Dr. Piero Bottino
Noi siamo una storia. L’unico modo che abbiamo per vivere con gli altri, e spesso anche con noi stessi, è raccontarci. Raccontiamo le nostre vicissitudini familiari al vicino di casa, all’amico, al collega o al medico e attraverso questi racconti ci costruiamo un’identità. Ci raccontiamo, insomma (non solo con le parole ma anche con i gesti, i vestiti, il tono della voce) come vorremmo che gli altri ci vedessero.
Allo stesso tempo le altre persone, attraverso i nostri racconti, costruiscono di noi un’immagine non necessariamente corrispondente a quella da noi desiderata. Questo intreccio di narrazioni forma tutte quelle relazioni sociali, affettive e culturali a cui nessuno può sottrarsi. L’identità è quindi costruita giorno per giorno, raccontandosi.
Le narrazioni, però, possono essere molto diverse a seconda del contesto in cui avvengono. Ad esempio, parlando di un problema di salute si usano termini e toni diversi con gli amici, i propri cari o il medico di famiglia. Lo stesso evento è raccontato, quindi descritto, in modi che crediamo più consoni al momento ed alla situazione specifica.
Dentro le narrazioni, che coinvolgono tutta la vita di una persona, si inseriscono talvolta avvenimenti importanti, che modificano il quotidiano e che quindi diventano “master stories”, storie dominanti. Una malattia, cronica o acuta, disabilitante, può costituire proprio uno di questi avvenimenti, una svolta determinante non solo nella vita del paziente (che diventa tale, non più persona, dopo la diagnosi, almeno nella narrazione dei medici) ma anche della sua famiglia e del suo sistema relazionale.
La medicina narrativa (Narrative Based Medicine) riscopre questa dimensione personale e sistemica della malattia, utilizzando le narrazioni delle persone per costruire percorsi di cura e di diagnosi “insieme” al paziente, riscoprendone l’identità di persona unica ed inserita in un sistema famigliare e sociale di cui non si può non tenere conto.
La malattia è, infatti, un fenomeno complesso, non solo biologico, che coinvolge aspetti emotivi, relazionali, progettuali. Il passaggio dal modello biologico a quello bio-psico- sociale (Engel 1977) è stato una tappa fondamentale per il ritorno ad una visione complessiva della persona con patologia, che il tecnicismo della medicina moderna aveva progressivamente smarrito.
Per la riscoperta della complessità che un evento patologico determina nella storia di una vita, l’utilizzo della narrazione e delle capacità relazionali diventa fondamentale. Solo imparando a costruire relazioni corrette, adeguate, rispettose e utili si può tentare di avvicinare due mondi, quello del medico e quello del paziente, spesso lontani e non comunicanti.
La medicina narrativa è innanzitutto, come dice Giorgio Bert «un atteggiamento mentale del medico»1 che sceglie in modo professionale di dare spazio, nella sua pratica quotidiana, alla relazione con l’altro (paziente o parente), accogliendone la narrazione ed usandola per mettere in atto una buona relazione, funzionale al processo di cura. Ciò vale ovviamente per tutti gli operatori della sanità o del sociale ed è applicabile ad ogni contesto professionale o di vita quotidiana. Trisha Greenhalgh e Brian Hurwitz nel 1998 e Rita Charon nel 2006 definiscono “Medicina narrativa” l’uso delle storie dei pazienti nei processi di cura.
Da anni la medicina ha smarrito la consapevolezza che nelle storie delle persone malate l’incontro con il mondo medico è spesso un evento faticoso e difficile “di per sé”, fonte di ansie e paure, che una buona relazione potrebbe rendere invece più accettabile e, a volte, già curativo.
Nel colloquio tra un medico ed un paziente si incontrano (o si scontrano) due mondi e due culture diverse, che usano linguaggi diversi e poco comprensibili all’uno e all’altro. Ciò che il sanitario vede come sintomi o risultati di laboratorio per il paziente rappresentano difficoltà quotidiane di vita, di relazione, di progetti per il futuro.
Il paziente racconta la sua storia… il medico pensa quale sia in realtà la vera storia… il paziente pensa a cosa il medico sta pensando di lui…
È importante allora che l’operatore sia “competente” nel costruire una buona relazione, finalizzata alla migliore cura possibile per quel paziente, in quel contesto ed in quel sistema famigliare e sociale
Il paziente ed i suoi familiari arrivano spesso dal sanitario con un bagaglio di conoscenze già acquisite nei modi più diversi (internet, altri parenti, riviste, TV ecc.). Non tenere conto di questo, non accogliendo i dubbi, le domande e le richieste, magari “insensate” per il professionista ma cariche di senso per la persona malata, porta frequentemente a fraintendimenti, scontri, insuccessi terapeutici. È importante allora che l’operatore sia “competente” nel costruire una buona relazione, finalizzata alla migliore cura possibile per quel paziente, in quel contesto ed in quel sistema famigliare e sociale.
Le competenze relazionali richiedono una formazione specifica, che nasce innanzitutto dall’acquisizione di una profonda consapevolezza di ciò che le parole possono far succedere nell’altro. Ritengo che questa consapevolezza sia oggi carente in chi si occupa delle professioni di cura. È stato calcolato che un medico compia, in una normale vita di lavoro, circa 200.000 colloqui, a vario titolo. Ciò che per lui è, quindi, un attimo in una giornata frenetica può essere per quel paziente o per quella famiglia il momento più importante di tutta una vita.
Essere consapevoli di come una buona comunicazione possa aiutare i processi di cura, ad esempio con una migliore aderenza alle terapie proposte, o possa preparare magari una dimissione con minore ansia o paura, è il primo passo per una buona medicina. Questa consapevolezza si costruisce trovando spazio, nei percorsi formativi personali o accademici, per la formazione nelle abilità di counselling, quelle pratiche, cioè, che consentono di mettere in atto buone pratiche relazionali.
Per parlare di Narrative Based Medicine occorre quindi, come già detto, parlare di relazione. La relazione tra due persone, medico e paziente, è fatta di ascolto, curiosità per il mondo dell’altro, emozioni. Può provocare reazioni diverse: disponibilità, simpatia, compassione, irritazione, antipatia, giudizi morali. Queste reazioni sono sempre bidirezionali. Tutto ciò è inevitabile e solo con la fuga, atteggiamento spesso protettivo e non voluto ma messo in atto, ci si può proteggere se non si è in grado di gestire “quello che succede” tra i due attori del colloquio.
La gestione delle emozioni è un’importantissima capacità che ogni sanitario dovrebbe poter affrontare. I contesti di malattia sono fortemente emozionali. Comunicare una diagnosi infausta o una disabilità che cambia di colpo la vita di una persona non è facile e non può essere demandata ad altre figure professionali. Solo con una adeguata formazione si può riuscire a “stare” in questi contesti, stabilendo con l’altro una relazione “buona abbastanza” da permettere di mantenere un colloquio, uno scambio costruttivo, non violento e, a volte, anche benefico.
La relazione è una danza, in cui i due protagonisti si avvicinano ed allontanano a seconda dei momenti. Il professionista ha il dovere di condurre il colloquio, egli si trova infatti in una posizione di superiorità professionale. Il paziente chiede a lui risposte precise e consone al suo ruolo. Tuttavia la posizione di superiorità “up” non deve essere “schiacciante” per l’altro, che rimane una persona da accogliere ed ascoltare. La relazione deve mantenere i caratteri della reciprocità, in cui due persone, appunto, con ruoli e conoscenze diverse, condividono il loro sapere.
Ogni colloquio entra anche nella storia personale del medico e la modifica, che egli voglia o no. L’utilizzo delle narrazioni aiuta a definire importanti criteri relazionali:
TEMPORALITÀ. C’è una temporalità della medicina e una del paziente
SINGOLARITÀ. C’è una singolarità e unicità del paziente perché quella malattia è la sua e c’è una singolarità del curante
CAUSALITÀ. Sia il paziente che il curante creano nessi causali e danno senso agli avvenimenti
INTERSOGGETTIVITÀ. Il paziente racconta la sua storia per il curante. Il curante per il paziente
ETICA. Come queste storie si rapportano le une alle altre? Come regola il medico l’accesso al mondo dell’altro che gli racconta la propria storia? In un rapporto diseguale un comportamento etico è permettere alla storia dell’altro di diventare visibile. Violenza consiste nel negare la storia dell’altro2
Questi criteri sono alla base di una relazione buona abbastanza per diventare a volte, essa stessa, momento di cura.
Nel mondo riabilitativo in cui opero, l’utilizzo delle narrazioni permette spesso di progettare percorsi di riabilitazione congrui con le aspettative e le reali potenzialità dei pazienti e dei caregiver. Il racconto della quotidianità precedente l’evento patologico consente di “vedere” il mondo dell’altro e di aiutare le persone a progettare un futuro, magari molto diverso, ma comunque accettabile e gestibile. Affrontare la vita su una sedia a rotelle, perdere il proprio ruolo attivo in una famiglia non può essere minimizzato o non considerato nel progettare un rientro a casa.
L’ uso professionale delle narrazioni permette quindi di avvicinare il mondo medico alla vita delle persone, creando quella alleanza necessaria, eticamente corretta ed umanamente indispensabile. La narrazione è, inoltre, un importante e potente mezzo personale di auto conoscenza. Lo scrivere di sé, delle proprie emozioni, può aiutare il professionista a gestire momenti difficili o faticosi. La scrittura richiede riflessione, distacco ed aiuta a rivedersi e ripensarsi.
«Nello scrivere il medico costruisce e ricostruisce se stesso in quanto persona, cioè di fatto personaggio di molteplici storie che coinvolgono altri: i pazienti innanzi tutto»3.
Anche per il paziente la narrazione è un potente strumento che permette la “esternalizzazione”, quel processo cioè che aiuta il paziente a vivere la malattia al di fuori di sé, non facendo coincidere la sua persona con la malattia. Scrive Lucia Zannini: «[…] la narrazione della malattia rappresenta la strategia fondamentale per individuarne il significato»4.
Ritengo che l’introduzione nei percorsi formativi degli operatori sanitari delle “medical humanities”, cioè di quelle conoscenze che permettono di avvicinarsi nel proprio lavoro all’umanità delle persone (conoscenze filosofiche, letterarie, abilità comunicative, etc…) debba diventare essenziale per rendere più empatico ed eticamente accettabile l’agire del medico.
Se si imparasse a vedere l’altro, ad accogliere ed usare in modo professionale e costruttivo la sua storia per progettare percorsi di cura, si potrebbe coniugare la “Evidence Based Medicine”, utilissima per mettere in atto le migliori strategie sanitarie, con la singolarità di ogni persona. Si potrebbe allora superare la necessità di cercare percorsi di umanizzazione della medicina, quando la pratica medica stessa, interagendo per sua natura con le persone umane, dovrebbe essere totalmente e pienamente umanizzata.
La tecnica per l’uomo e non viceversa, non un tecnicismo che vede la patologia e non la persona, che rimane tale in ogni momento di vita. Questo potrebbe essere un risultato che la medicina narrativa può contribuire a raggiungere.
Bibliografia
1 BERT G., Medicina narrativa. Storie e parole nella relazione di cura, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2007, pp. 304
2 ZANNINI L., Medical humanities e medicina narrativa: nuove prospettive nella formazione dei professionisti della cura, Raffaello Cortina, Milano 2008, pp. 280
3 BERT G., op. cit.
4 ZANNINI L., op. cit.
BERT G. e QUADRINO S., Parole di medici, parole di pazienti. Counselling e narrativa in medicina, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2002, pp. 224
LARGHERO E., LOMBARDI RICCI M. (edd.), Bioetica e medicina narrativa. Nuove prospettive di cura, Edizioni Camilliane, Torino 2012, pp. 270
LARGHERO E., LOMBARDI RICCI M.- MARCHESI R. (edd.), Medical Humanities e Bioetica clinica, Edizioni Camilliane, Torino 2010, pp.325
© Bioetica News Torino, Settembre 2013 - Riproduzione Vietata