Lectio Magistralis di Vittorino Andreoli
Alcuni anni fa ero stato particolarmente colpito dal potere, e mi pare di aver allora conosciuto cosa vuol dire, cosa nasconda il rapporto di potere.
Mi colpì il potere come verbo. Potere in quanto io posso, tu puoi, egli può; e questo verbo talvolta porta a fare perché si può, non a fare perché serve, semmai serve soltanto a chi lo esercita, non certamente a chi lo subisce.
Ed è stato proprio dalla meditazione sul potere, dal vedere quali possono essere i suoi effetti nella relazione di coppia, nella famiglia, nella scuola, nella res publica, che mi sono interrogato sul perché questa società sia così ammalata di potere.
Naturalmente si dovrebbe precisare ancor meglio che cosa si debba intendere per potere, ma qui intendo riferirmi proprio al potere di chi fa in quanto può, e che al contempo lo toglie a tutti quelli che non possono. E anche a me che mi occupo di sofferenza, anche se di una sofferenza particolare, perché i disturbi della mente sono modalità di soffrire diverse da tante altre che noi conosciamo clinicamente e nelle diverse specialità.
La psichiatria è una grande lezione di sofferenza, una sofferenza in maschera ma sofferenza, e sovente il disturbo mentale è proprio il risultato di rapporti che non hanno funzionato, sbagliati per quel particolare soggetto che oggi entra tra i disturbati della mente.
Comincerò col dire che una delle associazioni forti di come il potere è presente nella nostra società è data dal binomio potere e denaro, e vi sembrerà strano – io sono psichiatra da più di cinquant’anni-, ma mai avevo potuto constatare in maniera così precisa, quasi in un rapporto di causa-effetto, che il denaro potesse essere causa di pazzia, di disturbi della mente.
Ho avvicinato delle persone che mentre raccontavano la loro storia, mi costringevano ad aprire un capitolo nuovo per capire: era il capitolo dedicato al denaro.
Il denaro aveva finito per essere il punto di riferimento per misurare il valore di quella persona; e mi sono reso conto che c’è una nuova maniera per parlare di patologia da potere, quella del denaro. In questa società il potere si misura in denaro, e almeno molti, molti di noi, molti cittadini, hanno attaccato un cartellino al collo, identico a quello che generalmente si trova negli abiti dei negozi, per scoprire quanto vale l’abito, e ora per sapere quanto vale l’uomo.
E devo aggiungere che il considerare la patologia indotta dal potere, mi ha portato a chiedermi, ma chi è l’uomo di potere?
Innanzitutto, come sempre dovrebbe fare uno psichiatra, mi sono chiesto che cosa rappresenta per me questo termine?, e mi sono accorto che è una delle realtà, una delle percezioni che più mi spaventa; mi sono accorto che in tutta la mia esistenza sono sempre scappato dal potere, forse inconsapevolmente, come se rappresentasse un forte limite all’essere uomo.
Mi sono accorto dunque che c’è una dimensione dell’uomo, e forse un’antropologia dell’uomo che si distacca nettamente dall’antropologia dell’uomo di potere.
L’autorità non è potere, l’autorità è distruzione del potere, l’autorità porta a servire. Ecco una delle più belle definizioni di autorità, che certamente è stata data per contrapporla al potere. Mentre chi è più potente tra noi, desidera essere ancora più potente e aumentare la quantità di uomini che devono tener conto di quel potere, “chi è più grande tra voi deve essere come colui che serve”.
Il potere ha bisogno dell’altro per imporsi, sentirlo distaccato come un oggetto su cui misurare la propria forza.
Dalle considerazioni del potere e del potente, mi sono accorto – per lo meno questa è stata la mia meditazione -, che veramente il potere è una malattia sociale; mi sono accorto che il potere è l’antitesi della fragilità umana.
E mi è sembrato che l’umano si coniughi alla fragilità di ciascuno di noi e tenga conto della fragilità degli altri.
È qui che si trova la dimensione dell’uomo, è qui che nasce il grande suo significato, un uomo che in gran parte ignora chi egli sia. È come se l’uomo fosse alla ricerca del proprio senso e fosse pieno di dubbi. Ha bisogno di continuamente ricercare.
Non si tratta di trovare una soluzione attraverso un sistema filosofico, ma di sperimentare un legame con l’altro che contemporaneamente fa sentire fragili, e fa sentire che la fragilità dell’altro aiuta la propria fragilità.
Ecco, il potere ha bisogno dell’altro per poterlo dominare attraverso la violenza fisica, quella del sangue, ma anche con una violenza delle belle maniere, quando condiziona persino con il sorriso, persino con il ricatto elegante, persino con la pseudo cultura, che è semplicemente un’ancilla del potere.
E ho cominciato ad amare la fragilità, innanzitutto la mia fragilità; e mi sono accorto, almeno per la disciplina che esercito, che se è vero che qualche volta sono stato utile all’altro, lo è stato per la mia fragilità, su questo non ho ombra di dubbio.
Certo ogni professione ha una tecnica, un sapere, e bisogna conoscerle bene, e bisogna apprendere bene tutto quanto vi appartiene, ma questo non basta a fare un uomo, nel mio caso lo psichiatra; non basta a fare l’uomo che esercita una professione. Forse fa un professionista, uno dei tanti professionisti che sembrano grandi, ma sicuramente sono piccoli uomini, e credo che se questa è la condizione dell’uomo di potere, del professionista potente, non è la dimensione a cui io mi rifaccio, perché si fonda sulla mia fragilità, sul cercare di capire chi ho davanti in maniera il più possibile profonda, come se io mi specchiassi in lui e lui in me. Conoscersi dentro una relazione, una relazione che è possibile attivare solo attraverso la fragilità.
Il potere non è relazione, non è uno scambio, non è un andare dentro l’altro per aiutarlo, capendo meglio se stessi e cercando di agire in modo di poter realizzare quello di cui l’altro sente bisogno. Non è avvertire la sua paura, perché quella paura l’hai conosciuta anche tu, perché quella depressione l’hai incontrata quel mattino in cui ti sei alzato e ti pareva di non aver fatto abbastanza. Lui, chi ti è di fronte, ha vissuto il senso di vuoto che tu provi quando perdi tuo padre, e mi riferisco a una esperienza drammatica, perché mi pareva che non potessi più vivere senza di lui.
La mia fragilità è la misura della possibilità di essere uomo e di dedicarmi agli altri uomini.
Il più grande uomo della storia ha mostrato la propria grandezza nella fragilità, e io mi sono innamorato di questo Uomo, che scrivo con la U maiuscola naturalmente, e so che cosa è per molti, al di là della visione umana.
Mi sono innamorato dei septem verba Christi in cruce.
Quest’uomo, il Cristo, è l’esempio più straordinario di fragilità umana, probabilmente poiché se si è fatto uomo, non poteva che essere uomo totale, esempio di umanità. L’uomo della fragilità, l’uomo del dolore, l’uomo della solitudine. Deus meus, Deus meus ut quid dereliquisti me?
Parole per una grande lezione di umanesimo, e quella che mi piace molto è forse l’espressione più breve. Nel silenzio, in quella condizione drammatica egli dice Sitio, il bisogno più elementare dell’uomo, del suo corpo.
L’umanesimo non è complicato, mentre il potere deve essere continuamente in maschera; l’uomo della fragilità presenta veramente il volto e nonostante i bonobo ci stiano rincorrendo, siamo gli unici a sorridere, gli unici a mostrare lo sguardo, la nostra sofferenza, il dolore. Il dolore come espressione della fragilità.
Da qui ho cominciato ad amare la fragilità, e sono sicuro che voi tutti, molti di voi, saprebbero parlare di questo grandissimo uomo, il più grande, Gesù di Nazareth; e sono sicuro che molti potranno leggere anche parte dell’Antico Testamento come storia della fragilità, addirittura come storia del passaggio dal potere alla fragilità.
Io sono affascinato dall’interpretazione che dà Freud in Mosè e il monoteismo che ha pubblicato poco prima di morire, nel ’38. Parla della religione del figlio, che va vista proprio come religione della fragilità, perché il figlio richiama il padre.
Sono convinto che l’uomo della fragilità abbia due modalità per conoscere la propria condizione, la prima è quella della razionalità, e c’è un grande filone di studio in questo senso: la conoscenza del tempo, della scienza. Rispondere al dubbio con la ragione, la logica, seguendo dei princìpi.
In questo modo si dà risposta ad un dubbio e ci si accorge però che si apre un altro dubbio, in maniera interminabile, come sostiene la teoria sulla falsificabilità di Popper.
Una conoscenza dispiegata nel tempo, supporta l’idea del ignoramus, sed non ignorabimus, è questa la grande fede negli strumenti del conoscere.
C’è un secondo modo di conoscere: una maniera per ottenere risposta senza rimandare nel tempo, e scatta quando la condizione del dubbio diventa paura e la paura è la percezione del rischio che c’è o che forse non c’è, ma però è imminente. È la condizione di chi avverte la paura della morte.
Freud, ricordava che tutte le paure si riducono a questa grande paura, e che sono riportabili dunque alla paura della fine, una fine del qui e ora. Adesso, il mio tempo, non solo finisce ma è finito, e nel panico non c’è possibilità di spiegare nulla.
Gli attacchi di panico sono drammatici: in un attimo si passa da una condizione di apparente tranquillità a un momento di fine. C’è poco da spiegare, manca persino il dubbio. Quando mi trovo davanti ad un simile caso, non conto sulle parole, stringo la mano di quell’uomo, certo gli dico che anch’io avevo paura ma adesso non ce l’ho più, e lo invito ad attaccarsi all’altro, alla paura dell’altro, alla paura che ha l’altro.
Una conoscenza che si fonda su quell’essere ammaliati dal carisma che prende senso perché avverti qualche cosa che non è riducibile a ragione.
La conoscenza dei sentimenti, il sentire, e a questo sentire si coniuga una risposta che si dà immediatamente, che appartiene al mistero, al mistero degli incontri.
L’amore è mistero, l’amore è una lettura del mistero, un’esperienza bellissima: se nella razionalità c’è bisogno di controllare tutto ciò che noi facciamo, per capire, per conoscere, nei sentimenti si avverte che la risposta proviene dalla esperienza, dall’attimo in cui ci si lega all’altro e produce una metamorfosi dentro il mistero. I nostri sentimenti sono un vissuto del mistero.
Il mistero non è tema della scienza.
Mi piace ricordare Albert Einstein, il quale diceva che mentre noi studiamo con difficoltà le leggi del particulare, ci rendiamo conto che ci deve essere una mente che ha architettato, che ha in qualche modo sistematizzato ciò che noi riusciamo a capire in un piccolo dominio, in un frammento di universo e di materia.
Io ho legato la fragilità al mistero, mistero inteso non nella contrapposizione con la scienza, ma del mistero nonostante la scienza.
Il mistero dal nulla all’esserci, alla vita. Il mistero della fine, la fine che si sente arrivare e che lascia attoniti, che spaventa, al di là delle verità che contiene. La fine dal punto di vista dei vissuti, dei sentimenti è mistero. C’è sempre bisogno ancora di un minuto, di un minuto per andare da tuo fratello per chiedergli perdono.
Io sono sempre affascinato dalla parabola di colui che si trova davanti all’altare per l’offerta a Dio e si accorge di aver detto raca a suo fratello, e corre da lui per scusarsi e poi ritorna.
Quando senti la fine che giunge vorresti fermare il tempo, avere ancora un minuto per chiedere scusa, io avrei bisogno di più di un attimo per poter fare ciò che non ho fatto, per poter completare almeno quella cosa e dopo mi sarebbe più facile andarmene.
Ecco il mistero, il mistero della fine, il mistero della malattia. I medici sono lettori del mistero, perché dare alla malattia la definizione manzoniana di provvida sventura è veramente entrare dentro il mistero.
Il non sapere perché è impossibile sapere nella condizione umana, il mistero della condizione umana.
La fragilità si lega al mistero, al mistero della condizione esistenziale. Io ritengo che la fragilità sia il fondamento dell’umanesimo, il fondamento dell’essere uomini, e non c’è bisogno di risolverlo, ma basta averne percezione, consapevolezza: questo è per me il grande senso dell’essere al mondo.
Ignoro molte cose della mia esistenza e dei miei sentimenti, del mio esserci, avverto il tuo mistero, sento la mia fragilità che aumenta con la percezione della tua fragilità.
Il medico, il medico del corpo, del corpo che appartiene al mistero. E non sopporto i medici che si pongono al letto del malato come coloro che sanno nei confronti di chi invece ignora. Anch’essi non conoscono il senso dell’uomo, di quell’uomo che soffre, perché anche la sofferenza è mistero.
La fragilità è la condizione umana che ha bisogno dell’altro; la mia fragilità ha bisogno della tua fragilità perché solo mettendole insieme mi sembra che si faccia forza, vita.
Mi piace moltissimo l’idea che ognuno può aiutare l’altro a vivere.
E il mistero allora consola, non spaventa, perché il mistero dell’altro che ti aiuta a vivere, non è un dramma.
La fragilità non è un difetto, perché sai che la tua fragilità può trovare risposta nella fragilità dell’altro, e due fragilità aiutano a vivere, non portano a distruggersi: non c’entra il vittimismo.
E questo è un punto fondamentale della meditazione che dobbiamo aprire con la fragilità.
Il mistero è dentro la fragilità mia e tua, e quel potente, quel malato di potere non ha riconosciuto la sua vera grandezza, che non sta nel dominio, ma nel mescolarsi, nel condividere la propria fragilità.
Ritengo che il silenzio sia l’espressione più profonda per “parlare” del mistero, perché si avverte che qualunque cosa si dica è sempre insufficiente. E quando il mistero assume il termine di Dio, la voglia di silenzio si fa in me ancora più insistente. Il silenzio che si deve separare dal vuoto.
Dentro la Legge c’è l’imperativo di non nominare il nome di Dio invano. Non si può dare nome a colui che è, a chi non è una persona. Io amo sempre di più il mistero, il mistero che non ha bisogno di parole perché sono troppo sapienti, meglio il silenzio.
L’umanesimo non si fonda sull’io, ma sul noi, e lo dice una persona, una piccola persona che ha contribuito moltissimo alla psicologia del Io nel mondo, è da un secolo che facciamo la psicologia dell’io, io, io, io.
Abbiamo teorizzato che la serenità sta nel dare la risposta ai bisogni dell’io, ai miei desideri, al mio io, io, io.
Abbiamo dimenticato il noi, e certo io ormai sono vecchio, ma voglio avere ancora pochi giorni per fare la psicologia del noi, perché questa mia fragilità non mi isoli ma mi affianchi all’altro.
La relazione è una condizione di esistenza, è la caratteristica principale dell’essere uomo nel mondo.
E mi piace molto che addirittura dalla biologia comincino ad emergere dei dati che la sostengono: il professor Rizzolatti, fisiologo di Parma, ha mostrato che esistono i neuroni specchio e mentre io mi avvicino a uno di voi si attivano per cercare di mettermi in sintonia con voi. Esistono neuroni nel nostro cervello che non riguardano l’io, ma il noi e che non si attivano se non c’è la relazione, che è una condizione fondamentale per vivere.
La fragilità comincia a coniugare io e tu, a formare il più piccolo tra i noi, la coppia, ma c’è una fragilità che si allarga nella famiglia, che ha aperto la porta della fragilità nella famiglia.
Molte famiglie sono rovinate dal potere, e da una male intesa posizione dei ruoli che vengono visti gerarchicamente e non come modalità di esercizio della propria fragilità, che vuol dire io ho bisogno di te.
Questo è il nocciolo principale del grande tema della famiglia.
La famiglia come una piccola orchestra, un trio, un quartetto d’archi dove ciascuno deve sapere suonare bene uno strumento, il violino, la viola, il contrabbasso, ma per far sortire una sonata, per realizzare la composizione che è scritta nella partitura dal compositore, serve che quegli strumenti si mettano insieme e siano armonizzati. Occorre che ogni orchestrale conosca perfettamente lo strumento che suona, che sappia tirare fuori una grande varietà di suoni, ma la famiglia la si valuta dall’insieme, non si identifica con il violino, ma nell’insieme: bisogna che appena termina il violino, entri subito, in sintonia o in contrappunto, la viola. Il violino in un trio di Mozart ha bisogno della viola. La sonata che è stata programmata, che è stata composta ha bisogno di tutti e tre i suonatori. Non c’è appiattimento nell’insieme, bisogna che gli strumenti rendano al massimo, però è la loro integrazione a caratterizzare la famiglia. E la famiglia è tenuta insieme dalla fragilità.
Un padre che non avverte la propria fragilità, tenderà a definire il figlio adolescente un problema, e aggiungerà che è un problema che costa. Occorre percepire di aver bisogno del figlio, e che quel figlio senta di aver bisogno del proprio padre. Come si fa a costruire delle storie affettive se non c’è questa percezione?
La fragilità è la forza dell’insieme, e io spingerei questo allargarsi dalla coppia, di cui parliamo troppo, al gruppo della famiglia, a una classe scolastica. La metafora è sempre l’orchestra, è l’insieme. Le individualità, le capacità di ciascuno, i talenti, non vengono mortificati o appiattiti, ma anzi potenziati nello scopo di far suonare l’insieme, di raggiungere quella musica che chiamiamo educazione a vivere insieme.
E con questa progressione si giunge alla res publica, dalla coppia alla polis.
Platone diceva che per poter amministrare una città bisogna capire i bisogni dell’uomo, e riteneva che solo i filosofi, quelli di allora, potessero capire anche il mistero, soltanto dopo vengono i tecnici necessari per rendere operativa la soluzione dei bisogni.
La fragilità è la condizione esistenziale in cui ci troviamo a vivere e comporta il bisogno dell’altro, e il bisogno dell’altro non è retto dal dominio ma dalla condivisione. Uno scambio di fragilità, il mercato delle fragilità, e in questa espressione il Mercato merita la maiuscola. Il Mercato dei bisogni, io ho bisogno di te, tu di me.
E occorre educare alla fragilità e non a nascondere ciò che sembra non favorire il potere. Non serve atteggiarsi a forti e potenti fin da piccoli, insegnare ad alzare sempre la mano, anche se non si ha nulla da chiedere, “alzala lo stesso perché così sembra che tu abbia grinta” altrimenti vieni escluso.
In una comunità dei legami si scoprono parole che non sono più usate, come ad esempio la cooperazione.
La fragilità non è patologia, su questo devo insistere, e ritornare a sottolineare la differenza anzi la contrapposizione tra fragilità e debolezza.
La debolezza si misura con la forza, con il potere; il debole è colui che manca di potere. E spesso c’è un’appropriazione di potere che è pura fantasia: non si conta niente, ma si inventa.
Accade frequentemente nelle vacanze, il luogo dove inventiamo la forza che non abbiamo.
La debolezza è qualche cosa che riferiamo ai muscoli, il muscolo debole è un muscolo che non ha più le proprie caratteristiche, che ha sostituito le fibre muscolari, lisce o striate, con il connettivo e quindi c’è una anchilosi.
La fragilità non è un sintomo di debolezza, non è debolezza, semplicemente ha bisogno di trovare un’altra fragilità, più fragilità con cui unirsi.
Non è patologia sentire di essere fragili, avvertire il mistero, la paura. Semplicemente sei un uomo, sei una donna, sei un adolescente, sei un bambino che ha bisogno di attaccarsi al corpo di tua madre, se non avessi questo bisogno non ci saresti. E ritorna il noi. Questo è un tempo per parlare di noi, del noi, io e te, non dell’io, io, io.
La persona fragile deve cercare un’altra persona fragile, deve trovare nella famiglia il luogo in cui la fragilità viene in qualche modo compensata.
L’amore è il canto, il cantico della fragilità. Dice lei «io ho bisogno di te, cosa farei senza di te» e lui risponde «no, sono io a non poter vivere senza di te». Un bellissimo esempio lo si trova nel Cantico dei cantici.
La fragilità non è una patologia.
Il termine inquietudine esprime bene la fragilità, il sentire di aver bisogno di un altro che ancora non c’è, di raggiungere uno scopo che ancora pare lontano. Mi giro attorno perché temo di non trovare più quelle fragilità che erano dentro la famiglia, nella scuola; mi giro attorno e non trovo mia moglie, i miei figli, i miei nipoti.Ho paura di aver sbagliato, e allora cosa faccio, cosa devo dire? Sono inquieto.
L’espressione richiama Agostino, un’espressione bellissima, la sintesi della fragilità.
Mi piace molto anche il termine gioia, molto più di felicità. Mi ricordo quando mia nonna Virginia mi diceva: «sai ho pianto di gioia». La gioia tiene conto dell’altro e se qualcosa è accaduto a me di positivo, avverto che invece a lui non è ancora capitato e dunque sento di aver avuto, ma anche di dover tenere conto di chi non ha ancora ricevuto nulla. La gioia si diffonde, la felicità la si tiene per sé.
Inquieto è il mio cuore fino a che non sarà legato, non solo vicino, proprio legato a Te.
La storia dei legami è la storia della fragilità, e percorrendola si arriva a Dio.
Dentro il mistero trova posto anche Dio. Molti l’hanno già trovato e fanno fatica anche a discuterne, altri invece leggono “l’Inno alla gioia” di Schiller, con l’invito a girare nel cielo: «andate in cielo, guardate attentamente perché da qualche parte dev’esserci Dio».
L’inquietudine non è una patologia. Esprime la visione dell’altro, non come qualcosa da allontanare, qualche cosa di drammatico, di pericoloso, il bisogno di qualcuno che ha una fragilità che potrebbe essere utile alla tua fragilità.
E termino con quello strano colloquio che si svolge sul Golgota tra Gesù e uno dei ladroni. Gesù inchiodato sulla croce, non gli chiede chi sei, che cosa hai fatto? Certamente aveva commesso dei reati, era andato contro la legge. Ma non gli chiede che cosa hai fatto? Non chiede, e gli dice: «Oggi tu sarai con me in paradiso».
E’ meraviglioso perché fa vedere la fragilità di un uomo che è sulla croce, che invita un altro fragile a unirsi con lui. L’unione delle fragilità dà salvezza.
E a donare il paradiso è una persona fragilissima, uno che tra poco dirà :«Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato».
Proprio lui rassicura un uomo solo sulla croce e gli dice «Tu oggi sarai con me in paradiso».
Forse capite perché il ladrone sia la mia speranza.
Lectio Magistralis tenuta a Torino il 26 ottobre 2013 al Convegno dell’Amci e della Piccola Casa della Divina Provvidenza intitolato «L’uomo fragile. La condizione umana tra resa e resistenza», presso il Centro Congressi Santo Volto.
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