L’evoluzione delle cure palliative: le motivazioni etiche
dott. Mauro Trioni
L’obiettivo di tale intervento è di illustrare e condividere riflessioni nate dall’esperienza quotidiana sulle cure domiciliari e palliative dove emerge la fondamentale necessità di utilizzare principi bioetici sia negli hospice ma soprattutto a casa della persona morente, considerando il notevole sviluppo organizzativo della palliazione ma anche lo sviluppo delle tecniche antalgiche e delle terapie farmacologiche.
Deve far riflettere che già nel 1997 il premio Nobel Rita Levi Montalcini dichiarava:«Oggi un numero in continuo crescendo di persone in età avanzata affronta nella solitudine e senza la necessaria assistenza le sofferenze conseguenti a malattie di natura neoplastica, degenerativa e cardiocircolatoria nella fase finale della vita». Certo in questi ultimi sedici anni la situazione assistenziale è sicuramente migliorata grazie anche allo sviluppo delle cure domiciliari ed in particolare palliative che sono definite dall’O.M.S. come
un approccio che migliora la qualità della vita dei malati e delle loro famiglie che si trovano ad affrontare le problematiche associate a malattie inguaribili, attraverso la prevenzione e il sollievo della sofferenza, per mezzo di un’identificazione precoce e di un ottimale trattamento del dolore e delle altre problematiche di natura fisica, psicosociale e spirituale.
Nella cultura medica e sociale tale definizione è sconvolgente ma talvolta non compresa appieno: si passa dal concetto di quantità di vita al concetto di qualità di vita residua; un passaggio con fortissime implicazioni etiche e comportamentali con complessa e talvolta sofferente applicazione anche da parte degli operatori, sanitari e non, preposti.
L’esperienza professionale con le cure palliative obbliga a porsi alcune domande con forti implicazioni etiche:
– la rete dei servizi sanitari (eventualmente anche sociali) è stata adeguata?
– era corretto prendere il paziente in cure palliative?
– quale doveva essere il ruolo del medico di medicina generale, del medico delle cure domiciliari del distretto, del palliativista, degli specialisti, del personale infermieristico?
– le informazioni sono state chiare ed esaustive?
– la famiglia è stata sostenuta nel percorso della sofferenza?
– sono state prese decisioni considerando la persona oppure il budget economico?
– il personale è stato sufficientemente formato e tutelato?
Per meglio illustrare le varie problematiche è opportuno schematizzare il percorso delle cure palliative in:
1. la presa in carico
2. il progetto assistenziale
3. la Fine
La presa in carico
Per garantire setting adeguati della persona malata occorre definire modelli organizzativi chiari e condivisi anche con gli ospedali e monitorare costantemente i processi attraverso verifiche puntuali in itinere. È anche dovere etico dell’organizzazione di cure palliative, ma non solo, garantire l’equità delle prestazioni, la trasparenza, la competenza e soprattutto prioritariamente evitare l’abbandono del paziente.
Per farsi carico di questa organizzazione è opportuno attivare un’unica porta di accesso al sistema di cure domiciliari con funzione di accoglienza, decodifica della domanda, rilevazione dei bisogni, facilitazione e semplificazione dell’accesso ai servizi.
La dimissione protetta si pone i seguenti obiettivi:
– Ridurre la durata della fase di ricovero ospedaliero
– Contenere i ricoveri incongrui
– Creare una stretta interrelazione tra la fase ospedaliera e la fase di reinserimento nel territorio, rendendo le due funzioni più flessibili e integrate
– Promuovere attività congiunte tra personale socioassistenziale e sanitario ospedaliero e del territorio
È opportuno che anche il reparto ospedaliero, dopo la cura, “si prenda cura” del paziente; la dimissione difficile deve avvenire sempre e solo se vi è la certezza dell’attivazione delle cure domiciliari ma troppo spesso assistiamo a fenomeni di dimissione indiscriminata dove la dimissione magari il venerdì pomeriggio è spesso legata a necessità di turn over di letti o superamento di DRG.
Ma vero strumento etico che garantisce una corretta presa in carico è la valutazione multidimensionale della persona. L’adozione di un sistema di valutazione multidimensionale condiviso, favorisce l’equità, la trasparenza dell’intervento di cure domiciliari e soprattutto la loro personalizzazione e permette che gli operatori parlino la stessa lingua pianificando gli interventi personalizzabili.
Una valutazione multidimensionale adeguata deve avere alcuni requisiti fondamentali:
– deve essere una valutazione multidimensionale e multidisciplinare dello stato funzionale della persona e della sua situazione sociale ed abitativa
– deve prevedere l’utilizzo di griglie valutative standardizzate ed omogenee
– deve essere finalizzata alla stesura di piani personalizzati di assistenza
– deve essere ricondotta all’individuazione di un responsabile operativo sanitario o sociale del caso nell’ambito dell’équipe assistenziale
Da quanto sopra deriva che è basilare il miglioramento e la concreta realizzazione dell’integrazione ospedale/territorio, nonché delle pratiche e degli strumenti per la valutazione “precoce” del paziente, in una prospettiva multidimensionale che consideri tutti gli aspetti che possono influire sull’esito del percorso assistenziale. Purtroppo si assiste ancora a dimissioni selvagge di pazienti magari anche per scelta del paziente stesso dove la presa in carico viene fatta in tempi non adeguati ed in qualche modo non usufruendo delle potenzialità di aiuto che le cure domiciliari avrebbero potuto dare.
Il progetto assistenziale
L’umanizzazione delle cure è l’attenzione alla persona nella sua totalità, fatta di bisogni organici, psicologici e relazionali . Le crescenti acquisizioni in campo tecnologico e scientifico, che permettono oggi di trattare anche patologie una volta incurabili, non possono essere disgiunte nella quotidianità della pratica clinica dalla necessaria consapevolezza dell’importanza degli aspetti relazionali e psicologici dell’assistenza.
Anche nell’assistenza domiciliare pur con utilizzo di tecnologie meno invasive ovviamente rispetto all’ambiente ospedaliero bisogna porsi il problema della possibile disumanizzazione delle cure in particolare prestando attenzione ad almeno tre fattori:
a. Lo sviluppo del progresso scientifico e tecnologico che anche nelle cure domiciliari invita all’effettuazione di terapie molto complesse, talvolta poco utili, che in qualche modo limitano la dignità della persona umana, spesso ai confini dell’accanimento terapeutico
b. Il progressivo deteriorarsi del rapporto tra medico e paziente con il venir meno talvolta della fiducia reciproca
c. Una crescente limitazione delle risorse economiche sanitarie per cui sempre più l’organizzazione delle cure domiciliari tra i tanti elementi su cui deve basare le proprie scelte ed indicazioni diagnostico/terapeutiche, deve tener conto della limitazione della spesa e ad esserne sempre maggiormente condizionata (es. le dimissioni selvagge dagli ospedali con percorsi di cura incompleti magari per liberare letti o superamento del DRG relativo)
La risposta a questi rischi è la stesura e l’applicazione di un progetto assistenziale che possa permettere agli operatori domiciliari di applicare almeno questi concetti etici:
– saper ascoltare la persona sofferente, i suoi bisogni, il suo mondo, la sua cultura, il suo credo religioso, occorre essere capaci di ascoltare anche ciò che l’altro non dice
– la comprensione (far capire alla persona ammalata che è uno di noi)
– la compassione (far capire alla persona malata e alla famiglia che capiamo la sofferenza presente)
– la sincerità e la chiarezza comunicativa
E proprio il rapporto con i famigliari che diventa fondamentale per un positivo percorso di cure domiciliari. Si tratta di una presenza con cui la realtà sanitaria deve necessariamente confrontarsi. Troppe volte vengono trascurati i diritti e i doveri dei famigliari, che diventano fondamentali per un efficace progetto assistenziale domiciliare; se la famiglia non è pronta, preparata o pone espliciti rifiuti la cura non potrà essere adeguata e comunque sarà sempre percepita negativamente. In questo contesto la scienza del “Caring” in continua evoluzione può certamente dare un importante contributo.
E quando l’operatore entra a casa del paziente giunto alla fase terminale della vita spesso viene coinvolto nei tanti interrogativi che un malato pone. Prima e grande domanda che l’individuo si pone in questa circostanza è: perché proprio a me? Ancora, forse più forte è la domanda: esiste un’altra vita oltre la morte? Ne La morte di Ivan Il’iĉ di Lev Tolstoj si legge: «[…] In fondo all’anima sapeva, sapeva che stava morendo, però non soltanto non s’era abituato a questa idea, ma non capiva neppure, in nessun modo poteva capire una cosa simile.» Come si vede al di là dei mutati contesti storici e culturali, l’atteggiamento del malato di fronte alla morte, non si è modificato molto. Ma gli interrogativi che riguardano il malato terminale si pongono oltre che agli operatori anche ai suoi famigliari e agli amici.
L’esperienza lavorativa ci mostra che ci possono essere mille reazioni davanti alla malattia grave e giostrare la situazione è molto difficile, ma tutto consiste in un buon dialogo tra medico e paziente, tra parenti e paziente, tra medico e parenti e tra pazienti e infermieri.
Si tratta ad esempio di spiegare in maniera chiara e comprensibile, e anche dopo aver esposto cos’è la malattia, bisogna capire la reazione del paziente ed intervenire non lasciandolo solo.
Bisogna stabilire un rapporto personale positivo e accettare e capire bene ogni tipo di reazione. Conseguentemente occorre al paziente che è sofferente o in fase terminale della sua malattia favorire momenti di sostegno e di accoglienza della sofferenza e della morte, in quanto la salute e la malattia e la morte sono elementi costitutivi della finitudine umana. Sono parte della nostra vita, occorre conoscerli e comprenderli, accettarli-accoglierli, anzi renderli più umani attraverso una presenza umana più attenta e premurosa sia dei familiari che degli operatori sanitari che si adoperano con le loro prestazioni assistenziali, terapeutiche (cure palliative) ad alleviare la sofferenza (la presenza dei familiari o degli operatori sanitari diventa ascolto e terapia) essenziale per rendere l’evento morte meno doloroso possibile e più naturale.
Ma nella attuale organizzazione sanitaria il supporto religioso domiciliare a carico del SSN non è contemplato esistendo solo il cappellano ospedaliero e l’assistenza spirituale è affidata alle comunità parrocchiali talvolta senza una adeguata pastorale della salute. Inoltre inizia ad esserci la richiesta di sostegno spirituale anche da persone di religioni non cattoliche che amplifica il problema.
Occorre anche che gli operatori domiciliari sempre più si rendano conto che ogni ammalato è una persona diversa soprattutto considerando anche la specifica realtà domiciliare. Tenere conto delle differenze individuali è la prima delle condizioni che bisogna soddisfare quando ci si accosta ai malati per assisterli sia dal punto di vista clinico che soprattutto da quello psichico.
L’errore che si commette più spesso da parte di medici e infermieri, è quello di considerare pressoché tutti uguali gli ammalati e di trattarli tutti allo stesso modo, attribuendo ad ognuno un certo modo di sentire, di pensare, di reagire alla malattia. È sicuramente una modalità di cura apparentemente più semplice ed in qualche modo legata a meccanismi di difesa (la routine protegge ma alla fine distrugge).
Gli operatori domiciliari devono confrontarsi con le reazioni psicologiche del malato di fronte alla malattia (ad es. la reazione al dolore fisico, la paura dell’ignoto, la regressione nella passività, la depressione psichica, la negazione della malattia) ma anche con le reazioni dei famigliari. Riconoscerle per tempo è molto importante perché aiuta a comprendere il significato di certi comportamenti e mette gli operatori in condizione di meglio aiutare a fronteggiare la malattia nel modo più appropriato e più maturo.
Aggiungo che bisogna fare i conti non soltanto con la reazione psichica, ma anche con i problemi reali che la malattia non raramente fa nascere: problemi di lavoro, di famiglia, di vita sociale e non è semplice.
Sicuramente la famiglia è un punto critico delle cure domiciliari nel progetto assistenziale perché attraverso il malato tutta la famiglia è interessata alla malattia. È evidente, quindi la reciprocità delle reazioni del malato e della famiglia vicendevolmente contagiati. I famigliari proprio perché presi dall’affetto e dall’amore verso il proprio congiunto, talvolta cadono nella trappola di considerare prioritario il proprio dolore, da non considerare bene il dolore, la rabbia e la solitudine del malato o delle altre persone vicine.
Estremamente delicate al riguardo sono le situazioni di cure a pazienti gravi in presenza di figli piccoli o adolescenti. A tale proposito esistono esperienze interessanti quali ad esempio il «Progetto famiglie fragili» sviluppato con l’associazione Samco, Faro, AslTo4 e i servizi sociali che prevede l’individuazione e la presa in carico con sostegno anche psicologico delle famiglie di pazienti terminali con la presenza di figli minorenni.
Il modello penso vincente nelle cure domiciliari è il lavoro d’équipe, lavoro condiviso ma rispettoso delle singole professionalità, dove ogni figura professionale è importante ed ognuno per la propria parte contribuisce al mantenimento al domicilio del paziente. E per il medico di medicina generale, attualmente il “regista” delle cure domiciliari, è indispensabile, come afferma E. Sgreccia che «sappia intuitivamente che avvicinandosi al corpo del malato, in realtà si avvicina alla persona e che il corpo del malato non è propriamente oggetto dell’intervento medico e chirurgico, ma è soggetto».
La figura del volontario è il ruolo emergente che comincia ad acquisire nell’ambito delle cure domiciliari palliative ma non solo, una importanza sempre maggiore, e ciò richiede quindi un momento di maggior riflessione sulla sua identità e soprattutto sulla sua formazione. Il volontario è una figura nuova e utile perché egli può fungere da mediatore tra il paziente e il medico, può aiutare e sostenere la famiglia anche per questioni molto pratiche ma fondamentali (ad es. fare la spesa).
Purtroppo la mancanza di formazione e talvolta di selezione adeguata del volontario può causare anche effetti negativi non solo sul malato ma anche al volontario stesso. La regola aurea che deve guidare l’operatore dell’équipe delle cure domiciliari potrebbe essere quello di comportarsi con il paziente come si vorrebbe che gli altri facessero con lui stesso, cioè cercando di immedesimarsi nella condizione del malato e dei suoi famigliari anche se è opportuno ricordare sempre i desideri della persona; può essere utile G.B. Shaw: «Non fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te: potrebbero avere gusti diversi».
L’informazione ed il consenso
Un altro importante interrogativo posto al malato in cure domiciliari è quello che riguarda l’informazione e il consenso. Occorre quindi esaminare brevemente quali debbano essere i contenuti indispensabili da trasmettere affinché il consenso possa dirsi realmente “informato”: scopi dell’intervento medico, descrizione della procedura, prevedibili effetti collaterali, eventuali alternative, esito in caso di dissenso.
Per questo andrebbero riviste le modalità di richiesta del consenso a tale fascia di pazienti, facendo in modo che siano sempre presenti famigliari nel momento informativo che precede il consenso, anche al di fuori della situazione legale di incapacità. Inoltre è importante non sottovalutare che l’imperativo etico deontologico per il personale medico è quello di sforzarsi il più possibile per annullare le componenti di questa incompletezza nell’informazione, per la parte che riguarda la propria condotta professionale. E condizione necessaria risulta essere anche quella di «non sottovalutare il paziente ritenendolo sempre e comunque incapace di sostenere una prognosi infausta, dall’altro senza sopravvalutarlo pensando che in ogni caso possa trovare in sé le risorse per fronteggiare la sua malattia».
Nella mia esperienza si utilizza una cartella sanitaria domiciliare contenente anche un documento (in fase di rielaborazione) dove il progetto assistenziale viene condiviso con i famigliari, il malato e l’équipe domiciliare con indicati gli obiettivi assistenziali, chi fa e che cosa e la durata presunta delle cure domiciliari. Sono documenti che rimangono a casa del paziente e sottoposti a verifiche periodiche.
La Fine
Compito delle cure domiciliari/palliative spesso sottovalutato è l’aiuto della famiglia nell’elaborazione del lutto. È un compito difficile nel quale spesso gli operatori non hanno adeguata formazione ed è affidato anche alla sensibilità dei diversi operatori. Una esperienza positiva è la visita di cordoglio che viene fatta qualche giorno dopo il decesso del paziente e questa esperienza rafforza la convinzione circa l’opportunità che un’équipe di cure palliative debba prendersi cura e farsi carico non solo del malato ma di tutto il sistema famigliare con i suoi bisogni e le sue ansie, aiutando i famigliari ad accettare e ad affrontare la perdita del proprio caro.
E spesso anche gli operatori rimangono distrutti dal decesso di una persona che seguivano magari da mesi instaurando profondi rapporti umani che soprattutto al domicilio si possono costruire. Non posso dimenticare gli sguardi e le lacrime di infermieri quando ritornavano dal domicilio dove era deceduta la persona che avevano curato da mesi. Ma ho anche provato la rabbia dei famigliari che si arrabbiavano con il servizio di cure domiciliari dopo la morte del congiunto, additando le motivazioni più futili. Occorre quindi che l’operatore delle cure domiciliari diventi professionista anche nel capire il lutto, conscio che ogni lutto è diverso per qualità, intensità e durata delle reazioni emozionali, ma a tutte le persone richiede tempo e un vero e proprio lavoro per elaborarlo.
È specialmente nella prima fase dell’elaborazione del lutto l’operatore delle cure domiciliari ha un ruolo fondamentale di aiuto alla famiglia talvolta facendole semplicemente percepire la vicinanza emotiva e soprattutto riuscire a capire il lutto. Il concetto che però deve essere esplicitato anche per gli operatori è “cercate aiuto quando ne avete bisogno”. Ecco quindi l’operatore che ha letto correttamente il lutto può dare consigli utili ai famigliari ed agli altri colleghi di équipe tra cui sebbene poco usata indirizzare i famigliari ai centri di ascolto presenti nelle varie realtà cittadine.
LA CARTA DEI DIRITTI DEL MORENTE (Fondazione Floriani 1999)
È opportuno che almeno gli operatori conoscano i principi della Carta dei diritti del Morente: Il morente ha diritto, negli ultimi istanti della vita, di essere considerato persona sino alla morte.
1. Ha il diritto di essere informato, se lo desidera, sulle sue condizioni
2. Ha il diritto di non essere ingannato e di ricevere risposte veritiere
3. Ha il diritto di partecipare alle decisioni che lo riguardano e al rispetto della sua volontà
4. Ha il diritto a trattamenti che lo sollevino dal dolore e dalla sofferenza
5. Ha il diritto a cure e assistenza continue, nell’ambiente desiderato
6. Ha diritto di non subire trattamenti che prolunghino l’attesa della morte
7. Ha il diritto di esprimere le proprie emozioni
8. Ha il diritto all’aiuto psicologico e al conforto spirituale, secondo le sue convinzioni e la sua fede
9. Ha il diritto alla vicinanza dei suoi cari
10. Ha il diritto a non morire nell’isolamento e nella solitudine
11. Ha il diritto di morire in pace e con dignità
Per concludere si può affermare che le cure palliative con la loro costante evoluzione sono un’attività in cui l’applicazione di principi bioetici è fondamentale per intraprendere il percorso, non solo di cura, ma anche di reciproca crescita umana tra sofferente, famiglia ed équipe assistenziale, ricordando che il soggetto fondamentale di questa relazione è la persona sofferente attorno alla quale tutti gli attori devono ruotare con profonda umiltà e consapevolezza dei valori bioetici.
© Bioetica News Torino, Novembre 2013 - Riproduzione Vietata