Nobel per la Pace alla rivoluzione democratica araba Premio al Quartetto per il dialogo tunisino
09 Ottobre 2015In Tunisia c’è già chi scherza scaramantico «Speriamo che il Nobel per la Pace non ci porti sfortuna». Quando toccò al presidente Obama bastarono pochi mesi perché i critici si scatenassero contro la sua incertezza in politica estera dicendo che era stato un riconoscimento affrettato. E non andò meglio all’Unione Europea, premiata nel 2012 mentre già destre e separatismi gettavano ombre cupe sul patrimonio di benessere accumulato dopo la seconda guerra mondiale. Ma è una battuta, appunto. Perché oggi i tunisini piangono di commozione. Il Nobel per la Pace al quartetto per il dialogo nazionale seguito alla “rivoluzione dei gelsomini” significa infatti che il loro sforzo per andare avanti evitando la deriva del vicino Egitto paga, che puntare su quanto unisce più che su quanto divide è un investimento, che i tristi menagrami dell’inverno islamista come unica possibile soluzione alle primavere arabe del 2011 devono fare i conti con lo sforzo titanico della società civile tunisina.
Sembra un secolo fa quando il fruttivendolo di Mohammed Bouzazizi si dava fuoco a Sidi Bouzid per protestare contro la corruzione della polizia di Ben Ali innescando il domino delle proteste di piazza a Tunisi, Cairo, Bengasi, Sana’a, Manama, Daara e Damasco. Erano 5 anni fa, la sponda sud del Mediterraneo cresceva in termini di Pil ma s’impoveriva in termini di classe media, vale a dire che i dittatori producevano benessere per le proprie cerchie ristrette e i giovani laureati (nonché connessi alla Rete globale) non avevano altra chance che emigrare. Si ribellarono quei giovani, seguendo i pionieri tunisini. E oggi che tutto sembra cambiato in peggio, loro, i pionieri, riprendono la staffetta delle umane sorti e progressive.
Il Premio Nobel per la Pace al quartetto composto dal sindacato generale dei lavoratori Ugtt, il sindacato patronale Utica, l’Ordine degli avvocati e la Lega Tunisina per i Diritti Umani (riconosciuti in quanto «mediatori nel portare avanti il processo di sviluppo democratico tunisino»), è innanzitutto un invito a continuare così: nonostante la minaccia del terrorismo e gli attentati come quelli del museo del Bardo e di Susa, nonostante i 3000 giovani che sono andati a combattere al fianco dello Stato Islamico e gli altri che sfiduciati prendono il mare alla volta dell’Europa, nonostante l’economia ancora debole, nonostante la zavorra di una società intimamente conservatrice in cui il codice penale prevede la verifica “fisica” dell’omosessualità, nonostante la necessaria continua battaglia delle donne contro la resistenza all’emancipazione de facto. Continuate così, dicono i giurati di Oslo. Tunisini, continuate così.
Non è stato tutto in discesa il dopo Ben Ali (e a dire il vero continua ad arrancare parecchio). Anzi. Come in Egitto i primi ad avvantaggiarsi della nuova libertà furono i partiti islamici, Ennadha e salafiti in testa, e come in Egitto la società si divise radicalmente. Come in Egitto i partiti islamici, una volta al potere, iniziarono a muoversi come gli unici padroni di casa e non come gli eletti rappresentati di un popolo multicolore. E come in Egitto il clima si surriscaldò fino a far temere la guerra civile. Il 2013 fu un anno terribile, con i due omicidi politici dei leader dell’opposizione Belaid e Brahmi, i locali “occidentali” attaccati dai fondamentalisti, le ragazze “troppo emancipate” minacciate e aggredite, i giornali laici nel mirino dei folli di Dio. Nell’estate di due anni fa, mentre al Cairo si compiva la deposizione del presidente Morsi e la sanguinaria repressione dei Fratelli Musulmani, a Tunisi c’erano le barricate. Laici contro Ennadha, accusata di aver chiuso gli occhi sui fondamentalisti per avallare l’islamizzazione del paese. L’Egitto servì da monito, ammettono oggi da entrambe le parti. Ennadha fece un passo indietro e il governo si dimise. La Costituzione, modernissima, fu scritta da tutti (anziché come nell’Egitto di Morsi da un manipolo di religiosi). Il voto di un anno fa, l’ennesimo dopo Ben Ali, si risolse nell’elezione dell’anti Ennadha presidente Essebsi, una vittoria non apprezzata da tutti ma, come dovrebbe avvenire in democrazia, rispettata dai più.
Il Nobel non è la ciliegina sulla torta. La strada è lunga. Ma vuol dire forza Tunisia: forza alla società civile capace di vivere di attivismo sociale e culturale quando la politica è preclusa, forza ai giovani che nel 2011 hanno messo in discussione un sistema incancrenito e apparentemente indissolubile ma che devono ancora imparare parecchio per non essere divorati dai pescecani, forza alle donne e soprattutto forza alle magari poche ma lucide menti politiche che in tutti i partiti stanno dando oggi prova di lungimiranza strategica (medita Egitto, medita). Le cose che non funzionano sono tante, le abbiamo citate e ce ne sono ancora di più. La società è tutto fuorché riconciliata, chi sogna un paese che distingua dalla religione dalla politica guarda in cagnesco i coetanei con il Corano in mano. Ma nessuna rivoluzione si è mai compiuta in un giorno. E l’intero mondo arabo che si lamenta sempre dei pochi premi Nobel storicamente ricevuti dovrebbe riflettere su questo appena assegnato, frutto della richiesta di democrazia. Fanno bene i tunisini che oggi piangono di commozione.
Francesca Paci
Fonte: «La Stampa.it»
Approfondimenti: http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/2015/tndq-interview.html