Esiste la solitudine come situazione peculiare del medico, oppure, manifestandosi in modi diversi ed avendo cause diverse, è una situazione sperimentabile da ogni essere umano?
La risposta è ovvia: sicuramente ogni uomo sperimenta la solitudine perché questa è uno stato d’animo soggettivo e quindi, anche se indotto da fattori esterni, si esprime in maniera diversa in ogni singola persona. Anche il medico ha la sua solitudine che, fatti salvi i fattori soggettivi, analizzabili solo individualmente, può avere delle motivazioni oggettive, esterne, che, proprio per questo, possono essere valutabili.
La professione medica ha subito radicali cambiamenti determinati, a mio parere, dalla evoluzione e quindi dal ruolo che la tecnica ha, e continua ad avere, in campo medico. A cominciare dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso, e con un crescendo tumultuoso, i mezzi diagnostici e le tecnologie interventistiche hanno determinato un cambiamento radicale dei sistemi di cura e, di conseguenza, del rapporto medico-paziente.
Basti pensare ai mezzi diagnostici ora disponibili, TAC, RMN, Ecografie ecc., nonché ai trattamenti mininvasivi, endoscopici e di radiologia interventistica ecc., che hanno determinato sia un cambiamento della semeiotica medica che un approccio sempre più accurato e preciso, acuendo la concezione settoriale della medicina propria della nostra cultura occidentale.
Contemporaneamente, la diffusione dei mezzi di comunicazione, la facile accessibilità a notizie mediche, con le conseguenti difficoltà e distorsioni interpretative, la liberalizzazione della propaganda medica soprattutto via internet, hanno determinato una spersonalizzazione del rapporto medico-paziente.
A riprova ed in concomitanza con tale cambiamento anche la terminologia è mutata ed il paziente è divenuto utente. Sebbene il termine non abbia avuto successo e la parola “paziente” continui ad essere ampiamente usata, il rapporto medico-paziente è comunque cambiato passando da fiduciario a contrattuale. Vale la pena di ricordare che in passato il primo tipo di rapporto sfociava facilmente in paternalismo, con derive a volte autoritarie e arroganti, mentre il secondo ha dato ampia stura a conflittualità e contenziosi il più delle volte velleitari.
Sicuramente la solitudine del medico oggi è acuita e indotta dalla sensazione di essere sotto esame e che il suo operato debba essere sottoposto a verifica. Raramente ciò raggiunge manifestazioni esplicite, ma ultimamente ha avuto anche episodi violenti. Un esempio su tutti, che mette in evidenza la sfiducia non solo verso il medico, ma verso tutta la comunità scientifica, è il movimento NoVax.
Questo pensiero diffuso crea, anche se inconsciamente, un senso di solitudine nel paziente perché bombardato da tante notizie, sovente false, e portato a credere che qualsiasi patologia debba avere una soluzione (complice di questa mentalità è anche la sciagurata espressione “diritto alla salute”, mentre dovrebbe essere “diritto alle cure”) è indotto ad un sentimento di sfiducia. La situazione che ho descritto presenta delle varianti che però sono legate più a sensibilità individuali che a mentalità diffusa.
Vi sono segnali che indicano inequivocabilmente che l’esigenza di un rapporto diverso, né paternalistico né contrattuale, è ben viva. Ne è prova il successo della medicina non convenzionale, con alcune esasperazioni deleterie quali ad esempio il metodo DiBella, che sono indicatori dell’esigenza di un coinvolgimento psicofisico completo da parte del paziente guidato ed accompagnato dal medico.
Si tratta di passare non ad un altro tipo di medicina, ma di riscoprire l’importanza della relazione come momento di cura e, direi, di sostituire alla espressione, a mio parere un po’ enfatica, “mettere il malato al centro”, quella di stare insieme, medico e paziente, nel momento della malattia.
© Bioetica News Torino, Luglio 2020 - Riproduzione Vietata