Una testimonianza: Riflessioni sul«dramma del vivere» nella fragilità
Prima parte
Sono onorato e commosso di poter essere oggi qui a parlare di un argomento che è entrato nella mia vita, in modo dirompente, per un tuffo “sbagliato”, oltre quarantasei anni fa. Una grave frattura del midollo spinale, in sede cervicale, mi ha lasciato tetraplegico e cioè paralizzato ai quattro arti e al 95% per il resto del corpo. Non sarei mai più stato in grado di muovere un dito, né di vivere senza l’aiuto continuo degli altri, in tutto e per tutto. La sentenza definitiva era: «Condannato a vivere murato vivo nel proprio corpo inerte e devastato, per sempre».
Da allora ho constatato quanto l’argomento “fragilità umana” possa manifestarsi concretamente, in modo improvviso, crudele e terribile, fino a determinare l’esistenza delle persone. Così la mia naturale fragilità, da carattere passivo del mio essere, si è mostrata come elemento attivo che ha continuato a sconvolgere, a percuotere e umiliare senza tregua l’esistenza mia e dei miei congiunti. Essa è diventata un elemento quasi familiare, una sorta di paurosa entità della sofferenza che ogni giorno mi castiga, sino a farmi dire, col poeta Vincenzo Cardarelli: «Non c’è peccato che io non abbia finora debitamente scontato».
Ho quindi imparato che l’espressione “fragilità dell’uomo” equivale a dire: “sofferenza, dolore” e talvolta, “disperazione”. Infatti la nostra fragilità può facilmente colpire e destabilizzare anche il nostro animo e il nostro spirito. Così, ad ogni crisi che mi trascinava fino ai limiti estremi della vita, prendevo sempre più consapevolezza di avere dentro di me un nemico insidioso e pervicace che io dovevo combattere se volevo conservare la mia vita.
E io questo lo volevo con tutto il mio essere, prima di ogni altra cosa, perché mi piaceva ancora tantissimo respirare, vedere, pensare, parlare, comunicare agli altri sentimenti ed emozioni e cioè, amare ancora la vita con passione, malgrado tutto. Per salvarla avrei dovuto tenere perennemente alta la guardia, sempre pronto a coadiuvare il mio istinto di conservazione con la mia ragione, usando quelle piccole residue risorse morali, fisiche e spirituali che mi erano state concesse.
Anche per questo, pur avendo umilmente accettato la scomoda, inseparabile presenza di questo nemico dentro di me, è stato come convivere con una tigre ringhiosa, sempre pronta a infliggermi, a colpi di artigli e morsi, la mia dose di sofferenza quotidiana. Ho dovuto prendere atto che la mia vita ormai era quella, in compagnia di una tigre chiamata “fragilità umana”; ho dovuto imparare ad addomesticarla al più presto, prima che mi sbranasse, per poi poterla cavalcare, alla riconquista della mia “normalità”.
Dopo questa parentesi di esperienza personale – che peraltro ho sviluppato e approfondito nel mio libro-testimonianza L’Anobio e la ninfea, un vero e proprio manuale della fragilità umana – fatta di strategie di sopravvivenza in una situazione di continua emergenza, di lotta, sovente drammatica, contro una vita arcigna che ogni giorno vuole distruggermi e della mia rivincita su di essa, grazie, malgrado tutto, alla mia grande passione per la vita, costellata di tante gioie, soddisfazioni e amore, ora mi ritrovo non più vittima di una terribile condanna, ma protagonista di una grande, straordinaria avventura che è la mia esistenza. Ecco dunque una chiave per risolvere il problema: interpretare e cogliere il proprio handicap come una speciale, inedita opportunità esistenziale. In parole più semplici: “adattarsi o soccombere […]” secondo la legge di Darwin, sapendo al contempo che «aderire al proprio destino è la prima vera preghiera dell’uomo» (L.Giussani).
Dicevo che mi sento onorato di essere stato scelto da eminenti studiosi e uomini di cultura, a rappresentare la “fragilità umana” nelle sue innumerevoli espressioni; le ragioni sono ovvie, soprattutto per chi mi ha conosciuto tramite la lettura della mia autobiografia. E quale fragilità più ci spaventa, se non quella di subire, momento per momento, la perdita della propria autonomia attraverso un’atroce metamorfosi che ci trasforma in una sorta di insetto, di mollusco, calpestabile da chiunque, in balìa di forze oscure, incapace di alcunché, eccetto che iniziare da un semplice respiro!
Basta anche meno per vedermi come emblema de “l’uomo fragile” se si riflette un momento su cosa possa significare una persona come me che, da oltre 46 anni di gravissimo handicap, si trova ancora qui seduto su una sedia a ruote a parlare in mezzo alla gente. Basta immaginare quale devastazione può aver prodotto il tempo in un organismo totalmente immobile come questo, per capire almeno un po’ a quale livello di fragilità arranchi questa mia vita. Non di meno si può dire riguardo alla mia parte mentale, psicologica e morale che, pur sottoposte a prove scioccanti e a tensioni fortissime, si sono conservate lucide e consapevoli. Credo proprio si possa dire: “uno su mille ce la fa!” e forse anche meno….
Tutto questo, già dal punto di vista clinico, è un fatto straordinario, ma essere giunto fin qui benedicendo il risveglio di ogni mattina e con tanto entusiasmo per la vita, a cominciare dalle sue più semplici espressioni, come un piccolo, semplice respiro, ha del prodigioso. Tanto che alcuni medici, sconcertati di fronte ad un così raro e complesso paziente, un autentico record di longevità, mi hanno denominato “il dinosauro dei tetraplegici”. Una sorta di fossile vivente che, attraverso incredibili vicissitudini è giunto fino ai nostri giorni, forse per dire agli altri che la vita, pur martoriata e cruda, è sempre bella, densa di sorprese e di gratificazioni. Soprattutto quando si scopre che l’amore esiste davvero. E più è forte la consapevolezza della mia fragilità e della mia precarietà, tanto più intenso è il gusto della vita e più cresce il desiderio di lei.
Seconda Parte
Ora, cari Ascoltatori, sono in mezzo a voi con una intima gioia nel cuore nel vedere che siete venuti per ascoltare e approfondire un tema così arduo che, in genere, viene rifiutato o ignorato dalla maggioranza delle persone, ma che in diversa misura, ci tocca tutti nella vita, essendo “la fragilità umana” divenuta un elemento costitutivo della nostra condizione di creature destinate alla morte.
Fragilità che ormai ci accompagna, come un carattere congenito, per tutta l’esistenza, già da prima della nascita, fino a manifestarsi nella sua acme, nel suo trionfo, con l’evento della morte: la madre di tutte le fragilità e di tutte le debolezze.
Tuttavia vorrei a questo punto, affrontare e approfondire il discorso “fragilità dell’uomo”, in termini più generali con l’aiuto del pensiero filosofico-religioso del gran genio Blaise Pascal, ovviamente, sempre in stretto riferimento con la mia esperienza di vita. Dice il filosofo:
L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma è una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo; un vapore, una goccia d’acqua bastano a ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide perché sa di morire, e conosce la superiorità che l’universo ha su di lui, mentre l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta, dunque, nel pensiero. In esso dobbiamo cercare la ragione per elevarci […]
ed io, aggiungo: «per aiutarci ad accettare con rassegnazione, speranza e, magari riconoscenza, il nostro ineluttabile destino di fragili creature mortali».
Per questo un giorno del mio percorso esistenziale, mi sono accorto che stavo vivendo un dramma nel dramma. La mia tragedia personale era in realtà un piccolo evento doloroso, inserito in un dramma assai più vasto e spaventoso che coinvolge l’intera umanità: la presenza del male nel mondo; e “male” significa: dolore, sofferenza, tribolazione, morte, etc., il che si può riassumere con le parole: “fragilità umana”, con tutti i suoi molteplici risvolti.
Ma il dramma della vita non è solo la morte, bensì ciò che lasciamo morire dentro di noi mentre siamo ancora in vita, il che significa: perdere le ragioni stesse del vivere. Dunque perché il male nel mondo? Qual’è la sua origine? Da sempre l’intera umanità geme, urla, invoca una risposta volgendosi al cielo. Ogni uomo intuisce che, in ultima analisi, il proprio dramma personale si riconduce proprio là, a quella prima risposta, dove forse può trovare una pur vaga spiegazione, un lume di rassegnazione e speranza.
Tuttavia anch’io non capisco il perché di questo ineluttabile cammino di sofferenze, di difficoltà, di tormentose inquietudini che coinvolge ogni creatura vivente. In quanto uomo, essere pensante, mi sento colto da una sorta di angoscioso stupore di fronte alla tragica paradossalità della vita. E non posso esimermi dal cercare una risposta. È un’esigenza della mia ragione che si fa urgente soprattutto quando il dolore colpisce me, le persone o le creature attorno a me. E, dal momento che tutti ci siamo trovati in questo mondo senza averlo chiesto, ora nessuno può esimersi dal dare una risposta al più pregnante degli interrogativi: «Questa vita è una trappola inesorabile dove si vive senza speranza e si muore senza dignità, oppure è soltanto un passaggio verso un grande divenire?» (un filosofo). C’è solo una risposta che può salvare […] e anche chi non vuole scegliere, di fatto, ha già scelto.
Sono nato sano, vivace, intelligente, con tutti i presupposti per percorrere una vita serena ed efficiente. Ma ad un tratto qualche ingranaggio del mio organismo si è guastato ed ho constatato l’insospettata fragilità della mia natura biologica.
D’altronde, anche se la sciagura non mi avesse stroncato ed io avessi potuto sviluppare pienamente le mie possibilità, un giorno sarebbe comunque giunta la morte ad annullare tutto. Allora perché nascere, perché vivere e soffrire se si è così inesorabilmente condannati al nulla? Si nasce e già si comincia a morire. Tanto assurdo che sembra impossibile! Eppure è così: ogni bimbo, esuberante e gioioso che viene al mondo è, in realtà, già programmato per la tomba. Perciò qualcuno ha definito l’uomo: «un pacco postale spedito dall’ostetrica al becchino».
Ma se bastasse una definizione del genere a spiegare il problema “uomo” – a cui inevitabilmente, si riconduce ogni discorso relativo alla fragilità umana –, sarebbe davvero una terribile, inaccettabile assurdità! Un non-senso che potrebbe farsi insostenibile per chiunque ne prendesse lucida coscienza. Allora il suicidio resterebbe la risposta più coerente al dramma dell’esistenza.
Gli uomini però hanno sviluppato una comune strategia di sopravvivenza che si chiama “distrazione”. Essi infatti riempiono il tempo che li separa dalla morte buttandosi in una serie infinita di attività intellettuali e pratiche che li distolgano dal pensiero della loro condizione disperata. Così tutte le distrazioni, per quanto piacevoli o impegnative, buone o cattive possano essere, ci fanno giungere alla fine senza che ce ne accorgiamo.
Un’ipocrita farsa collettiva con cui si tenta di esorcizzare la paura della propria impotenza e nullità. Ma correre verso il precipizio facendo finta di leggere il giornale, non mi pare affatto umano né conveniente. Pertanto la risposta “illuminata” bisogna davvero cercarla. E credo che ciascuno debba iniziare proprio da se stesso, in quanto protagonista e fine del suo destino.
Terza parte
Che significano dunque il mio sdegno, la mia rabbia impotente di fronte all’ingiustizia, al male, alle miserie umane? Io, uomo, desidero profondamente la giustizia, il bene, la felicità; sento che mi spettano e, in qualche misura, mi appartengono. Vorrei realizzarli pienamente questi valori, ma essi superano di gran lunga le mie forze.
Eppure non mi rassegno, non mi do pace; continuo a rimpiangerli come se ne fossi stato brutalmente privato. Io, uomo, mi sento nato per la libertà, la gioia, l’amore. Ho dentro queste aspirazioni infinite, ma mi trovo confinato nel relativo e nel finito come in una prigione, e nel mondo non vedo altro che ombre fugaci, simulacri illusori di libertà, di gioia, d’amore, etc. E io continuo a patirne la mancanza, perché sento che questi assoluti mi competono, fanno parte della mia vera natura, e che in qualche luogo e in qualche tempo ne sono stato privato.
Sono come un uomo mutilato che si compiange e si lamenta per non aver più i propri arti; gli sono rimasti soltanto moncherini per arrancare. Mi accorgo che il mondo, no, non dovrebbe essere fatto così. C’è qualcosa che non funziona, che si è guastato tra me e lui, tra me e gli altri, tra me e il suo Creatore. E che cosa indicano la mia ribellione e il mio sgomento di fronte alla malattia, alla vecchiaia, alla morte? La mia ribellione grida: «non sono nato per soffrire e morire!». Il mio sgomento afferma: «non è questo il mio vero destino!».
Eppure, nonostante la vista di tutte le miserie che mi opprimono e mi affliggono, c’è in me, uomo, un istinto insopprimibile di bene e di immortalità che mi eleva. C’è in me un’altra natura che mi trascende, che eccede infinitamente me stesso. Per questo io non sono un automa, né un vegetale, né un animale, ma sono una creatura che ha del divino. Le mie «sono miserie di gran signore, di re decaduto», dice Pascal, «infatti, chi si sentirebbe infelice di non essere re, se non un re spodestato?».
Pertanto ora so che la mia attuale condizione di tribolazione e caducità non è la mia vera condizione. Tutte queste miserie di essere umano non sono congenite alla mia natura, ma sono la conseguenza di una privazione avvenuta in un tempo remoto della mia storia. Mi è rimasta la reminiscenza, l’istinto confuso, la nostalgia di quell’antica eccellenza che mi fu naturale. Sento la mancanza di quello stato di perfezione che dovrei possedere e mi è stato tolto. E subisco tale mancanza come una ferita, un’amputazione dalla mia stessa umanità.
Ecco, l’enigma del male trae dunque le sue origini da un preciso momento della storia del mondo. Là deve essere accaduto un evento straordinariamente traumatico e misterioso. Un guasto, una frattura che ha squilibrato il mondo con tutte le sue creature: il peccato originale. Là ho subito la perdita della mia primitiva grandezza che ha aperto in me un vuoto spaventoso di bene, di felicità, di amore, di vita.
Un abisso infinito che ora, invano, cerco di colmare con tutto quanto mi sta attorno « […] e che non può essere riempito se non da un oggetto infinito e immutabile: Dio» (Pascal). Così so che la mia attuale situazione di sofferenza e privazione non dipende dalla frattura della mia spina dorsale, avvenuta quarantasei anni fa (questa è solo una conseguenza), ma risale ad una frattura assai più grave avvenuta alle origini della razza umana: un trauma cosmico che ha sconvolto il progetto d’amore del mio Creatore.
Credere nel peccato originale come causa di tutti i nostri guai, potrebbe sembrare un atto irrazionale, assurdo. In realtà, invece, è ragionevole ritenere valida questa ipotesi poiché è l’unica in grado di rendere ragione dei fatti: la sola capace di spiegarne gli effetti, cioè il male nel mondo. Infatti, quando “un assurdo” illumina e dà senso alla realtà, esso non è più assurdo, bensì accettabile e plausibile.
In ultima analisi, il peccato originale è senz’altro un evento misterioso, che sta al di là di ogni conoscenza umana e che può essere raggiunto solo attraverso la rivelazione religiosa, ma resta pur sempre un mistero senza il quale il mondo sarebbe davvero un mistero ancor più inconcepibile. Dunque il cosiddetto “peccato originale” è un mistero che illumina anche ogni nostra fragilità.
© Bioetica News Torino, Dicembre 2013 - Riproduzione Vietata