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Medicina di genere e Covid -19 In aggiornamento del Ministero della Salute

05 Ottobre 2021



È stato aggiornato lo studio coordinato dal Ministero della Salute e condotto dagli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) sulla relazione tra l’infezione da Covid-19 e la differenza di genere per poter realizzare percorsi diagnostici e terapeutici personalizzati, alla luce delle evidenze scientifiche più recenti in letteratura, consapevoli di un lavoro che è in itinere durante la pandemia.

Nella medicina di genere, un settore d’avanguardia della scienza medica attuale che mira alla ricerca di trattamenti sempre più appropriati alla persona mettendo al centro il paziente e una cura possibilmente su misura, le diversità sono valutate non solo negli aspetti biologici e riproduttivi ma anche in quelli ambientali, socioculturali e relazionali che possono influenzare lo stato di salute.

Il nuovo documento aggiorna e amplia la conoscenza dei dati e delle analisi pubblicate un anno fa all’inizio dell’emergenza pandemica in Italia per comprendere la risposta di reazione all’infezione virale da Covid-19 e come curarla; è articolato in due sezioni dedicate al genere una in riferimento al rapporto alla patologia da Covid-19 per gli aspetti epidemiologici, biologici, terapeutici e di prognosi e l’altra al Covid-19 e alle diverse patologie cardiovascolari, endocrinologiche, immunologiche, neurologiche, oncologiche e polmonari in condizioni di fragilità e comorbidità, fino ad aprile 2021 e si conclude con una serie di problematiche che rimangono ancora da chiarire, quali spunti di approfondimento per gli studi. Descriviamo alcune osservazioni tratte da questo lavoro di ricerca.

Il “long Covid”, o sintomi dopo Covid

Il “long Covid” è una malattia che si manifesta con sintomi e durata diversi che può comparire dopo che si è guariti dal Covid-19 in fase acuta. Tra i sintomi più comuni individuati sono affaticamento, ansia, dolori articolari, cefalea, depressione, caduta di capelli e si presentano più frequentemente nelle femmine rispetto ai maschi. C’è anche il rischio che la malattia si cronicizzi.

Da una rivisitazione degli studi la riabilitazione personalizzata può essere efficace ma non per chi, dopo la malattia, riporta gravi danni polmonari o cardiaci o è affetto da sindrome da tachicardia ortostatica posturale o encefalomielite mialgica o da fatica cronica.

Si è osservato un aumento dei disturbi mentali in particolar modo nei giovani, nelle donne e nelle persone che si trovano in condizioni più disagiate, che rischiano di condizionare la qualità di vita personale e sociale.

Farmaci tra terapia e prevenzione

Oltre alla terapia standard con corticosteroidi e l’eparina a basso peso molecolare nelle pazienti con infezione respiratoria acuta e ridotta mobilità non vi sono finora nuovi farmaci efficaci per la cura del Covid-19 che sono utilizzati in via sperimentale. Da uno studio dell’Oms randomizzato Public Health Emergency-Solidarity Trial emerge Remdesivir, Clorochina/idrossiclorochina, Lopinavir, somministrato con Ritonavir e l’interferone β1a, «hanno un effetto scarso o nullo sulla riduzione dei sintomi in/nelle pazienti ospedalizzati/e. Lo studio, tuttavia, non riporta risultati disaggregati per sesso».

Per inibire la risposta immunitaria vengono usati farmaci anti-infiammatori come gli anticorpi monoclonali, il Tocilizumab è il più usato, nelle sperimentazioni cliniche. Uno studio randomizzato e a doppio cieco e controllato con placebo, dove mancano i riscontri sul genere, mostra come pazienti ricoverati femmine e maschi con Covid-19 di grado medio con questo farmaco non si riesce a prevenire né l’intubazione né la morte. L’Agenzia europea dei medicinali Ema ha autorizzato questi farmaci in monoterapia o associati per le persone affette da Covid-19 con sintomi lievi o moderati. Invece, con l’utilizzo combinato fra gli anticorpi monoclonali si è riscontrata una riduzione della sintomatologia, dei ricoveri e dei decessi ma non vi è finora nota l’incidenza della variabile sesso.

Si è invece visto che l’uso delle terapie con il plasma da convalescenti, ottenuto dai pazienti guariti da Covid-19, usato agli inizi si è rivelato inefficace rispetto al placebo e alle terapie standard. Evidenze più recenti mostrano tuttavia che questa trasfusione può essere efficace se trasfuso nelle prime fasi del decorso della malattia. Anche qui non vi è dato sapere sulle differenze di sesso.

Studi successivi potrebbero includere anche la fascia adolescenziale e le donne in gravidanza e post partum e tenere conto delle nuove varianti.

Nel capitolo che tratta la prevenzione, i dati sono aggiornati a giugno 2021, mostra come dal V rapporto Aifa sulla farmacovigilanza covid-19 al 16 giugno 2021 vi siano più donne (272) rispetto agli uomini (116) ogni 100 mila somministrazioni di vaccino che hanno segnalato eventi avversi. Al 12 giugno 2021 dai dati pubblicati da Eudravigilance le reazioni avverse sospette riportano le differenze per sesso, femminile e maschile: il vaccino BNT162b2-55 BioNTech/Pfizer nel 74.5% (femminile) e 23.9% (maschile); per il vaccino mRNA-1273-Moderna nel 70.9% e 28.4%; per il vaccino AZD1222(ChAdOx1-S)-Oxford/AstraZeneca nel 72.5% e 25.0% e per il vaccino Ad26-COV2.S-Johnson&Johnson/Janssen nel 68.2% e 30.1%, rispettivamente per femmine e maschi.

Poi l’Aifa, dopo segnalazioni ed eventi mortali a causa di trombosi del seno venoso cerebrale con trombocitopenia, con Astrazeneca e Janssen, occorsi per la maggior parte da donne, ha slittato la fascia di età dai sessanta in poi e la possibilità di effettuare la seconda dose vaccinale con un altro tipo di vaccino.

La parte femminile è coinvolta maggiormente nelle reazioni allergiche secondo i dati riportati dal Vaccine Adverse Event Reporting System statunitense. Hanno riportato reazioni anafilattiche con il BioNTech/Pfizer Bnt62b2 e Moderna mRNA 1273 rispettivamente con il 90% e il 100% di casi femminili. E anche dopo la vaccinazione la popolazione femminile è stata quella più colpita mostrando maggiori segnalazioni di eventi avversi di anafilassi dopo la vaccinazione (92% delle segnalazioni).

Per mancanza di dati si propone una verifica sull’uso in gravidanza dei vaccini Covid-19 e una valutazione per l’uso concomitante della pillola anticoncezionale, di terapie ormonali sostitutive e anti-estrogeniche in corso di vaccinazione anche in relazione agli eventi avversi in particolare le trombosi.

Gestione dell’infanzia affetta da Covid-19

Non vi sono raccomandazioni specifiche dell’Oms fino a quando non si avranno i risultati degli studi in corso. In via di sperimentazione nei pazienti pediatrici è il remdesivir già in fase di sperimentazione negli adulti. Poi per altri farmaci vi sono alcuni immunomodulatori i cui dati finora rimangono scarsi.

Durante il lockdown forzato alcuni ricercatori pediatrici hanno rilevato «un aumento significativo dei casi di pubertà precoce in ragazze durante il primo periodo di pandemia COVID-19 rispetto agli anni precedenti » attribuendolo alla mancanza di attività sportiva e alla chiusura delle scuole che ha comportato cambiamenti nella vita quotidiana. Invece nelle donne in gravidanza e post partum uno studio olandese ha messo in luce maggiore stress.

Il documento fa notare la necessità di un monitoraggio degli esiti sulle donne in gravidanza affette da Sars-Cov -2 durante e dopo il parto, una maggiore valutazione dei rischi associati alla gravidanza, nonché una stima della gravità dell’infezione nei bambini, proponendo studi approfonditi. In Italia le sperimentazioni cliniche non sono aperte alle donne in gravidanza.

Professionisti sanitari

Depressione, stress psicologico, scarsa qualità del sonno, burnout sono i sintomi più comuni riversati sul personale sanitario impegnato nella pandemia da Covid-19, argomento su cui vi sono e continuano numerosi studi. Non tutti però hanno considerato le differenze di genere.

Quanto incide il Covid-19 sulla figura femminile? Si citano alcuni studi in cui emerge una maggiore vulnerabilità e maggiore rischio di sviluppare con l’esposizione stress, ansia e depressione nell’operatrice sanitaria. In uno su un personale di 1257 composto per più della metà, il 76,7%, da donne, il maggior rischio di sviluppare stress psicologico è nella figura femminile.

Si descrive inoltre che il disagio psicologico si può manifestarsi come burn-out, una stanchezza emotiva, depersonalizzazione e bassa realizzazione di se in risposta a situazione stressanti nell’attività lavorativa. Essa si associa a scarsa qualità di cure, di errori sul lavoro etc. La preoccupazione su come utilizzare i dpi e nel porre attenzione alle misure di controllo può concorrere all’insorgenza dell’ansia nel personale ospedaliero, in particolare modo le donne.

Si consiglia negli ospedali di fornire un supporto psicologico e avviare programmi basati sull’addestramento di strategie e coping per influire sui livelli di ansia. Dai dati Inail sugli infortuni sul lavoro il 70% dei contagi professionali riguardavano donne mentre nell’altro sesso era prevalente la mortalità.

Un contributo potrebbe venire dalla telemedicina nel limitare il rischio di esposizione alle infezioni, suggeriscono gli autori del documento.

Obesità e diabete

Il diabete mellito aumenta il rischio di ammalarsi di Covid-19 e di mortalità. In uno studio italiano riportato in Epicentro il diabete mellito di tipo 2 rappresenta la seconda comorbidità negli uomini (30,9%) e terza nelle donne (27,3%).

Sembra possa esserci un miglioramento sulla prognosi di Covid-19 con alcune terapie antidiabetiche. La metformina con le sue proprietà antiinfiammatorie può impedire l’ingresso virale nelle cellule riducendo la mortalità per Covid, in particolar modo nelle donne. All’aumentare del grasso viscerale si accompagna un peggioramento della prognosi. In Italia la presenza di obesità è «pressoché sovrapponibile nelle donne (11,1%) e negli uomini (11,3%) deceduti per Sars-CoV-2.

L’obesità e una salute metabolica compromessa, dislipidemia, insulinoresistenza e iperglicemia, sono caratterizzate da uno stato di infiammazione cronica e di stress ossidativo che altera le risposte immunitarie innate e adattive indebolendo le difese dell’organismo nei confronti dell’infezione da SarsCoV-2.

Una revisione della letteratura riporta nell’analisi di alcuni studi casi di tiroidite subacuta durante o dopo l’infezione da Sars-CoV-2; si tratta soprattutto di donne.

Pare che la carenza di vitamina D e valori più bassi di questa vitamina possa aumentare il rischio di contagio al Covid-19 come dimostrano alcuni studi in pazienti ospedalizzati affetti da Covid-19 rispetto a quelli ospedalizzati non contagiati. Viene anche mostrata l’associazione tra ipovitaminosi D e rischio d insufficienza respiratoria. Tuttavia rimane ancor oggi da confermare la casualità nella relazione tra covid-19 e bassi livelli di vitamina D riscontrabile nelle persone anziane o in presenza di comorbidità come l’obesità.

CCBYSA

redazione Bioetica News Torino