Con queste poche righe non si intende entrare nel merito dell’argomento indicato dal titolo, cosa che mi sarebbe impossibile fare in così poco spazio, quand’anche ci si limitasse a trattare il tema in modo più che sintetico, direi stilizzato. Del resto, queste imprese sono state tentate e realizzate con successo − certo con più spazio a disposizione − ad esempio nei dizionari di sociologia, ad uno dei quali si rimanda fin già dalla nota bibliografica che propongo in coda. La stessa cosa vale con riferimento alla manualistica in campo sia antropologico-culturale che sociologico. A queste fonti mi sono orientativamente ispirato per confezionare la breve lezione erogata in aula.
Tuttavia, come si può facilmente capire, il fatto di avere a disposizione brevi frazioni di spazio e di tempo disponibili per trattare un tema complesso, non riduce in nessun modo la complessità del tema, la quale rimane tale. Inoltre, come ci insegna il grande sociologo Niklas Luhmann, in condizioni caratterizzate da elevata complessità qualsiasi operazione di “riduzione della complessità” − per quanto inevitabile possa essere − insieme a questo effetto immediato, ottiene in seconda battuta anche sempre l’effetto opposto di immettere ulteriore complessità. Invece, più semplicemente, con questo breve intervento si persegue uno scopo introduttivo, proponendo alcune considerazioni utili a intuire la portata del tema in una prospettiva antropologico-culturale e sociologica. Il passaggio dall’”intuire” al “cogliere”, cioè dall’intuizione alla comprensione, è possibile soltanto attraverso uno sforzo di studio molto superiore a quello sufficiente per la lettura di queste due pagine. È proprio questo il senso della bibliografia allegata in coda; i pochi riferimenti che essa propone costituiscono, a loro volta, soltanto un punto di ingresso per iniziare un serio cammino di studio su questi temi.
Il rapporto dell’uomo con il cibo e l’alimentazione costituisce uno dei principali oggetti di studio dell’antropologia culturale. La ragione è facilmente intuibile e, a ben vedere, è la stessa in forza della quale la tematica alimentare è fondamentale anche per la zoologia: infatti, da un lato quella di nutrirsi è un’esigenza primaria di qualsiasi organismo vivente vegetale o animale e di conseguenza, dall’altro lato − soprattutto nei mammiferi, come dice la parola stessa − l’alimentazione rappresenta, per il singolo individuo, non solo la prima esperienza di interazione con un altro individuo della propria specie, ma anche la prima forma di rapporto sociale. Se poi ciò è particolarmente vero per le specie che conducono una vita comunitaria, allora lo è in modo incommensurabilmente più articolato e complesso per la specie umana.
In altri termini, com’è noto, oltre che alla dimensione funzionale, cioè preposta al sostentamento materiale e alla sopravvivenza biologica, l’antropologia è particolarmente attenta alla dimensione simbolica di una comunità umana − la quale comprende naturalmente anche il linguaggio e la comunicazione − nonché alla sua struttura e organizzazione sociale. Se è vero, anzi, che queste ultime dimensioni di analisi si rivelano indispensabili per comprendere correttamente e più in profondità anche la prima, quella funzionale, è corretto affermare anche il contrario. Ovverosia, nelle specie animali superiori che fanno vita comunitaria − e in modo assolutamente unico e speciale per quella umana − il soddisfacimento delle funzioni vitali per il sostentamento del singolo si intreccia con il soddisfacimento delle funzioni vitali per il mantenimento dell’equilibrio del sistema sociale, condizione indispensabile alla sua persistenza nel tempo e nello spazio. Si consideri ancora quanto segue: la ragione per la quale nella specie umana è così importante la dimensione comunitaria − e di conseguenza quella simbolica, dal momento che qualsiasi comunità necessita di comunicazione e pertanto essa al contempo presuppone e comporta l’esistenza di una qualche forma anche minima di linguaggio – poggia su almeno due presupposti biologici ben precisi, inerenti in modo esclusivo la nostra specie.
Il primo consiste nella situazione di debolezza endemica che caratterizza l’uomo nel rapporto con la natura: a differenza delle altre specie animali, quella umana non è direttamente attrezzata per sopravvivere nell’ambiente selvaggio, dove essa si trova gravemente esposta sia alla durezza delle intemperie e degli agenti atmosferici, sia alla forza dei predatori. La vita di gruppo costituisce un rimedio naturale, cioè imprescindibile, a questo problema: essa riduce la pericolosità dell’esposizione per il semplice principio dell’unione che fa la forza.
Si tratta però di capire in cosa consista essenzialmente questa forza. E ciò ci conduce al secondo presupposto, che consiste nell’essere dell’uomo un animale sociale e quindi culturale sui generis. Se è vero che anche di altre specie animali si possa dire che siano sociali e culturali, nell’uomo questi caratteri si articolano in modo infinitamente più alto, in forza delle immense potenzialità speculative di cui esso dispone. Tali qualità, tuttavia, non possono esprimersi e sprigionarsi prescindendo dalla relazionalità, cioè appunto dalla vita comunitaria. Senza la relazionalità − cioè l’interazione dotata di senso con i suoi simili − l’uomo sarebbe il più indifeso degli esseri viventi. La relazionalità lo ha reso di gran lunga l’animale più potente, inarrivabile; ciò perché è solo mediante la relazionalità che si può innescare la ragione e questo processo di innesco avviene attraverso l’accensione del binomio linguaggio/comunicazione.
Infatti, l’interazione all’interno di un gruppo, necessitando di comunicazione, comincia a generare cultura, trasformando ben presto il gruppo in una comunità: al sorgere di un linguaggio inizialmente rudimentale, si accompagnano gli altri universali evolutivi, e cioè la religione, la famiglia, la moralità, l’economia, la politica, oltre che le conoscenze tecniche e ingegneristiche in diversi campi, tra cui innanzitutto quelli agricolo, edilizio, della caccia e militare, oltre che in ambito medico e per l’appunto nel campo dell’alimentazione. Una cultura dell’alimentazione, permette di pensare al cibo non solo in quanto più o meno commestibile, ma anche come più o meno nutriente, propiziatorio, curativo, rivestendo così il mangiare e il bere di un valore e di un significato ulteriori rispetto a quelli strettamente funzionali: diversamente dalle altre specie animali, mangiare e bere per l’uomo non coincide mai soltanto con il cibarsi e l’abbeverarsi. Di riflesso, questo processo va a informare attività come la caccia, la pastorizia, l’agricoltura, e quindi anche l’ingegneria, l’economia, la politica, la morale, la religione e l’arte della guerra. In forza dell’acquisizione di questi significati − sempre intrecciati a quelli funzionali benché ad essi mai riducibili − nel campo del cibo e dell’alimentazione si sviluppa la cultura della cucina e l’arte culinaria.
Ebbene, in questo quadro d’insieme, la questione alimentare è strettamente connessa con la dimensione simbolica e con quella organizzativa, e lo è molto più di quanto si possa intuitivamente immaginare. Del resto, tanto l’antropologia culturale quanto la sociologia sono interessate a indagare quella che Parsons chiama la “struttura latente” delle comunità e delle società umane. Con questa espressione si intende fare riferimento ai pilastri portanti delle società e delle comunità, alle loro fondamenta le quali, esattamente come accade per le costruzioni e gli edifici, non sono visibili (manifesti) bensì appunto nascosti, a dispetto del fatto che dalla loro esistenza e persistenza nel tempo dipendano le possibilità di sopravvivenza, di sussistenza e di eventuale ulteriore sviluppo di tutta la struttura che si regge quotidianamente su di esse.
Infine, la sociologia articola la propria analisi su questo tema selezionando come proprio oggetto privilegiato la società moderna, da intendersi come società dominata dai due registri industriale-capitalistico e scientifico-tecnologico, tra loro strettamente intrecciati. Anche la sociologia è specificamente orientata al’individuazione e all’analisi della struttura latente della società moderna; e ciò significa, anche e soprattutto, procedere alla comprensione e ricostruzione della struttura e delle dinamiche del potere. In questo senso la riflessione sociologica, pur nella varietà dei suoi approcci teorici, è sostanzialmente concorde nel rilevare nella “modernità” un carattere di grave criticità, nel senso che l’accentramento nelle mani di pochi del potere inerente la struttura latente della società, genera − in modo sempre più evidente nella modernità avanzata − “effetti perversi” , cioè esiti opposti rispetto alle esigenze di riproduzione e sussistenza della società nello spazio e nel tempo. Tale criticità, di nuovo in estrema sintesi, consiste nella progressiva perdita della dimensione relazionale, tuttavia non per il fatto che essa venga meno bensì per la sua subordinazione alle esigenze del tecno-capitalismo. Questo processo − che è un processo di estraneazione del singolo rispetto alla comunità, e quindi di grave logoramento della dimensione comunitaria, come avevano ben capito ciascuno a suo modo Tocqueville, Marx, Durkheim, Weber, Simmel e altri − aumenta in modo esponenziale con il passaggio dal tecno-capitalismo industriale a quello finanziario digitalizzato, corroborato dall’avvento del mondo virtuale e dei social network: si tratta, più in generale, del processo di globalizzazione.
Nelle società occidentali tardo-moderne, lo smarrimento dell’uomo contemporaneo cioè la sua precarietà identitaria, culturale, intellettuale e morale, è proprio una conseguenza della riduzione della relazionalità alle esigenze funzionali − meramente mercantili − del tecno-capitalismo finanziario. Si costituisce in pienezza quella che il grande sociologo tedesco Max Weber (1864-1920) chiamava la “gabbia d’acciaio della razionalità allo scopo” e che il grande filosofo italiano Augusto del Noce (1910-1989) ha descritto come avvento del binomio “società tecnologica” e “ateismo nichilistico”: volendo usare una formula valida per entrambi possiamo parlare di “secolarizzazione radicale”. Cosa c’entra con tutto ciò l’alimentazione? Semplicemente, e tragicamente, l’instaurarsi di un registro di secolarizzazione radicale comporta un’involuzione nel processo di razionalizzazione evolutiva che ha portato alle grandi culture e civiltà della storia umana, compresa naturalmente quella europea. L’esito è la graduale riduzione dell’uomo ad animale elementare da allevamento per fini mercantili; in questo scenario e in una logica di crescente alienazione, anche il cibo e l’alimentazione sarebbero completamente sradicati ed estraniati dalla cultura, ricondotti cioè allo status di mere esigenze di tipo funzionale, però ad un livello inferiore a quello degli altri animali superiori; il soddisfacimento di tali bisogni, infatti, sarebbe in tutto e per tutto ordinato alla massimizzazione degli interessi delle “forze storiche” (espressione di M. Weber) e delle “minoranze attive” (espressione di Tocqueville) che controllano e orientano questi processi.
È in questa cornice che, secondo me, oggi ha particolarmente senso collocare uno studio approfondito di natura sociologica circa la “questione alimentare”, cioè sul tema «L’uomo e il cibo». L’onere di questo studio spetta alla libera iniziativa del lettore.
Bibliografia minima
GAZZOTTI M.E., Il cibo e l’alimentazione nel percorso analitico della sociologia, in «Rivista di scienze della comunicazione di argomentazione giuridica», 2018; 1: 25-41
ONCINI F., Sociologia dell’alimentazione: l’eredità dei classici tra riduzionismo, sistemismo e microsociologia, «Quaderno 3», Collana del Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale, Università degli Studi di Trento, 2016
PICCO C., voce «Alimentazione», in De Marchi, A. Ellena e B. Cattarinussi (a cura di), Nuovo Dizionario di Sociologia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1987, pp. 65-72
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