto a ciò che potrebbe presentarsi in modo anonimo come un carattere generale dell’esistere.
Ancora: il titolo ha scelto tra due possibili termini, sofferenza e dolore1. Sono sinonimi ma nell’uso corrente oggi prevale il secondo, con una tendenza teorica e pratica ad una sua riduzione neurobiologica, salvo l’appello alla dimensione emozionale soprattutto in campo mediatico.
Nella definizione del dolore e della sofferenza concorre innanzitutto l’antropologia di riferimento. Se l’uomo è (solo) corpo, il dolore di conseguenza è qualcosa di unicamente corporeo, anche se questo riferimento può diventare molto ampio, come oggi avviene. Il dolore (corporeo, in particolare quello oncologico) diventa così il grande nemico, quasi l’unico: il male per eccellenza, ad esclusione di altre dimensioni. Se le cose stanno così, chi lo vince o lo controlla assurge anche ad un grande potere emblematico e reale.
I volti della sofferenza ci propone un altro itinerario: il plurale delle sofferenze ma soprattutto dei volti che le vivono e le esprimono, con un invito a non disgiungere mai questi due termini. Il titolo della conferenza − Non distogliere lo sguardo − è tratto da Simone Weil. Quando ci imbattiamo nella sofferenza, la tentazione di guardare altrove è molto forte, con la sola resistenza della possibile em-patia o com-passione. Con quale sguardo, allora? − ci si può domandare. Luc Boltanski ci ha guidato a cogliere i tratti dello spettacolo del dolore che i media − in modo effimero − ogni giorno confezionano2. Il dolore da sempre calca il teatro, oggi spesso in forma che rifugge da ogni dura sapienza.
Il filo conduttore di questa riflessione, come indicato dal sottotitolo, sarà il male e la sofferenza nel pensiero filosofico, ma assumerà in qualche momento anche un riferimento religioso. Tre sono i momenti: il primo recupera sinteticamente i molti modi con cui la filosofia ha preso in carico la sofferenza. Il secondo, con la guida di Emmanuel Lévinas, si sofferma sul nesso tra la sofferenza e il volto. Il terzo tratteggia in rapporto al nostro tema le «cristologie filosofiche» di Simone Weil, Paul Ricœur e Luigi Pareyson.
II. La filosofia e la sofferenza
Il tema della sofferenza intesa come male subito (dolore, sofferenza, violenza) si interseca con quello del male agito (male morale, colpa, peccato) e del cosiddetto male «metafisico» (condizione umana finita e mortale). È un nesso importante che condensa le tesi e le difficoltà dell’intera questione. In attesa di riprenderlo, ci limitiamo ora ad abbozzare una breve lettura di ciò che la filosofia e, in modo parziale e indiretto, le religioni hanno detto a proposito della sofferenza, del male subito. Non potendo ripercorrere questa storia piuttosto ampia, possiamo almeno individuarne alcuni modelli3, che offrono sia vari modi di comprensione sia strategie di rapporto concreto con la sofferenza.
La lamentazione che si origina dalla sofferenza e dalla morte è presente in ogni cultura e spesso con accenti molto simili. Essa risuona in particolare nella tragedia greca, i cui protagonisti devono sempre far fronte al destino insieme alla sofferenza, che in Eschilo e Sofocle diventa anche forma avanzata di conoscenza.
La tragedia appartiene al mondo mitico che ha conosciuto anche altri orizzonti, come ha delineato Ricœur nella sua Simbolica del Male. Se la tragedia con il coro insiste nel denunciare l’ybris dell’eroe, lo fa sullo sfondo di una teologia che rintraccia nell’ambiguità invidiosa del divino l’origine sia della colpa sia dell’espiazione conseguente. Il male – in tutte le sue accezioni – viene dall’originario, denuncia a sua volta e in modo non dissimile il mito cosmologico mediorientale, ma anche le sue tardive riprese gnostiche e filosofiche. La tradizione orfica invece afferma che il male e la sofferenza derivano dalla caduta dell’anima nella materia e nel tempo, in un ciclo di colpa e riscatto che si alimentano di continuo e da cui è possibile salvarsi attraverso una gnosi che in qualche modo prelude alla filosofia. Il mito antropologico biblico infine addita non in Dio ma nella libertà umana la scaturigine della colpa, cui segue la sofferenza come inevitabile castigo; il racconto però non scioglie del tutto l’enigma dell’origine del male, che si presenta già là nella forma della seduzione impersonata dal serpente.
Solo nel periodo ellenistico la sofferenza e il dolore, pensati insieme alla felicità (eudaimonia), entrano esplicitamente nella riflessione filosofica. Il piacere come assenza di dolore è la tesi di Epicuro, ripresa in molte varianti da altri, in particolare dall’utilitarismo degli ultimi due secoli che identifica il piacere (misurabile) con la felicità.
Secondo la Stoà antica, morte e sofferenza fanno parte degli indifferenti contro natura, che non dipendono dalla scelta umana e vanno affrontati con la ragione e la virtù della fortezza. Per entrambe le scuole è importante prendere distanza, trovare una forma di apatia, atarassia, aponia a servizio dell’imperturbabilità del saggio, ben diverso dal comportamento passionale della massa.
Le istanze religiose si fanno sentire tanto nel neoplatonismo quanto nel pensiero cristiano. Il modulo metafisico che ne emerge da Plotino e Agostino, passando per l’intera Scolastica, fino alla teodicea di Gottfried W. Leibniz cerca di collocare con accenti diversi la sofferenza nella grande catena dell’essere, cioè nella sottile relazione che si viene a instaurare tra male fisico, male morale e male metafisico, sotto la generale definizione di male come privatio boni debiti; così pure questo modulo cerca di rendere compatibili l’onnipotenza e la bontà di Dio con l’esistenza del male.
Al suo interno ritorna in nuova formulazione lo schema della retribuzione, tipico delle religioni ma anche di un pensiero protofilosofico come quello di Anassimandro: la pena è il risarcimento della colpa in un sistema cosmico o fisico-metafisico in cui alla fine deve regnare un equilibrio secondo giustizia. Vi si apparenta lo schema orientale del karman-samsara-moksa, a cui ricorre anche Arthur Schopenhauer: nell’ascesi e nella compassione (oltreché nell’arte e nell’etica) è la vittoria sulla volontà, che volendo unicamente se stessa, genera dolore senza limiti.
Lo schema retributivo può volgersi in itinerario pedagogico, soprattutto se declinato in chiave religiosa; l’imitatio Christi comporta anche, se non soprattutto, la partecipazione alle sue sofferenze. Questa partecipazione può arrivare a forme acute ed estreme fino trasformarsi in dolorismo, in accentuazione enfatica del valore della sofferenza, identificata con la fede in Søren Kierkegaard.
Viceversa, l’antico modulo tragico, unitamente al distacco stoico, può dar vita a un proposito eroico, che si fa sentire nello Zarathustra di Friedrich Nietzsche. Una sua eco si trova nella decisione anticipatrice della morte nel cuore dell’analitica esistenziale di Essere e tempo, che fa della finitezza la cifra tanto dell’esserci quanto dell’Essere stesso (forse obliterando la stessa sofferenza).
Sempre sul piano esistenziale ma in modo diverso e al proprio interno con accentuazioni diverse s’è delineato un modulo esistenziale e pratico, a cui hanno variamente contribuito Max Scheler, Karl Jaspers, Gabriel Marcel, Paul Ricœur: la sofferenza è una situazione limite e un’aporia per il pensiero, da vivere, sentire e trasformare in atto etico.
In tutte queste forme pur così diverse si può individuare una costante: il mistero o l’enigma della sofferenza è sempre collegata con una comprensione del tutto (il ‘divino’, il mondo fisico o ideale, l’inizio delle cose e la loro fine, l’essenza della realtà, il piano dell’universo o della storia ecc.). La sofferenza talvolta è ‘spiegata’ a partire da questo sfondo, altre volte ne è l’iniziazione fondamentale alla comprensione. In ogni caso, il modo di guardare alla realtà è strettamente congiunto a quello del comprendere o no, accettare o no, la sofferenza.
Nel nostro mondo – modellato dal punto di vista del sentire comune dai mezzi di comunicazione di massa e improntato dal modello fondamentalmente edonistico della società dei consumi − come c’è stata una specie di scotomizzazione della morte, così se ne può dare una simile della sofferenza, ma in forma contraddittoria: da un lato la spettacolarizzazione della sofferenza è quotidiana; dall’altra è continuamente disinnescato il confronto reale. Di fatto si è sempre più soli nel dolore – secondo gli schemi dell’individualismo vigente, con il mito di una tecnica salvifica che si avventura nei progetti del trans-umanesimo.
Abbiamo bisogno di essere richiamati a non distogliere lo sguardo, nella consapevolezza che qui è gioco sia la nostra umanità sia, per i credenti, la fede.
III. I volti della sofferenza
Il contributo fondamentale a mettere in rapporto la sofferenza e il volto, al singolare e al plurale, ci viene dall’intera esplorazione filosofica di Emmanuel Lévinas, in particolare da Totalità e Infinito (1961). Il centro della sua meditazione è nella formula da lui coniata a conclusione di questa sua prima grande opera: l’etica come filosofia prima. La filosofia occidentale dagli esordi fino ai nostri giorni avrebbe invece privilegiato l’ontologia, una dottrina dell’essere anonimo e totalizzante, cui corrisponde una presunta via di signoria del soggetto, che è la conoscenza. Ma la conoscenza non fa che confermare il dominio dell’essere e dell’immanenza, di affermazione del medesimo e di rifiuto dell’alterità.
Da questo dominio occorre uscire optando per la primarietà della relazione, quella che permette al medesimo di entrare in rapporto con l’altro senza ricondurlo in alcun modo a sé. Tra le alterità esplorate da Lévinas ci sono quella erotica tra uomo e donna e quella filiale tra padre e figlio; emerge tuttavia come nodale quella etica, tra il medesimo e l’altro: l’altrui irrompe traumaticamente nella nostra vita con il suo volto, non quello suadente dell’arte o della pubblicità, ma quello dimesso o spoglio dello straniero, dell’orfano e della vedova.
È un volto senza connotati estetici, persino senza tratti (il colore degli occhi) – un volto che si impone alla nostra responsabilità facendo risuonare il comandamento: «Non uccidere». Il volto è parola silenziosa che richiede come unica risposta possibile il profetico «Eccomi!».
L’altro mette in questione il mio possesso indisturbato del mondo. «Riconoscere altri significa dunque raggiungerlo attraverso il mondo delle cose possedute, ma, simultaneamente, instaurare con il dono, la comunità e l’universalità4». La parola, in particolare, fin dal semplice saluto, rende comune il mondo; il “discorso” che stabilisce la relazione però non è l’amore. A lungo Lévinas ha evitato accuratamente il lessico dell’amore, a suo giudizio troppo compromesso, e insistito su una radicale asimmetria tra l’io e l’altro, cui tutto è dovuto.
La trascendenza d’altri, che è la sua eminenza, la sua maestosità, la sua signoria, ingloba nel suo senso concreto la sua miseria, il suo sradicamento e il suo diritto di straniero. Sguardo dello straniero, della vedova e dell’orfano e che posso riconoscere solo donando o rifiutando, libero di donare o di rifiutare, ma cui è necessaria la mediazione delle cose. ⌈…⌉ Il rapporto del Medesimo con l’Altro, la mia accoglienza dell’altro è il fatto decisivo in cui vengono alla luce le cose non come ciò che si edifica ma come ciò che si dona5.
Il volto, così come è evocato da Lévinas, si sottrae a ciò che abitualmente chiamiamo visione e persino alla descrizione fenomenologica. Infatti le cose grazie alla vista sono in potere del Medesimo, invece «il volto è presente nel suo rifiuto di essere contenuto»6. Non si tratta di alterità relativa che rinvia ad una comunità di genere, l’appartenenza al genere umano, ma di un’alterità e unicità assolute. La relazione non porta dunque né al numero né al concetto ma all’esteriorità.
Di più. Nel volto d’altri − e questo spiega perché il suo sia un irrompere traumatico − si propone lo stesso Infinito. «L’idea di infinito, l’infinitamente di più contenuto nel meno, si produce concretamente sotto le specie di una relazione con il volto. E soltanto l’idea dell’infinito mantiene l’esteriorità dell’Altro rispetto al Medesimo, malgrado questo rapporto»8. Senza questo Infinito l’altro è come privato della sua consistenza. «Questo infinito, più forte dell’omicidio, ci resiste già nel suo volto, è il suo volto, è l’espressione originaria, è la prima parola: “non uccidere”»9.
Questo modo di intendere la relazione non è un’esperienza indicibile ma richiede un altro esercizio della ragione. «Nell’accoglienza del volto, la volontà si apre alla ragione»10 , e questa è al servizio della trascendenza dell’altro, che è la Gloria dell’Infinito.
Lévinas non ha approfondito, se non occasionalmente, la pista della sofferenza11. Ma non manca affatto, anzi è drammaticamente sullo sfondo di tutta la sua filosofia – Altrimenti che essere (1975) è dedicato alle vittime della Shoah. Totalità e Infinito da parte sua si apre con l’esigenza di trovare qualcosa che si opponga radicalmente alla guerra, che non è il dato primo dell’esistenza, come la filosofia politica moderna ha asserito da Thomas Hobbes in poi. Non si tratta di controllare la violenza – il bellum omnium contra omnes – ma di trovare un punto di partenza alternativo: e non può essere che il pacifico riconoscimento dell’altro. La politica sarà, perciò, un restringimento di questo dovergli tutto, a partire dalla considerazione di giustizia che include il diritto del terzo.
Nella ricerca del senso dell’etica, Lévinas solo raramente si è rivolto ad aspetti concreti e di competenza dell’etica cosiddetta applicata. Una estensione a questi ambiti è però possibile anche se a carico del suo lettore. Non c’è occasione in cui l’altro non appaia con il suo volto, direttamente o indirettamente: il volto, prima di tutto (o insieme ai diritti come si dice con un linguaggio più politico-giuridico che etico), dunque il senso dell’etica.
I volti della sofferenza può anche voler dire le sue tante facce o dimensioni: il dolore fisico, la sofferenza psichica, intima e relazionale, quella individuale o di gruppo, persino di popolo. Se il piacere è abbastanza monolitico e istantaneo, il dolore dura a lungo nel tempo e può risorgere a distanza. Le ferite di ogni tipo hanno bisogno di tempo e di parola (senso) per guarire e talvolta lasciano tracce indelebili. Tutto ciò si esprime sempre in un volto, anche quando questo per scelta o per costrizione è diventato impassibile. L’unicità esibita dal volto secondo Lévinas si trasmette anche a queste sofferenze, e alle sue lacrime, persino alle cose. Sunt lacrimae rerum (Eneide I, p. 462).
Il volto “appare” solo se non si volge altrove lo sguardo. Questo vale per ogni volto, in particolare per quello segnato o sfigurato dalla violenza: dell’abbandono, del rifiuto, della tortura, della violenza, della morte. Per vedere talvolta si corrono rischi anche letali. Di questo non distogliere lo sguardo abbiamo anche testimonianza singolari e inquietanti.
Nel commosso ricordo dedicato a Krzystof Miller (1962-2016), Domenico Quirico su «La Stampa» ripercorre la sua carriera di reporter in ogni angolo del mondo a documentare
IV. Cristologie filosofiche: Weil, Ricœur, Pareyson
Ai due rapidi schizzi storico e fenomenologico precedenti aggiungiamo ora una pagina che riprende molti temi finora evocati sotto un profilo che corrisponde a quella che Xavier Tilliette chiamava «cristologia filosofica». Essa consiste innanzitutto in una accurata raccolta di quanto i filosofi in epoca moderna da Baruch Spinoza in poi hanno detto (o non detto) di Gesù di Nazareth chiamato il Cristo. In questo caso la scelta è guidata anche dal fatto che i tre filosofi che richiameremo hanno portato una significativa attenzione al tema della sofferenza e a quello del male; la loro cristologia filosofica è un aspetto importante della loro riflessione al riguardo. In contrappunto a quanto Georg Büchner afferma in La morte di Danton (1835), in risposta alla domanda: «Perché soffro?»: «Questa è la roccia dell’ateismo».
IV. 1 «La suprema verità segreta della Croce del Cristo»13
Incominciamo con chi ci ha suggerito il titolo alla nostra ricerca. In ciò che scrive Simone Weil non c’è innanzitutto una riflessione bensì l’elaborazione della sua esperienza personale: tanto la sofferenza fisica dovuta ad una forte emicrania quanto l’impegno a solidarizzare con le molte situazioni di sventura che le è capitato di incontrare – in particolare la solidarietà con i lavoratori e i disoccupati. La forma estrema di questa esperienza impressiona sia per la sua radicalità sia per la stessa misura che può apparire eccessiva e che in qualche modo la porterà anche ad una morte precoce: quasi uno stoicismo estremo che rifugge da ogni consolazione o che dà alla morte un valore “sacramentale”.
Nella Lettera a un religioso, scritta durante il soggiorno americano in una fase avanzata della sua ricerca religiosa, afferma:
Sullo sfondo di un rinnovato platonismo, la cristologia filosofica di Weil – che in lei coincide con l’unica cristologia possibile – ha il perno nella Croce. C’è una corrispondenza con la teologia e lo spirito cristiano del tempo, che accentuava nella Pasqua la Passione e il Venerdì santo e relegava a una funzione quasi soltanto apologetica la Resurrezione. Ma non è certo questo il motivo determinante del suo sentire.
Per comprendere, è importante soffermarsi sulla descrizione che Weil fa del malheur, termine intraducibile e reso in italiano con sventura. Non bisogna assolutamente confondere malheur e sofferenza. Nel malheur l’uomo è denudato fino ad avere solo più l’istinto vitale. Un abbozzo dei Quaderni così fissa:
La sventura sembra non tollerare alcun riconoscimento; è più facile avvicinarsi ad essa nella forma della fredda e distaccata oggettivazione. La sventura fa voltare la testa, inaridisce la pietà e può trasformarsi in ostilità, come se si fosse in presenza di qualcosa che, sotto le spoglie umane, fosse invece inumano, e dunque da respingere.
Quali atteggiamenti sono allora possibili di fronte alla sventura? S. Weil, nel saggio L’amore di Dio e la sventura, fa dell’amore di Dio e per Dio l’unico possibile contrappeso alla sventura. Attesa, ascolto, attenzione, silenzio si fondono in queste attitudini amorose che dispongono a Dio. A dire il vero, l’amore è possibile non in ascesa, ma solo quando avviene la discesa di Dio che incendia con la sua presenza la disposizione all’amore.
Il silenzio è indispensabile, perché corrisponde all’incommensurabilità del malheur. «La sventura costringe a porre continuamente la domanda “perché?”, la domanda essenzialmente senza risposta. Così mediante essa si ode la non risposta. “Il silenzio essenziale ⌈…⌉”»16. Da questo silenzio può scaturire la contemplazione. «Contemplare la sventura altrui senza distogliere lo sguardo; non solo lo sguardo degli occhi; ma senza distoglierne lo sguardo dell’attenzione per mezzo della rivolta, o del sadismo, o di una qualsiasi consolazione interiore. Questo è bello. Perché significa contemplare il non-contemplabile. Esattamente come contemplare una cosa desiderabile senza accostarvisi. È arrestarsi»17.
In Portogallo, dopo l’estenuante esperienza del lavoro in fabbrica, tra i pescatori, nella percezione diretta del malheur inflitto ai diseredati, Simone Weil intravide la verità del cristianesimo come religione degli schiavi. Ciò che Nietzsche aveva bollato come infamia, per Weil diventa il titolo di onore e la via regia per entrare nella realtà cristiana. La schiavitù è lo stadio estremo del malheur e dunque avrà sempre qualche cosa a che fare con il cristianesimo e permette di arrestarsi dinanzi al Mistero della Croce e alla sua verità segreta. Stat crux dum volvitur orbis, come dice il motto certosino.
IV. 2 Ricœur e Pareyson: uno sguardo complessivo
I filosofi che nella seconda metà del Novecento hanno maggiormente indagato la questione del male sono, insieme a Hans Jonas (una “voce ebraica”), Paul Ricœur e Luigi Pareyson, di cui prenderemo in breve esame le cristologie filosofiche in rapporto alla domanda sul male e la sofferenza.
Per Ricœur il male impone un limite insuperabile alla riflessione filosofica; per proseguire deve passare attraverso l’interpretazione dei simboli e dei miti del male (e della redenzione), secondo l’indicazione: «il simbolo dà da pensare».
Dallo studio di questi simboli si può ricavare: la servitù della libertà (il servo arbitrio) rimanda alla positività del male (non è semplice mancanza d’essere), alla sua esteriorità (viene come dal di fuori, nell’artificio della seduzione), al suo potere di infezione (la libertà si lega da sé stessa con un processo di autodegradazione). Nondimeno la libertà serva resta arbitrio: il male, infatti «non potrà mai fare dell’uomo qualcosa di diverso dall’uomo»18. Anche i miti in qualche modo confermano questi assunti. Sullo questo sfondo della simbolica del male, Ricœur delinea un’antropologia, che al di là dell’accusa e della facile consolazione, coniughi attraverso la mediazione dei simboli l’innocenza del divenire e l’eticità dell’essere, l’obbedienza senza paura e il consenso poetico di là dalle proiezioni fantasmatiche del desiderio.
Quando Ricœur ritorna alla questione, questa appare declinata in altro modo, secondo un’inflessione pratica. C’è la distinzione netta tra male e sofferenza, l’abbandono definitivo di ogni soluzione speculativa, e il tentativo di una risposta che, oltre il pensiero, si allarga a quella dell’agire (etico) e del sentire. Come Giobbe,
Dal momento della comparsa tardiva del tema l’affronto di Pareyson è diretto (frontale), senza alcuna elusione, esclusivo (il male diventa la via per eccellenza), selettivo (ciò che nell’esperienza e nel pensiero non è caratterizzato dalla stessa radicalità non viene preso in considerazione).
Eccone la descrizione nel suo nucleo centrale:
Sul piano ontologico ne viene che «il male non è assenza di essere, privazione di bene, mancanza di realtà, ma è realtà, più precisamente realtà positiva nella sua negatività»21, la quale deriva da un atto positivo di negazione che è insieme ribellione e distruzione. «È una rivolta contro l’essere, una violazione della positività, un oltraggio al bene, una disobbedienza alla legge»22. Non potendo distruggere l’essere, il male distrugge l’essere in noi: è distruzione della libertà con un atto di libertà.
Per darne una ragione che sia tale, è indispensabile formulare un «discorso temerario»: l’origine del male, come di ogni altra cosa, è in Dio, ma il suo autore è l’uomo. L’unico linguaggio possibile è quello simbolico e ci consente di dire che il «male in Dio», da sempre vinto, resta come un’ombra, «come la zona immemoriale dell’abisso divino, lo strato più arcaico e profondo dell’antichità di Dio e il suo lato più recondito e oscuro»23. L’uomo in piena libertà ha ridestato questo male, scatenandone la potenza nella storia. Paradossalmente però, pur subendone la distruttività, l’uomo ha la capacità di negarne la presenza.
Un punto qualificante di questo impianto dialettico e paradossale è l’esame del legame indistruttibile tra male e sofferenza. «Alla solidarietà dell’uomo nella colpa corrisponde la solidarietà degli uomini nel dolore»24. Non è un tratto secondario. «Il male e il dolore, che sono quanto c’è più di incomprensibile e inaccettabile nella realtà, stanno addirittura al centro dell’universo e abitano nel cuore della realtà»25.
Senza questa prospettiva, il mondo e ciò che vi accade cadono nell’assurdità più completa. In questo modo Pareyson rovescia le tesi più comuni al proposito e giunge a stabilire un altro legame, quello tra Dio e la sofferenza. «Lungi dal poter essere accusato del male del mondo, è Dio che piange per il male del mondo, e certo ne soffre e ne piange assai più di quanto non ne pianga o ne soffra l’uomo, che pur ne è responsabile, e ch’è di per sé insufficiente a pareggiare la colpa e a colmarne la voragine. E forse il silenzio di Dio, ch’è così terribile per l’uomo gettato nel baratro della sua peccaminosità e della sua angoscia, non è di chi tace perché non c’è, o di chi tace perché abbandona, ma di chi tace perché piange, e tace appunto per piangere»26.
Si può ora cogliere la differenza comparando il piano complessivo di entrambi. Se per Ricœur il male come reale è al termine di un percorso di avvicinamento, per quanto percepito sin dall’inizio come incombente ma quasi fuori della giurisdizione filosofica in quanto inaccessibile alla riflessione, per Pareyson il male irrompe e si installa drammaticamente nel cuore dell’esistenza e dell’essere con la sua positività di nulla attivo, e dunque anche nel centro del pensiero.
In questa marcia di avvicinamento, per Ricœur il male, pur sovrastante, resta per così dire al margine, qualcosa di cui non si può dare ragione in alcun modo, presente ma “irrazionale”, fuori della pertinenza della ragione. Non se ne può dare alcuna fenomenologia né eziologia. In Ontologia della libertà il male, che non è solo privazione di essere, è indagato da Pareyson con la categoria di realtà: è qualcosa dotato di positività proprio nella sua negatività. L’avvicinamento non è fenomenologico ma direttamente ontologico, a partire dalla libertà intesa allo stesso tempo come inizio e scelta.
III. Male e sofferenza
Un aspetto chiave della questione è dato dal rapporto che il male intrattiene con la sofferenza. Ciò che Ricœur scioglie definitivamente nella fase avanzata del suo pensiero, Pareyson tiene inscindibile senza alcun cedimento; ciò che Ricœur cerca di evitare − una teologia tragica −, Pareyson adotta come la sola plausibile.
Ricœur parte dallo stretto collegamento di male e sofferenza. Perché per via lo lascia? Il male è e resta enigmatico perché collochiamo sotto lo stesso termine fenomeni disparati, di cui occorre esplicitare la disparità di principio: peccato, sofferenza, morte. Il male morale (peccato) va inteso come «ciò che rende l’azione umana oggetto d’imputazione, d’accusa e di biasimo»27. A questo terzo livello il male morale interferisce con la sofferenza, in quanto ogni punizione è una sofferenza inflitta.
Che cosa, nonostante la polarità oppositiva, invita a pensare il male come radice comune del peccato e della sofferenza? I due fenomeni sono inviluppati: da un lato, la punizione è una sofferenza fisica e morale aggiunta in più al male morale; dall’altro una delle cause principali di sofferenza è la violenza esercitata dall’uomo sull’uomo. Inoltre c’è il presentimento che peccato, sofferenza e morte esprimano la condizione umana nella sua unità profonda. Non mancano a questo proposito indizi a favore dell’unità in una strana esperienza di passività per la quale l’uomo si sente al tempo stesso vittima e colpevole. «Poiché la punizione è una sofferenza reputata meritata, chissà se ogni sofferenza non è, in un modo o nell’altro, la punizione di una colpa personale o collettiva, conosciuta o sconosciuta?»28.
Per Ricœur occorre sciogliere questo inviluppo. Innanzitutto praticamente. «Fare il male è fare soffrire gli altri. La violenza non smette di riconnettere male morale e sofferenza»29. L’azione, per quanto le è possibile, deve interrompere questo ciclo; se non lo fa, la violenza e la sofferenza continuano a restare in qualche modo giustificate.
Un secondo motivo riguarda la fede. Le ragioni del credere in Dio non hanno niente in comune con il bisogno di spiegare l’origine della sofferenza. Si crede in Dio, nonostante. ⌈…⌉ S’apre così il cammino solitario di chi rinuncia alla doglianza e, se è in grado, riconosce il valore educativo ed espiatorio della sofferenza nella forma della partecipazione all’abbassamento del Cristo sofferente. Solo così si rinuncia al pensiero della ricompensa, all’esigenza di essere risparmiati, al desiderio infantile di immortalità, fino ad amare Dio per nulla, in modo da uscire definitivamente dal ciclo della retribuzione.
Al contrario Pareyson, pur distinguendo male e sofferenza, li tiene saldamente congiunti così come si è sempre fatto, nella tragedia greca e nel pensiero biblico. Sono legati nel loro sorgere (il male causa la sofferenza) e nel loro dissolversi (la sofferenza redime il male). La sofferenza è conseguenza inevitabile dell’insorgere del male compiuto dall’uomo ma è anche la condizione per superare il male. L’unico antidoto al male è la sofferenza di Dio e dell’uomo. Questo è il lato «tragico» della realtà, tanto nel suo prodursi quanto nel suo risolversi. «Se il peccato trascina nella sofferenza anche gli innocenti, allora il dolore trascina nella sofferenza anche la divinità. … Lo scandalo della sofferenza degli innocenti diventa tollerabile solo sullo sfondo d’uno scandalo ben maggiore: l’estensione del dramma dell’uomo a Dio stesso, cioè la realtà di un Dio sofferente. Si capisce allora come tutti, i peccatori e gli innocenti, l’uomo e il mondo, l’umanità e la divinità, vengano implicati in un’unica – terribile e grandiosa – tragedia cosmoteandrica»30.
Per uscire dal male l’unica via possibile è la sofferenza, quella pienamente innocente (prima di Dio e poi dell’uomo), la sola forza in grado di espiare. «Dio assume in sé sia il peccato sia la sofferenza. … Dio assume il peccato commesso dall’uomo e soffre come innocente»31.
IV. La cristologia filosofica
Qual è la «cristologia filosofica» che ispira questi due percorsi?
Pareyson adotta un cristologia paolino-agostiniana con influssi pascaliani e kierkegaardiani e secondo una prospettiva amartiocentrica, come si dice nel dibattito teologico recente, il male ne è la chiave sistematica. La differenza rispetto a questa lunga tradizione teologica è di accento e di contesto. Per la tradizione il male era evidente e onnipresente; Pareyson prende atto di una sua sorprendente obliterazione e dell’avanzata sostitutiva del nichilismo. Il suo procedere è controcorrente, perché gran parte della filosofia recente ha dissolto la questione del male. Il quadro è dunque mutato; se l’impianto cristologico è in certo modo “classico”, nel nuovo contesto assume soprattutto un significato inattuale. Complessivamente la luce è un bagliore nelle tenebre, la salvezza è un’ancora nel male dilagante, la verità è resistenza al non senso; una luce esigua ma sufficiente, come in Pascal.
Ricœur da una posizione paolino-agostiniana, mai del tutto rigettata e tipica di Finitudine e colpa, con il tempo si avvicina a quella giovannea, che, abbandonando l’impianto sacrificale, fa del dono la chiave dell’esistenza e della realtà. L’aver adottato solo una teologia biblica come riferimento, con l’esclusione di ogni elemento speculativo e senza farne una esplicita elaborazione, fa sì che questa rilevazione non s’appoggi a una costruzione ben visibile ma solo a spunti sparsi qua e là, in alcuni accenni.
In questa prospettiva il male – le tenebre, la menzogna – non è assente, anzi, ma non gode più di una centralità ermeneutica e sistematica. Lo scandalo del male è percepibile solo alla luce del dono che lo sovrasta. In questa prospettiva viene ripresa e ribadita la logica paolina del «sovrappiù», che richiede di pensare a partire dal dono piuttosto che dal debito, dalla grazia piuttosto che dal peccato.
Queste due “cristologie filosofiche” orientano la corrispondente “teologia”: una teologia “tragica”, dialettica, per Pareyson, con un’istanza escatologica che egli non ebbe il tempo di portare a termine; più indefinibile quella di Ricœur, che cerca di concertare l’intera sinfonia biblica intorno all’eccedenza – il dono, l’amore – e nella prospettiva della riconciliazione. Entrambi ci consentono di continuare a pensare, senza evitare le questioni del male e della sofferenza, e ad aprire vie che possano accogliere la luce della rivelazione, ripensando i labirintici e paradossali rapporti tra sacrificio e dono.
Note
1 O. AIME, Il corpo sofferente. Il dolore, la sofferenza, la violenza, il male, in ATT 19 (2013); 1: 37-53. Cf. C. FRENI (a cura di), Il dolore degli altri, Aracne, Ariccia (RM) 2019, in particolare i saggi di David Le Breton e Giuseppe Martini
2 L. BOLTANSKI, Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica, Cortina, Milano 2000
3 Riprendo lo schema proposto da M. CHIODI, «Sofferenza», in Enciclopedia filosofica, v. XI, Bompiani, Milano 2006, 10809-10815. Cf. C. CIANCIO, «Sofferenza», in P.P. Portinaro, I concetti del male, Einaudi, Torino 2002, pp. 325-337
4 LÉVINAS, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità (1961), Jaca Book, Milano 1980, p. 74
5 Ibidem, pp. 74-75
6 Ibidem, p. 199
7 Ibidem, pp. 199-200
8 Ibidem, p. 201
9 Ibidem, p. 204
10 Ibidem, p. 224
11 La sofferenza inutile (1982), ora in E. LÉVINAS, Tra noi: saggi sul pensare all’altro, Jaca Book, Milano 2016
12 D. QUIRICO, Il fotografo che fissava il Male, ucciso da un veleno che si chiama dolore: quello degli altri, «La Stampa», 24 marzo 2019, p. 22
13 S. WEIL, Attesa di Dio, Adelphi, Milano 2008, p. 252
14 S. WEIL, Lettera a un religioso (1951), Adelphi, Milano 1996, pp. 56-57. Per un’indagine completa sarebbe necessario approfondire il concetto di decreazione (cf. S. Weil, Quaderni, III, Adelphi, Milano 1988, p. 164)
15 S. WEIL, Quaderni, II, Adelphi, Milano 1985, p. 145
16 S. WEIl, Quaderni,III, cit., p. 405
17 S. WEIL, Quaderni II, cit., 248
18 P. RICŒUR, Finitudine e colpa (1960),il Mulino, Bologna, 1970, p. 414
19 P. RICŒUR, Le scandale du mal, «Esprit», 140-141 (1988); 7.8: 63
20 L. PAREYSON, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1992, p. 167
21 Ibidem
22 Ibidem, p. 168
23 Ibidem, p. 179
24 Ibidem, p. 196
25 Ibidem, p. 207
26 Ibidem, p. 221
27 P. RICŒUR, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia (1986), Morcelliana, Brescia 1993, p. 11
28 Ibidem, pp. 14-15
29 Ibidem, p. 49
30 L. PAREYSON, Ontologia della libertà, cit., pp. 196-197
31 Ibidem, p. 222
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