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13 Ottobre 2013
Supplemento Salute e Alimentazione

L’universo simbolico e morale dell’alimentazione

Abstract

Nell’innato atto del mangiare si rispecchiano sempre nuovi e rinnovabili orizzonti antropologici ed assiologici, definibili anche mediante la cucina, la gastronomia e la tavola: ‘luoghi’ di storia e di tradizione, oggi vieppiù compromessi dall’anarchia gastro-anomica, di cui è emblematico il cibo-merce; al quale va tra l’altro ricondotta la trasformazione semantica del concetto di dieta e quindi della tradizionale idea di salute, scaduta a salutismo estremo.
Esso traduce un’inquietudine esistenziale che, declinata nel linguaggio psicopatologico dell’anoressia-bulimia e dell’obesità, riflette la drammatica dialettica dell’essere e dell’apparire — imperniata sull’attuale dittatura del corpo —, il cui superamento così come il savio recupero di una sobria misura esistenziale, costituiscono l’ideale etico al quale la società contemporanea dovrebbe ispirarsi per ripristinare il primato della persona: armonica e al contempo dissonante combinazione di transeunte e di eterno, che resta la realtà più autenticamente umana

L’universo simbolico e morale dell’alimentazione

Un ancestrale moto perpetuo tra natura e cultura: in questi termini sono succintamente rappresentabili, secondo l’opinione di chi scrive, la complessa varietà semantica e la pluridimensionalità dell’idea del mangiare. Premettendone l’antica valenza di ‘prassi traslitteratoria’ del codice biologico interno in linguaggio simbolico esteriorizzato e non occultabile1, il mangiare trascende pertanto la dimensione del mero nutrimento, per divenire, tra l’altro, modalità di apertura al mondo e strumento di introiezione del reale2; oltreché veicolo di «collegamento […] sublime e potenzialmente rischioso […] con la natura3».

Il caratteristico oscillare tra animalità e civilizzazione del cibarsi, ne sottende il parallelo sbilanciamento tra fissità intrinseca e variabilità storico-culturale4, che si traduce in una serie di sistemi alimentari impostati secondo una più o meno rigida logica binaria, da cui infine emerge lo spazio del commestibile5; luogo di ideale creazione di cultura e sociabilità rappresentato dalle pratiche e dalle conoscenze condivise di una data collettività.

La cucina: emblema di civiltà, assume una valenza etica

La cucina, ad esempio, è emblema eloquente di civiltà, proprio perché fondata su una precettistica codificata atta a trasformare l’alimento grezzo e potenzialmente pericoloso in vivanda etichettata e dunque appetibile, permettendo al contempo di spiccare «un salto cognitivo dal crudo al cotto»6; equivalente ad un complesso e articolato processo di codificazione delle monocordi possibilità espressive della materia prima in una lingua regolata da una grammatica, intesa come luogo della mediazione simbolica e di ‘dialogo morale’ tra identità culinarie differenti7.
La cucina assume pertanto una valenza etica, che connette il buono al giusto e al sano, spostandosi infine dall’ambito della nuda tecnica al dominio dell’«arte di dar rilievo ai sapori con altri sapori»8; la quale concorre indubbiamente all’affermazione della ‘cultura del cotto’, soprattutto attraverso innaturali operazioni di trasformazione meccanica del cibo, che, così ‘processato’, smarrisce la sua identità originaria, riducendosi al contempo a mero articolo di commercio; inquadrato in una «logica distintiva», che valorizza non tanto le proprietà dell’oggetto quanto la sua possibile funzione di status symbol, evidenziata e talora esaltata dall’ingranaggio pubblicitario.

Una nuova «metafisica della fame» per l’Homo omnivorus postmoderno

Ne consegue un’esasperata voracità consumistica, associabile tuttavia a una nuova «metafisica della fame»9, ossia a un’inedita modalità interpretativa degli schemi di comportamento dell’Homo omnivorus postmoderno, che, quantunque ancora disponga di «un’attrezzatura mentale costruita per il mondo della fame»10, in realtà vive in un’epoca di sovrabbondanza; generatrice di una permanente angoscia alimentare fomentata altresì da un preoccupante e continuo scadimento qualitativo, che si riverbera sulle proprietà organolettiche e sui valori nutrizionali dell’alimento, avulso dalla realtà della terra e trasformato in complessa agglutinazione di sostanze chimiche; le quali talora rendono faticosamente accessibile la conoscenza del prodotto da consumare a tavola.11

Cibi trasgenici e gli OGM

Emblematici in tal senso sono i cibi transgenici e gli OGM, riconducibili a uno scenario alimentare artificioso, piuttosto lontano dai valori etico-ambientali e, anzi, ben allineato all’idea di riprogettazione tecnologica della natura, indicativa della già datata capacità umana di «modificare profondamente la catena alimentare che ci sostiene»12, pure attraverso la destrutturazione dei tempi e delle maniere del mangiare, ormai sottratti alla fissità oraria e alla disciplina del galateo nonché omologati ad una arbitraria libertà; corrispondente, in ultima analisi, a una dilagante semplificazione e a un continuo involgarimento dei costumi alimentari contemporanei.
L’indebolita funzione rituale e socializzatrice dello stare a tavola è molto probabilmente da ascriversi alla più generale deriva culturale e assiologica, così come alla colpevole amnesia delle proprie origini13; che certo concorrono a deprivare l’Homo edens contemporaneo di quel composto piacere di mangiare, previsto dall’originario concetto di dieta associato a un’arte del «ben vivere quotidiano».14

La progressiva evoluzione scientifica dell’idea di dieta e il suo conseguente specializzarsi in dietetica, presuppongono invece una sostanziale modifica dello statuto dell’alimento, sempre più circoscritto all’ambito chimico-biologico15 e sorretto dalla nozione di caloria; il che ha certo contribuito alla fuorviante sovrapposizione dell’ideologia nutrizionistica all’«arte» della nutrizione16, gradualmente degenerata in arida combinatoria di «invisibili» nutrienti, opportunamente bilanciati allo scopo di mantenere e di migliorare l’integritas corporis17; sottoposta anch’essa alla medesima procedura di scomposizione dell’intero nella somma delle sue unità, applicata al cibo.

Alimenti e medicinali si surrogano e si integrano nella dieta quotidiana

La medicina, d’altra parte, avalla la riduzione nutrizionistica dell’alimento alla sua struttura e alla caloria, condividendo inoltre con l’ambito alimentare il ricorso alla prescrizione, che quindi apparenta il medico al cuoco soprattutto mediante l’inedita categoria di ‘frontiera’ dei nutriceutici, sbilanciata infatti fra il mondo del cibo e il settore del farmaco; qui collegati in una nuova «area di sovrapposizione», culturalmente definita, dove alimenti e medicinali si surrogano e si integrano nella dieta quotidiana18; esaltando così l’attuale e sempre più salda interrelazione fra il mangiare e il benessere.

Il binomio piacere e salute

Esso, lungi dall’identificarsi — come viceversa accade in epoca contemporanea — con il salutismo, si qualificherebbe piuttosto come adesione responsabile a un modello alimentare non conflittuale, basato su una visione non moralistica ed equilibrata del binomio piacere-salute nonché altresì orientato verso il recupero dell’antico dialogo fecondo, favorito peraltro dall’impiego del medesimo linguaggio, tra «scienza dietetica» e «arte gastronomica»19.

Alla successiva divaricazione fra queste due realtà del palato, ormai opposte, è di fatto conseguito un costante restringimento semantico della nozione di dieta, progressivamente condensatasi e poi confluita nel ‘segno’ della bilancia; che, diminuendo il corpo a peso e l’esistenza a massa quantificabile, impone finalmente la sua legge della misura perfetta20, i cui contenuti tutti esteriori squalificano la persona a personaggio, a forma estroflessa dall’anima opaca.
L’odierno primato dell’immagine e della linea consacra l’inaudita estetica del corpo «descritto»21, ossia idealizzato dalla moda e dalla pubblicità, responsabile della distorsione, per scopi strumentali, dell’autentico valore del cibo e quindi della dieta; distorsione che di fatto non solo produce la «oggettivazione estrema» del corpo22  e la mesta «rinuncia al senso dell’io»23, ma si risolve pure nella sperimentazione acritica di formule di dimagrimento: testimonianza, da una parte, della volgarizzazione e del popolarizzarsi della conoscenza scientifica in campo alimentare24, dall’altra di un’inversione culturale circa il rapporto uomo-cibo, di cui è particolarmente sintomatica la «solitudine alimentare» dove volontariamente si esilia l’inquieto mangiatore postmoderno25.
Alla luce di tali considerazioni, si pone l’urgenza di ripensare il concetto di dieta in base a una nuova alleanza fra «razione e ragione»26, finalizzata a promuovere la cura del corpo e dell’anima; permettendo così la riscoperta dell’interiorità e dei valori ad essa associati, indispensabili per evitare di smarrirsi nella desolazione dell’apparire contemporanea27 .

Il profondo e variegato sostrato etico emergente dalla nozione di dieta, si dispiega più particolarmente e in tutta la sua complessità nel caso del consumo carneo, cui è d’altronde sotteso il problematico rapporto tra uomo e animale, a sua volta strettamente intrecciato alla ‘morale’ vegetariana.
Tale rapporto presuppone una considerevole distanza ontologica tra l’uomo e la bestia, volontariamente pensata, in questo caso, in termini di semplice mezzo di soddisfazione di un bisogno fisiologico28. Ciò trascina l’arbitrario misconoscimento della capacità dell’animale di sperimentare il dolore oltreché la deliberata violazione dei suoi diritti alla vita e alla libertà; spesso erroneamente intesi sia «in qualche modo antagonistici ai diritti degli uomini»29, sia non pertinenti al basilare «principio etico dell’uguaglianza»30; che, riconoscendo invece la comune animalità dell’uomo e della bestia, sembrerebbe comprovare l’esistenza di un «continuum» fra specie eterogenee, per le quali la vita, anche in ragione del suo grado di complessità biologica lungo la scala evolutiva, ha un valore diverso, crescente o decrescente31.

Il vegetarianesimo

Entro tale ottica di relativismo non soggettivistico s’inscrive dunque l’istanza di ampliare e di aggiornare l’orizzonte assiologico contemporaneo, seguita da una «conversione morale profonda»32, che generalizzi altresì una più spregiudicata concezione delle creature animali, peraltro già sostenuta dal vegetarianismo.

Questo sistema dietetico, almeno nelle sue versioni non integraliste, si regge infatti sul «criterio della necessità morale», che, subordinando il consumo carneo al solo bisogno umano di sopravvivere33, valorizza e promuove il diritto dell’animale alla vita, di cui rispetta allo stesso tempo la componente sensibile ed emotiva. Da questo punto di vista, il vegetarianesimo rinvierebbe, secondo l’opinione di chi scrive, a un’idea complessa di dieta, in cui l’aderire sistematico a un punto di vista etico «universale», cioè improntato al criterio dell’imparziale valutazione morale dell’umano e del non umano, si intreccia indissolubilmente ad una spiccata sensibilità ecologica e a un concetto della qualità della vita dove le ragioni dello spirito si armonizzano con quelle della corporeità.
Nonostante ciò, anche la logica vegetariana sembra privilegiare l’immagine di un corpo leggero e asciutto; vero e proprio vessillo della sindrome anoressico-bulimica, tesa però al dissolvimento del corpo pulsionale in una figura asessuata, disincarnata e atemporale, ovvero in una sorta di spoglia e delirante estensione geometrica di cui ogni prominenza è levigata fino all’appiattimento.
La «posizione […] antivitale»35 sottesa a questo processo di estremo prosciugamento fisico, implica oltretutto il più profondo ritrarsi della dimensione emotiva dell’anoressico-bulimico in un vuoto alternativamente inseguito e incarnato36, intimamente connesso con l’isolamento in una non vita sospesa ad occultati rituali, ossessivamente ripetuti tra la cucina e la stanza da bagno; luoghi di pena dove scorre il grigiore quotidiano di chi è affetto dai disturbi alimentari qui presentati.

La bulimia: «sorta di fallimento del progetto anoressico»

La bulimia, in particolare, in quanto «sorta di fallimento del progetto anoressico»37, configura il soccombere dell’io alla tentazione pulsionale, che innesca l’umiliante automatismo dell’abbuffata-evacuazione, responsabile della degradazione del corpo a un grosso «buco nero»38 da riempire e da svuotare, e del cibo a materia anonima destinata a trasformarsi nella massa informe del vomito: singolare modalità di conversione dell’infinito e autoreferenziale atto iperfagico in «passione per il vuoto»39 .
L’ideale inclinarsi verso la nullificazione dell’essere esprime, in definitiva, la volontà di commutare la «mancanza» in assenza, rovesciando conseguentemente l’odierna supremazia dell’impulso consumistico; che, fondato sul moltiplicarsi inestinguibile dell’insaziabilità, accomuna l’indifferenziata fagocitazione bulimica al trangugiamento sfrenato dell’obeso40.

La nozione contemporanea di obesità, inquadrandosi in una cornice multiprospettica descrive una problematica sfaccettata, che traduce uno stato bio-sociale soggettivo41 in «una complessa costruzione culturale, sovraccarica di un pesante bagaglio ideologico»42 ; oggi per lo più contrassegnato dal pregiudizio.

Visione preconcetta della grosseur:
conseguenze

Alla visione preconcetta della grosseur consegue sia l’inevitabile emarginazione dell’obeso, segnale dell’insofferenza collettiva verso chi ‘sporge’ dalla norma, sia l’impossibilità di apprezzare la profondità simbolica e antropologica del grasso: «invisibile» complemento di ulteriore specificazione dell’identità del singolo e della sua estensione nello spazio, nonché particolare medium di comunicazione con l’ambiente circostante43. Non solo, la presenza dell’adipe, evocatrice di quella del corpo44, adombra l’intimo linguaggio della sofferenza, ispirata dal conflitto tra essere e voler essere che dilacera l’obeso, nella cui massa corporea si realizza anche la coincidenza tra le opposte sollecitazioni mediatiche al piacere e al sacrificio o, più in particolare, fra il limitato e grave microcosmo corporale e l’assoluta e leggera libertà garantita dalla società consumistica contemporanea; la cui inedita, obliqua avversione per il cibo è smentita dall’ingordigia dell’obeso, che, simultaneamente, di quella conferma il pretenzioso messaggio di esuberanza e di vitalità universali.
Questa ambivalenza, radicata nella pinguedine, ne sottolinea peraltro il significato etico-simbolico di punto d’incrocio e di contrasto fra istanze materialiste e genericamente spirituali, oltreché di figura eloquente delle molteplici contraddizioni dell’epoca coeva; di cui la grassezza costituisce quindi una possibile chiave di lettura45.

Infine, proprio perché ipostasi dell’eccesso, l’obesità appare come ulteriore declinazione del profondo e generale squilibrio morale ed ontologico, rappresentato sia nel piccolo teatro del corpo soggettivo sia nel più ampio scenario della realtà storica del nostro tempo, per lo più sotto forma di discriminazione e di ostracismo sociali.
Pertanto, la cura e la prevenzione della grosseur non possono prescindere dall’accogliere la differenza e dal valorizzare la particolarità dell’uomo, rifiutando dunque l’omogeneizzazione dei valori e dei comportamenti collettivi a favore di una «giusta misura» personale43, in grado di abbattere l’imperante «fascismo del corpo»47 e di aprire un nuovo orizzonte antropologico; dove l’obesità si caratterizzerebbe come possibilità esistenziale spregiudicata, che alla destabilizzante pesantezza dello stare sostituirebbe finalmente l’inconcusso spessore dell’essere al mondo.

La serena accettazione della concretezza del corpo e delle sue intrinseche fragilità si embrica, in ultima analisi, all’emergenza di una rieducazione alimentare, la quale, congiungendo sapor et sapientia, conduca al conseguimento di un’autenticità esistenziale, volta all’assimilazione del senso e dell’essenziale delle cose alla luce dei valori umani; ciò che, in fondo, sostanzia il significato profondo del discorso bioetico, nel cui ambito, la crisi dell’Homo edens contemporaneo è da interpretarsi come l’esplicita manifestazione di un malessere ontologico non disgiungibile dal trionfo del cibo post-umano48, a sua volta foriero di un ordine altro dove la scienza spegnerà per sempre la vita49 e la sua sostanza etica in una prevedibile, piatta e amorale eternità senza scopo.


Bibliografia

1 TETI V.,  Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea, Meltemi, Roma 1999, p. 84. Sull’evidente intrecciarsi della «fisiologia e [del]l’immaginario […] nell’atto alimentare», si veda anche FISCHLER C., L’onnivoro. Il piacere di mangiare nella storia e nella scienza,  trad. it. Mondadori, Milano 1992, p. 6

2 BACHTIN M., L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, trad. it. Einaudi,Torino 1979, p. 307. Il ruolo primario dell’alimentazione come strumento di conoscenza e di assimilazione del mondo esterno è altresì sottolineato da BACHELARD G., La formazione dello spirito scientifico , trad. it. Raffaello Cortina, Milano 1995, p. 199

3 RAPPOPORT L., Come mangiamo. Appetito, cultura e psicologia del cibo, trad. it. Ponte alle Grazie, Milano 2003, p. 226. Sul rapporto tra uomo e natura istituito tramite il cibo: POULAIN J.P., Alimentazione, cultura e società, trad. it. Il Mulino, Bologna 2008, p. 37

4 BECCARIA G.L., Misticanze. Parole del gusto, linguaggi del cibo, Garzanti, Milano 2009, p. 94

5 POULAIN, Alimentazione cit., p. 182

6 RAPPOPORT, Come mangiamo cit., p. 152

7 MONTANARI G., Il cibo come cultura, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 153-154

8 CALVINO I., Sotto il sole giaguaro, in Ivi, Mondadori, Milano 1995. p. 44

9 TETI, Il colore del cibo cit., p. 56

10 MONTANARI, Il cibo come cultura cit., p. 97. Lo stesso concetto è espresso anche da FISCHLER, L’onnivoro cit., p. 5

11 TRÉMOLIÈRES J., L’uomo di fronte alle tecniche alimentari moderne, in BAROSCO B, MARCOLIN G., L’uomo e la nutrizione trad. it., Documentazione Scientifica Editrice, Bologna 1981, vol. I, p. 164

12 POLLAN M., Il dilemma dell’onnivoro, trad. it. Adelphi, Milano 2006, p. 17

13 TETI, Il colore del cibo cit., p. 107; BECCARIA, Misticanze cit., p. 72

14 TRÉMOLIÈRES J., VIGNE J., «Saper vivere», in BAROSCO, MARCOLIN, L’uomo e la nutrizione cit., vol. II, p. 173

15 TRAVIA L., Introduzione a BAROSCO, MARCOLIN, L’uomo e la nutrizione cit., vol. I, pp. 13-14

16 TRÉMOLIÈRES J., «La nutrizione oggi»,  in BAROSCO, MARCOLIN, L’uomo di fronte alle tecniche cit., vol. I, p. 136

17 POLLAN M., In difesa del cibo trad. it. Adelphi, Milano 2009, p. 38

18 LUPTON D., L’anima nel piatto, trad. it. Il Mulino, Bologna 1999, p. 53

19 MONTANARI, Il cibo come cultura cit., p. 69

20 CAMPORESI P., La terra e la luna. Alimentazione folclore società, Garzanti, Milano 1995, p. 350

21 CLERICI F., GABRIELLI F., VANOTTI A., Il corpo in vetrina. Cura, immagine, benessere, consumo tra scienza dell’alimentazione e filosofia, Springer-Verlag, Milano 2010, pp. 2, 9-10, 31

22 RAPPOPORT, Come mangiamo cit., p. 221

23 FERRARO G., «L’universo alimentare e i suoi regimi discorsivi», in BRUGO I. et al., Al sangue o ben cotto, Meltemi, Roma 1998, pp. 36

24 LUPTON, L’anima nel piatto cit., p. 127

25 TETI, Il colore del cibo cit., pp. 44, 73

26 FISCHLER, L’onnivoro cit., p. 258

27 RUSSO G., Bioetica medica. Per medici e professionisti della sanità, Cooperativa S. Tommaso–Elledici, Messina-Torino 2009. p. 270

28 SINGER P., «Tutti gli animali sono uguali», in REGAN T., SINGER P., Diritti animali, obblighi umani, trad. it. Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987, p. 157

29 SALT H., «I diritti degli animali» in REGAN T, SINGER P. Diritti animali cit., p. 178

30 SINGER, «Tutti gli animali» in REGANT T., SINGER P. Diritti animali  cit., p. 151

31 Ivi, p. 160; COETZEE J.M., La vita degli animali, trad. it. Adelphi, Milano 200, p. 78

32 SCHLEIFER H., «Immagini di vita e di morte», in SINGER P. (ed.), In difesa degli animali, trad. it. Lucarini Editore, Roma 1987, p. 90

33 RUSSO, Bioetica medica cit., p. 275

34 SINGER P., Etica pratica, trad. it. Liguori, Napoli 1989, p. 22

35 RECALCATI M., ZUCCARDI MERLI U., Anoressia, Bulimia e Obesità, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 28

36 MELUZZI A., Introduzione a ID. (ed.), Un male perbene. Anoressia-bulimia. Dipendenze alimentari, Omega, Torino 1998, p. 9; RECALCATI M., L’ultima cena: anoressia e bulimia, Paravia-Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 42

37 RECALCATI, ZUCCARDI MERLI, Anoressia cit., p. 28

38 DE CLERCQ F., Tutto il pane del mondo, RCS Sansoni, Firenze 1992, p. 105

39 RECALCATI, L’ultima cena cit., pp. 30, 59

40 RECALCATI, ZUCCARDI MERLI, Anoressia cit., pp. 14-15, 29

41 APFELDORFER G., Mangio, dunque sono. Obesità e anomalie nel comportamento alimentare, trad. it. Marsilio, Venezia 1993, p. 57

42 GORDON R., Anoressia e bulimia. Anatomia di un’epidemia sociale , trad. it. Raffaello Cortina, Milano 1991, p. 99

43 RUSCITTO R., «Il mito della “giusta” alimentazione»,  in ANTOMARINI B., BISCUSO M. (edd.), Del gusto e della fame. Teorie dell’alimentazione, Manifestolibri, Roma 2004, p.170; KLEIN R., È tutto grasso che vola. Elogio dell’opulenza , trad. it. Feltrinelli, Milano 1998, pp. 37, 65, 100, 102

44 Ivi, p. 36

45 RIVA F., L’obesità il corpo e l’altro, città Aperta Edizioni, Troina 2007, pp. 9,17, 21, 32

46 BRUCH H., Patologia del comportamento alimentare. Obesità, anoressia mentale e personalità, trad. it. Feltrinelli, Milano 2000, p. 504; RECALCATI, ZUCCARDI MERLI, Anoressia cit., p. 8; RIVA, L’obesità cit., p. 41

47 LEITH W., Fuori pasto, trad. it.Sperling & Kupfer, Milano 2005, p. 259

48 FORD B., Nel piatto. Salute, sicurezza e futuro del cibo, trad. it. Edizioni Ambiente, Milano 2002, p. 105

49 MC LUHAN M., Gli strumenti del comunicare, trad. it. EST, Milano 1997, pp. 48, 51; BOURRE J.M., La dietetica del cervello, trad. it. Sperling & Kupfer, Milano 1999, p. 40

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