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90 Luglio - Agosto 2022
Speciale Disabilità e bioetica Tra vecchie e nuove fragilità

“Nella debolezza la forza”, una riflessione teologica dal pensiero paolino Una riflessione teologica

Quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 12, 10)

Introduzione

Il tema della debolezza e della fragilità è largamente presente nelle lettere dell’apostolo Paolo come, d’altronde, è parte integrante dell’esistenza di ogni persona e famiglia. L’esperienza della malattia e della sofferenza che tutti accumuna, ci permette di entrare in contatto con le profondità del nostro essere grandiosamente limitato e, mentre sogniamo e desideriamo l’immenso, ci ritroviamo, sotto il segno della fragilità, dell’impotenza, sperimentato un po’ da tutti in quest’ultimi due anni di pandemia.

Credo non sia difficile, soprattutto per coloro che operano a vario titolo nel campo sociale, rilevare le difficoltà oggettive presenti nelle famiglie, nell’affrontare alcuni problemi sensibili legati a disagi relazionali, psicologici e culturali come, per fare solo due esempi, l’anoressia sia adolescenziale che adulta, così come la fatica di stare accanto agli anziani, specialmente se affetti da patologie come il Parkinson o l’Alzheimer.

La via, che in quest’ultimi 50anni la Bioetica ha inteso tracciare a vario titolo e con differenti approcci antropologici e/o credenti, ha elevato l’attenzione e la sensibilità nei confronti dei temi etici sensibili e problematici che intercettano la vita umana in tutte le sue stagioni. In questo tempo di grandi mutamenti socio-culturali, è opera meritoria della Bioetica aver attirato l’attenzione nel dibattito pubblico sui temi sensibili sulla vita umana.

E tuttavia, noi cristiani del XXI secolo, per la sensatezza della nostra fede, siamo chiamati a renderci finalmente conto, per dirla con papa Francesco che: «quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza»1. Ecco in quest’epoca di globalizzazione, fortemente plurale, con tutte le opportunità e le criticità che questo comporta, essere capaci di esprimere giudizi critici e operare scelte intelligentemente umane a beneficio di tutti, è realmente difficile, rischioso.

Nondimeno, gli esiti post-moderni o post-umani, pur reagendo al così designato pensiero forte, arenato sulle secche dell’antropocentrismo e dello scientismo, rischiano di consumarsi in un relativismo etico autoreferenziale tipicamente occidentale. Da qui un umanesimo in spasmodica ricerca dell’eterna giovinezza e latore di un benessere fondato sulla tecnocrazia2 quale paradigma di felicità, tende a rendere la persona da fine a mezzo, con il tentativo prometeico di ignorare la strutturale fragilità umana. La lettura cristiana di questo fenomeno, non del tutto nuovo nella storia, è lo smarrimento di ogni riferimento alla Trascendenza.

Da qui la perdita di vista del senso della stessa vita umana3. È forse anche questa una delle radici che informa stili di vita e di pensiero che riducono buona parte dell’umanità ad uno “scarto” sociale, economico, culturale e morale (papa Francesco) da cestinare negli agglomerati della miseria e della disperazione. In tal senso un pensiero bioetico che non alza lo sguardo “oltre” l’umano, fatica a riconoscere la verità di ogni singolo uomo, soprattutto dentro la sua creaturale finitezza e debolezza.

Con questo sguardo “oltre” ma dentro l’umano, inseriamo il nostro intervento avendo come testo biblico di riferimento un passaggio della 2 Cor al 12, v 10.

La categoria teologica debolezza come forza

Il paradosso “nella debolezza la forza”, è categoria teologica presente come sottotraccia nel pensiero paolino4, ma è elaborato particolarmente nelle Lettere ai Corinzi. A partire dalla sua esperienza personale di convertito a Gesù, e con tutto il bagaglio culturale-teologico che caratterizza la sua incancellabile radice ebraica (cfr Rom 10), Paolo comprende che per rimanere fedeli al Vangelo, è necessario passare il guado dei fallimenti, delle lotte e delle debolezze, della malattia. Insomma la fatica di assumere nella sconfitta la fragilità è, per Paolo, una sorta di pasqua esistenziale, quasi pedagogica, per esercitare al meglio il limite creaturale della propria umanità. Non si tratta tuttavia di un’elaborazione filosofica, ma di un continuo apprendistato discepolare per vivere i sentimenti profondi del Cristo e assumerne la postura credente (cfr. Fil 1).

D’altra parte la tradizione del Primo Testamento confluita in modo particolare nei testi profeti e sapienziali e frequentati dal fariseo Saulo5, offre già una chiave di lettura della condizione fragile e debole dell’uomo in cui si manifesta la potenza di Dio. La debolezza nella carne degli apostoli di Cristo, “vasi di creta”, è la via paradossale «perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (cfr. 2 Cor 4,7) solo così si diffonde il tesoro del Vangelo.

Paolo, tuttavia, non ignora la fragilità psicologica e spirituale che emerge anche e in modo sottile in un contesto religioso legato a norme e tradizioni che, una volta messi in discussione dall’annuncio evangelico, provocano turbamento, crisi di coscienza. L’apostolo lo rileva nella 1Corinzi riferendosi a coloro che deboli nella coscienza, sono angustiati dopo aver mangiato carni destinate al culto degli idoli (1 Corinzi 8,7). Nello stesso tempo, a chi, in qualche misura, ha superato le restrizioni della legge mosaica, chiede di essere attenti ai credenti che ancora non hanno acquisito quella sufficiente forza per camminare nella libertà della fede. Se in questo, come in casi simili, ci si rende conto che c’è il pericolo dello smarrimento della coscienza di un debole nella fede (cfr. Rom 14,1), allora è necessario accostarsi al fragile e mantenere il suo passo, sostenerlo pedagogicamente nel cammino delle fede: (cfr. 1Corinzi 8,11.13). In questi casi, tuttavia non si tratta soltanto di una delicata attenzione umana, ma di una motivazione teologica: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti» (1Cor 1,27).

Lo stesso Paolo in realtà si è presentato ai corinzi «nella debolezza e con molto timore e trepidazione» (1 Corinzi 2,3). Questi riferimenti necessitano certamente di una più puntuale contestualizzazione. Tuttavia l’esperienza della debolezza è conosciuta da tutti gli umani e in tal senso ben si presta all’annuncio paradossale del Vangelo, specialmente quando la malattia la segnala drammaticamente nel dolore fisico: «tra voi ci sono molti ammalati e infermi» (1 Corinzi 11,30).

La Croce, «debolezza di Dio» (1 Cor 1,25)

Entriamo un po’ più nel pensiero di Paolo per poi tirare qualche conclusione Il tema cristologico della salvezza mediante la croce di Cristo è al cuore della predicazione paolina (1,21) e da questa prospettiva, coniugando la debolezza (ἀsqέneia) e forza, affronta le divisioni presenti nella comunità a causa di chi ricorrendo alla sapienza del mondo, disprezza quelli deboli intellettualmente (1Cor 4, 7.18-21; 12,22-23). Pertanto «ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio (tὸ ἀsqenὲV toῦ qeoῦ) è più forte degli uomini». Dio in modo misterioso si pone dalla parte della debolezza e mediante questa mostra la sua forza e sapienza salvifica nella croce del Figlio: sapiente stoltezza: (cfr.1Cor 1, 23-24.30)6

La croce di Cristo, pazzia e maledizione (Gal 3,13-14; Dt 21,23), è in realtà il luogo della rivelazione di Dio e dunque il cuore della predicazione di Paolo (1Cor 2,2). Ora se Dio si rivela con una sapienza diversa da quella umana (1Cor 2,10-16), ne consegue che Egli è dalla parte dei deboli, dei disprezzati per confondere i forti, i sapienti e i nobili (1Cor 1,26-28). Se la forza di Dio è la debolezza del suo Gesù crocifisso, allora la comunità cristiana è chiamata a scegliere la debolezza dei poveri di fronte al mondo (1Cor 1,26-28). Allo stesso modo la predicazione apostolica è chiamata ad annunciare il Vangelo nella debolezza (1Cor 4,9-10; 9,15-27).

Nell’annuncio della croce di Cristo non si intende giustificare la violenza e l’ingiustizia del supplizio, né si tenta una risposta religiosa alla debolezza, piuttosto si predica l’esserci di Dio dall’interno di ogni fragilità umana, e dunque di ogni ingiustizia che rende amara la costitutiva debolezza dell’essere umano. Ponendosi dalla parte dei condannati e dei sofferenti, Dio in Gesù sceglie la debolezza estrema quella degli inferi: da lì, dall’abisso di ogni impotente dolore, Egli sovverte la sapienza e la potenza di questo mondo, offrendo un nuovo sguardo sulla realtà, non più dall’alto, ma dal basso. Ponendosi accanto agli sconfitti e ai deboli, il Dio di Gesù se ne prende cura, senza sostituirvisi, ma offrendo la sua presenza amica. Dio salva nella croce della debolezza e della sofferenza di ogni ingiustizia, non salva dalle croci, né le manda. La potenza di questo mondo con tutta la sua sapienza produce scartati e perpetua sofferenze inutili. La debolezza della “parola della croce” si fa presenza e solidarietà evangelizzando la sofferenza offrendo la forza della resistenza ad ogni male. La comunità dei credenti perciò condivide la stessa sorte del Crocifisso assumendo il suo folle stile di vita, si prende cura dei fragili e dei piccoli, sacramento al vivo dell’umanità del Signore. Da qui riparte la vita e si alimenta la speranza contro ogni morte: la persona “seminata” nella debolezza ma sostenuta dalla cura e dalla prossimità amicale, si apre alla germinazione della risurrezione, già in questa storia7.

Illuminata dalla «parola della croce» la debolezza è una condizione privilegiata: in una logica opposta a quella sapienza del mondo (1Cor 1,21-25; 2,6.13) questa scandalosa ma lieta notizia, proclama che il Dio di Gesù, in questa concreta storia umana ferita dai peccati dei figli di Adamo, ha scelto la fragilità per dispiegare il suo sogno di salvezza: la debolezza spiega la Sua forza amante che Paolo declinerà nel capitolo 13° di questa lettera: nell’inno all’amore. Nella debolezza del Dio di Gesù c’è tutta la potenza nascosta della Vita come nel mistero del chicco di grano marcito nel terreno che germina nell’abbondanza della spiga. (cfr Gv 12,24).

Veniamo dunque al nostro versetto in questione.

«Ti basta la mia grazia; la forza infatti si compie pienamente nella debolezza» (2 Cor 12,1-10)

La vera identità del discepolo del Signore non viene alla luce nelle esperienze mistiche, visioni e rivelazioni, quanto piuttosto nelle tribolazioni e nelle debolezze (2Cor 11,23-33): questa è la grazia – forza di Cristo (2Cor 12,1-10), che si rivela come potenza nella fragilità di chi l’accoglie («…δύναμις ἐν ἀσθενείᾳ τελεῖται», 2Cor 12, 9). La debolezza diviene così la condizione favorevole perché la grazia di Dio possa agire8. Ecco allora il paradosso: la grazia della debolezza, o la debolezza come stato di grazia, è vera forza (vv. 7-10)9.

Ci proviamo di fronte alla personale esperienza di Paolo: il suo presentarsi dimesso («ὁ λόγος ἐξουθενημένος», 2Cor 10,10), il suo essere profano nell’arte del parlare («ἰδιώτης τῷ λόγῳ», 2Cor 11,6), il suo abbassarsi («ἐμαυτὸν ταπεινῶν», 2Cor 11,7) lo qualifica semplicemente nella sua vera umanità, senza infingimenti, assumendo la sua fragilità in conformità a Cristo. Ha scritto Barbaglio: «In lui (Paolo) vengono a coesistere antinomicamente la potenza e la gloria divine, proprie dell’annunzio evangelico, e la debolezza e l’impotenza personali dell’annunciatore. Paolo ne è un esempio eloquente e provocatorio10.

L’ἀσθένεια a cui Paolo si riferisce è collegata ad una «spina nella carne» (2Cor 12,8), una ferita spirituale profonda, dolorosa e misteriosa che lo avvicina alla stessa debolezza del Crocifisso. Ma il Vangelo della croce è che questa debolezza fa esplodere la δύναμις dello Spirito di Dio che in Cristo è Risurrezione e dono di vita, e in Paolo è salvezza dalla superbia-orgoglio di vita che lo avrebbe spinto a essere anche lui come quei «superapostoli», desiderosi di onori e di occupare le poltrone dei primi posti (cfr. Mt 23,8-12; Mc 12,38-40) sconfessando così la via percorsa da Cristo (cfr. Mt 20,20-28): stare dalla parte degli sconfitti della storia.

Il Dio di Gesù si mostra non nell’effimera apparenza della forza, ma nella forza dell’impotenza, cioè nel far pace con il proprio limite, nel riconoscere la propria creaturalità con serena fortezza, senza lasciarsi andare. Questo permette di vivere con empatica compassione la relazione con gli altri. La fragilità assunta, pone la persona pacificata con se stessa in un atteggiamento di ascolto, di richiesta e di disponibilità alla compagnia e alla gentilezza, ad un un’apertura di cura generosa verso le persone sofferenti.

Al contrario, l’arrogante autosufficienza nel momento della forza della salute fisica (mito dei nostri giorni), e poi quella psicologica, economica, culturale può aprire il cuore alla superbia della vita, all’affermazione di sé fino a fagocitare gli altri. Questa dinamica, se non è smascherata, può condurre inconsapevolmente un po’ tutti noi a girarci dall’altra parte, a ignorare i vulnerabili, generando un mondo crudele, disumano. Pertanto, la dialettica debolezza-forza in Paolo, rileva De Virgilio: «non è posta a livello teorico, ma è sperimentata sia nella singola vicenda apostolica di Paolo che nella vita ecclesiale.

La caratteristica della comunità cristiana secondo Paolo è proprio quella di rifiutare una teologia priva di amore per i deboli e di conseguenza incapace di «edificare» la Chiesa di Dio nell’unità del corpo di Cristo. Al contrario, la comunità cristiana è tale solo quando accade il miracolo della reciprocità, dove le varie membra «abbiano cura» le une delle altre, superando la tentazione dell’élitarismo e la concezione di una Chiesa di perfetti, che si trasforma in setta (…) la prassi ecclesiale implica l’accoglienza incondizionata dei deboli, la loro legittimità nella comunione e nella collaborazione, l’accettazione della condizione della croce, la capacità di condividere le debolezze altrui, come è avvenuto per Gesù Cristo, al fine di edificare l’unità della Chiesa di Dio, corpo vivo in quanto invisibile di Cristo»11.

Brevi considerazioni conclusive

Forse questi tempi di pandemia hanno fatto riflettere un po’ di più della fragilità che tutti accumuna nella nostra costitutiva condizione umana. Il riconoscimento realistico del limite della concreta situazione di precarietà propria e altrui, dovrebbe guidare la coscienza singola e sociale ad accogliere la debolezza come opportunità di un comune discernimento culturale e spirituale per una crescita in umanità potentemente umanizzante.

Nel tempo di pandemia le persone, quelle con un minimo di intelligente compassione, sono state come sollecitate a far emergere il meglio di sé: la fragilità può mobilitare, ed è accaduto, relazioni di solidarietà inaspettata, può diventare occasione creatrice di legami amicali insperati, di sorprendenti prossimità che ha generato un’attitudine alla cura reciproca. Si tratta di quella fragilità-debolezza così come Paolo l’ha tematizzata nel suo orizzonte credente con quella umana dinamica di ammissione leale e di sano realismo: e cioè siamo dei bisognosi, non bastiamo a noi stessi. La fragilità e la debolezza anche quando si presenta nella forma drammatica della malattia e del dolore sia fisico che psichico o spirituale, è certo un problema e un dramma, ma può rivelarsi come vera possibilità creativa in base però al rapporto che si intende istituire con essa.

In realtà, dall’esperienza da cui un po’ tutti possiamo attingere, sappiamo che una volta riconosciuta ed accettata, la vulnerabilità – la debolezza, può diventare un formidabile volano per un agire etico responsabile e solidale. Oggi si parla molto di resilienza come capacità di affrontare e attraversare le situazioni critiche e dolorose dell’esistenza, comprese sconfitte e fallimenti. La fragilità-debolezza è certamente spazio antropologico in cui la resilienza può rivelarsi in tutta la sua forza creativa che permette una ripartenza della vita. La relazione debolezza-forza è di fatti parte integrante dell’esistenza che se accettata conduce la persona verso l’unificazione interiore. La debolezza in tutte le sue manifestazioni quali miserie, difetti, sofferenze, permette all’uomo, quasi in forma pedagogica, di avere la corretta misura di sé, accogliendosi nella finitezza del proprio essere, pacificandosi nella chiara consapevolezza di essere humus, fatto di terra, friabile.

Da qui, da questa posizione di umiltà si apre la possibilità di poter comprendere e compatire i limiti degli altri, con uno sguardo di empatica compassione che rende più sensibile la percezione dell’altrui fragilità. Riprendendo l’enciclica di papa Francesco, Fratelli tutti, possiamo affermare: siamo tutti fragili e deboli, perciò tutti fratelli e sorelle, allora tutti insieme possiamo costituire quella forza- l’opportunità creativa della solidale ripartenza, per risalire la china, per un’unanime e nuovo inizio. Da questa prospettiva la bioetica può acquisire una nuova chiave interpretativa per pensarsi in una prospettiva sempre più umanizzante.

Note

1 Udienza del Santo Padre alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 21.12.2019. Cfr. https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2019/12/21/1022/02087.html

2 cfr. FRANCESCO, Laudato Sì, 108

3  cfr. Gaudium et Spes, 7

4 Cfr G. DE VIRGILIO, «La debolezza (ἀsqέneia) come categoria teologica in 1-2 Corinzi», Rivista Biblica LVIII (2010), 67-99

5 Cfr A. COLACRAI, Forza dei deboli e debolezza dei potenti. La coppia “debole: forte” nel Corpus Paulinum, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2003

6 Cfr DE VIRGILIO, «La debolezza… », 71-72

7 Cfr. X. LĖON-DUFOUR, Di fronte alla morte. Gesù e Paolo, Elledici, Leumann (TO) 1982, 168-170

8 Cfr LORUSSO, La seconda lettera ai Corinzi. Introduzione, versione, commento, 242-243.279

9 Cfr BIANCALANI – ROSSI (edd.), Le lettere di San Paolo, 515; LORUSSO, La seconda lettera ai Corinzi, 289-290

10 G. BARBAGLIO, Le lettere di Paolo, Roma, Edizioni Borla 19902, 633

11 G. DE VIRGILIO,  «La debolezza (ἀsqέneia)..», Rivista Biblica 58 (2010), 82

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