Ho due figli che all’epoca delle prime chiusure dovute al COVID-19, quelle più severe, marzo/aprile 2020, avevano rispettivamente 10 (il maschio) e 12 anni (la femmina), entrambi con settimane scandite, sino a quel momento, da numerosi appuntamenti ed occasioni di incontro e di svago, oltre alla scuola: catechismo, calcio, nuoto e danza, Scout, le prime uscite con amici e compagni di classe, incontri in famiglia ed altro ancora.
Dopo le prime due settimane, dove la nuova situazione poteva anche essere intesa come un periodo inatteso di vacanza, l’inattività forzata ha poi iniziato a presentare i suoi problemi, mentre cresceva la consapevolezza della gravità della situazione attraverso la visione dei telegiornali e il dialogo con me e mia moglie.
Tutto ciò che era fatto insieme, di persona, trovandosi e condividendo spazi ed azioni, luoghi, sforzi e risultati, da un giorno all’altro, non è più stato possibile. Quel clima di libertà di azione e di incontro (compatibilmente con le regole dettate dai genitori, non sempre ascoltate però…) nel quale i nostri giovani hanno vissuto da sempre, è stato sostituito dal divieto assoluto di uscire di casa, se non per giustificati e gravi motivi.
Ogni tipo di attività fisica e sportiva di gruppo e fuori casa è diventata impossibile, creando una inedita situazione di sedentarietà e “stallo”. La didattica è diventata a distanza, i compagni ed i docenti mediati da un PC che non tutti avevano, per il quale non tutti erano attrezzati, anche economicamente.
La prospettiva di uno sviluppo lineare a regolare la propria esistenza, in cui poter realizzare i propri desideri ed aspettative, ha subito una severa ed improvvisa interruzione mettendone in dubbio la reale possibilità di concretizzazione.
Alcune difficoltà
A due anni dal lockdown, sono tre in particolare le problematiche che vorrei sottolineare, dettate dalla esperienza personale di genitore.
La prima, riguarda certamente l’obbligata sedentarietà ed inattività. Quelle energie che venivano riversate con gratificazione ed impegno nell’attività fisica, nello sport e nella danza non hanno più trovato sfogo rendendo i ragazzi nervosi, a volte influendo anche sulla qualità e la durata del sonno e dell’appetito.
Un altro disagio piuttosto forte riguarda la qualità della didattica. Se è vero che la DAD ha permesso il mantenimento delle lezioni in un contesto emergenziale, è pur vero che alcuni disagi (perdite frequenti di connessione, maggiori possibilità di isolamento e distrazione, minore possibilità di interazioni con i docenti) hanno influito negativamente sulla qualità dell’apprendimento e dell’insegnamento che, non per colpa dei docenti, non sempre è stata soddisfacente per tutti gli allievi a causa dell’inefficacia di un modello di didattica basato solo sulla trasmissione passiva e non sulla naturale interattività che deve contraddistinguere le dinamiche sottese all’insegnamento. Questo naturalmente ha creato in alcune casi anche serie lacune nelle conoscenze acquisite e nelle capacità di relazione e di verbalizzazione dei vissuti.
Infine, vi è uno strascico abbastanza forte lasciato dalla pandemia; certamente avrà influito la nostra ormai innata tendenza di genitori ed adulti a proteggerli dalle difficoltà e dai problemi, e quindi magari sono arrivati ad affrontare la situazione piuttosto impreparati, ma mi sembra che nei giovani permanga più a lungo un senso di precarietà e di incertezza, una difficoltà a ricostruire una esistenza che riparta dai desideri e dalle speranze tipiche della loro giovane età.
Mi pare si siano dimostrati in grado di recuperare l’immediato (uscite con amici, svago etc.) ma mi sembra abbiano meno strumenti per recuperare le prospettive sul medio/lungo periodo: in questo il nostro ruolo di adulti può risultare fondamentale.
© Bioetica News Torino, Maggio 2022 - Riproduzione Vietata