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L’Alzheimer diventa un’emergenza ma la Sanità non se n’è accorta

08 Ottobre 2015

Il Piano nazionale per le demenze è rimasto in larga parte lettera morta. Così adesso molte famiglie sono costrette all’assistenza “fai da te”.

Il futuro è nelle mani dei bambini. «Sta a noi adulti far capire loro che si può giocare e ridere assieme al nonno malato di Alzheimer», dice Marco Trabucchi, ordinario di neuropsicofarmacologia all’Università di Roma Tor Vergata e direttore del gruppo di ricerca geriatrica di Brescia.

Serve il contributo di tutti per aiutare gli oltre 1,2 milioni di italiani colpiti dalla più diffusa forma di demenza senile. A causarla – spiega Claudio Mariani, docente di neurologia all’Università Statale di Milano – «è la perdita di neuroni in diverse aree della corteccia cerebrale: il deficit di autonomia nelle attività parte da qui». Il tunnel, per chi ci entra trascinando con sé la famiglia, è senza uscita. Nessuna cura risolutiva è dietro l’angolo. Ecco perché non si esagera, quando si parla di un’emergenza di salute pubblica: nel mondo ci sono 46,8 milioni di persone affette da una forma di demenza e la cifra è destinata a raddoppiare ogni 20 anni. Ritmo di crescita: una nuova diagnosi ogni 3,2 secondi. Ma finora in pochi hanno guardato negli occhi la realtà.

LE RESPONSABILITÀ. Il Piano Nazionale Demenze è stato approvato l’anno scorso. Nel documento sono inserite le indicazioni per migliorare le cure e l’assistenza: agli anziani e ai parenti. Ma l’autonomia delle singole Regioni in materia di spesa sanitaria ha fatto sì che, finora, solo in poche aree i propositi siano stati tradotti in azioni. «Oltre le buone intenzioni, lo Stato non è andato – denuncia Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia -. Nessun fondo è stato stanziato per supportare i malati. Così molte Regioni, chiamate a tenere i conti in ordine, hanno dato la priorità ad altre esigenze». Mentre il Sud indossa la maglia nera, al Nord alcune realtà si sforzano di rimanere sulla scia dei modelli tracciati all’estero. Ma verso quali approdi mira un Paese che tollera malati di «serie A» e «serie B»?

A CASA O IN RESIDENZA?. La quotidianità è riconoscibile nel Mezzogiorno dall’espansione della comunità delle badanti e al Nord dal ricorso alle residenze sanitarie assistenziali (Rsa): sono al momento l’unica soluzione che garantisce una boccata di ossigeno ai parenti, quando l’Alzheimer diventa incompatibile con l’autonomia. «Viviamo in uno Stato che ha preferito il “fai-da-te”: riconosce in maniera diffusa pensioni e indennità, ma lascia alle famiglie l’onere di gestire una malattia che toglie energia ogni giorno», dichiara Nicola Ferrara, ordinario di medicina interna e geriatria all’Università Federico II di Napoli e presidente della Società di Gerontologia e Geriatria.
Ma un posto in una Rsa – quasi sempre strutture private convenzionate – può costare anche 2 mila euro al mese. Altrettanti, per paziente, ne spende ogni Regione. Conta quasi nulla, dunque, una sentenza della Cassazione – la 4558 del 2012 – che, richiamando il diritto alla salute, prevedeva che assistenza e prestazioni sanitarie fossero a carico del Servizio sanitario. In queste strutture, dove il malato può rimanere per il resto dei suoi giorni, gruppi di specialisti lavorano a tutela del benessere dell’anziano. «Si svolgono attività in giardino e si organizzano colloqui individuali e letture – racconta Marika Le Penne, assistente sociale all’Istituto Geriatrico Golgi di Abbiategrasso -. Abbiamo di fronte degli esseri umani e ogni giornata vissuta al loro fianco è unica. Le reazioni di queste persone sorprendono anche noi».

CITTÀ SU MISURA. C’è chi si sforza di garantire assistenza al malato e sollievo alle famiglie, quando la demenza diventa incompatibile con l’autonomia. Ma l’Italia – nonostante conti quasi 150 «Alzheimer Caffè», in cui ammalati, parenti e assistenti sociali si incontrano per dare sfogo all’esperienza – ha ancora molta strada da percorrere per avvicinarsi ai modelli in nei Paesi Scandinavi o in Giappone.
Partendo dai piccoli Comuni, l’obiettivo è costruire della «città solidali» – chiosa Trabucchi -. Il primo passo è l’educazione nelle scuole. Il secondo deve puntare a coinvolgere la società: forze dell’ordine, commercianti, uffici pubblici. «Occorre spiegare l’Alzheimer in modo che il malato che si perde per strada venga riportato a casa, ma anche perché in un ufficio una persona con una demenza venga trattata con dignità». Tre sono le parole-chiave: dignità, libertà e autonomia. Creando un’atmosfera «friendly», il malato tornerà a sentirsi umano e la famiglia più stressata si aprirà, mettendo da parte la vergogna e la paura.

Fabio Di Todaro
Fonte: «La Stampa.it»

Approfondimenti:
– Piano Nazionale Demenze – Ministero della Salute: http://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?menu=notizie&p=dalministero&id=1836 
– Rapporto Mondiale Alzeihmer 2015: http://www.alz.co.uk/research/world-report-2015

Redazione Bioetica News Torino