«Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro: …
Di curare ogni paziente con scrupolo e impegno, senza discriminazione alcuna …
Di prestare soccorso nei casi d’urgenza e di mettermi a disposizione dell’Autorità competente, in caso di pubblica calamità».
(Giuramento di Ippocrate)
Questi sono due degli impegni che il medico prende all’inizio della sua professione, sono parte del Giuramento di Ippocrate, riscritto per il nostro tempo, che da anni viene consegnato ai medici neolaureati in una ricorrenza pubblica.
In un momento così drammatico tutti noi abbiamo toccato con mano quanto siano vere queste parole, quanto questo impegno sia connaturale alla professione e alla persona del medico e di ogni operatore sanitario. È di qualche giorno fa la notizia che, alla richiesta della Protezione civile per dare supporto, aiuto e collaborazione professionale ai medici e infermieri nelle zone d’Italia dove c’è il maggior numero di contagi e morti per Corona virus, hanno risposto in 7.220 medici e 9.448 infermieri.
In questi giorni scorrono nei notiziari televisivi e vengono pubblicate dai giornali una miriade di immagini di ospedali, rianimazioni, ambulanze, operatori sanitari al lavoro; alcune di queste sono ormai parte del nostro immaginario collettivo. Possiamo dire che mai come ora conosciamo le strutture ospedaliere nella loro parte più intima e riservata, inaccessibile al pubblico.
Questo momento drammatico sta chiedendo agli operatori sanitari in attività, un grande impegno di energie fisiche e morali. Quante volte si è scritto nei testi di etica medica e di bioetica che il nostro lavoro è “cura e prendersi cura”; bene, questi giorni sono la prova di quanta professionalità, tenacia e dimensione relazionale siano capaci i medici e tutti gli operatori sanitari.
Monsignor Delpini Arcivescovo di Milano nella Lettera ad un medico così scrive:
Spesso raccolgo dai giovani che scelgono di studiare medicina una confidenza: «Desidero essere medico per curare i malati, lo sento come la mia vocazione». Nell’idealismo giovanile rimane l’intuizione che la scelta di una professione non è finalizzata solo alla garanzia di un posto di lavoro, alla promessa di un prestigio sociale, alle prospettive di una carriera redditizia.
L’intenzione originaria è quella di una solidarietà con chi soffre che non è solo prossimità ma competenza che cura e guarisce, scienza che offre speranza.
Diventare medici per “vocazione” significa percepire che c’è qualcuno che chiama, che chiede aiuto, che invoca soccorso: si tratta del malato.
“Vocazione”, una parola oggi pronunciata con reale imbarazzo quando ci chiedono perché abbiamo scelto una professione sanitaria. Eppure per la medicina odierna, così tecnologica, apparentemente fredda e povera di rapporto nei confronti del malato, questa parola oltre ad avere un significativo impatto emozionale apre ad una dimensione relazionale. Le testimonianze degli operatori dedicati alla terapia del Covid 19 ne sono una prova; nelle varie interviste si coglie costantemente l’impegno a non far venire meno il calore umano anche in quegli ambienti che potrebbero prestarsi a negarlo per l’indispensabile tecnologia di cui sono costituiti. L’alleanza tra medico e malato non cessa mai di esistere; in tutte le situazioni dove la medicina non può più arrivare per una guarigione, si fa presente la relazione che accompagna e sostiene gli ultimi tratti di strada di questi malati.
Il Santo Padre venerdì 27 marzo nella sua meditazione sul sagrato di San Pietro ci ha ricordato che: «nessuno si salva da solo» e come esempio ha mostrato «persone comuni − solitamente dimenticate −che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo».
Davanti alla sofferenza di questi giorni risuonano come imperativo etico ineludibile le parole di Gesù: «Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25,36).
Grazie a voi operatori sanitari! e «a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita» (Papa Francesco, 27 marzo 2020).
© Bioetica News Torino, Aprile 2020 - Riproduzione Vietata