All’interno di uno scenario sociale in continua rapida evoluzione, di fronte ai cambiamenti dell’organizzazione sanitaria, alla crescente complessità clinica e della sostenibilità economica, il medico è spesso impreparato ad affrontare una nuova identità che sappia rispettare la singolarità di ogni paziente. Ne consegue un diffuso disagio esistenziale nel vissuto di entrambi che spesso si traduce in un inasprimento conflittuale e in un decadimento nella relazione di cura.
1. Oggi fare il medico significa:1
- impegnarsi al massimo per curare i pazienti;
- conoscere e applicare leggi e regolamenti decisi da chi non fa il lavoro del medico;
- spendere moltissimo tempo per la burocrazia sanitaria trasgredendo le cui norme si è perseguibili;
- essere consapevoli dell’impatto economico delle cure e delle indagini che si prescrivono;
- essere quotidianamente esposti a denunce e richieste di risarcimento;
- impegnarsi affinché i pazienti possano effettuare le indagini cliniche nella sanità pubblica;
- supplire alla grave carenza non solo di medici ma anche di infermieri e amministrativi.
Oggi
- il dirigente medico ospedaliero scopre di essere molto solo nel contesto “aziendale”;
- il suo ruolo è molto più vicino ad un “prestatore d’opera” che ad un dirigente;
- quando insorgono problemi lavorativi o relazionali difficilmente trova tra i burocrati, che dirigono l’azienda, degli interlocutori motivati ad ascoltarli e a prendersi della responsabilità per risolvere i problemi.
Il medico, con il suo bagaglio di nozioni ed esperienza clinica, ma anche di emozioni, si trova da solo di fronte al paziente e ai suoi familiari, che gli rivelano le proprie paure, le proprie ansie e le proprie aspettative.
2. Cosa fare2
- Quando vorresti urlare ma gli altri non capirebbero perché;
- Quando hai pochi minuti per parlare con il paziente e almeno il triplo da spendere faccia a faccia con il computer per completare le procedure amministrative e compilare la cartella clinica elettronica;
- Quando dedichi molto tempo alle e-mail che attendono risposta.
Davvero ci si deve rassegnare a questo?
3. Gli strumenti3 nell’aiutare a coltivare una dimensione di serenità nello svolgimento della funzione curante sono:
- pensare che la tecnologia è per l’uomo, non contro l’uomo;
- l’intelligenza artificiale è un’alleata, non per sostituire il professionista, ma a sostegno della professione;
- l’anima e i sentimenti non possono seguire un algoritmo;
- la prossima frontiera dell’innovazione sarà l’attenzione verso l’interazione uomo-macchina perché, invece di diventare separatrice, la tecnologia diventi semplificatrice. Così lo spazio liberato sarà utile per coltivare la relazione umana con il paziente e con i propri simili;
- i luoghi della condivisione possono essere i locali dello scambio di consegna tra un turno e l’altro, i momenti strutturati di incontro, le aggregazioni extra lavorative, le nuove tecnologie social, che fungono da rinforzo nel creare quello spirito di coesione e appartenenza utile ad allontanare la solitudine che spesso si vive nel quotidiano agire;
- la comunicazione va migliorata di fronte a comportamenti ossessivi nei confronti delle interazioni attraverso i social network e WhatsApp. Sembra che circa il 90% dei medici ammetta di comunicare regolarmente con i pazienti attraverso questa applicazione che ha generato una nuova patologia che attende solo di essere classificata: l’ansia da attesa della risposta;
- bisogna iniziare a preparare sin da subito le prossime generazioni di medici4 alla cooperazione, alla condivisione e al confronto, così che il rapporto non sia più solo medico-paziente, ma tra professionisti al servizio del paziente;
- la vita del medico, però, sarebbe misera se ci si fermasse alla tecnologia. Occorrerà ravvivare le relazioni vere.
4. La proposta cristiana
mi resi conto che, al di là del dolore fisico, c’era una solitudine, un dramma spirituale che se lasciato a se stesso poteva portare alla disperazione, alla negazione della vita fino al suicidio. Anche nelle migliori condizioni di assistenza medica e infermieristica, c’era un limite oltre il quale solo l’amore poteva portare sollievo, con la sua discreta, silenziosa presenza; un amore che sgorgasse da un cuore assetato di Dio, che vedeva nel malato un Cristo in croce, e contemplava in esso un mistero insondabile d’amore (Marisa Bentivogli 5)
La Chiesa celebra nella visita al malato la consolazione di Dio, una consolazione che inonda il visitatore e il visitato, e li fa crescere nella comunione.
«Visitare gli infermi» è per tutti misericordia doverosa. Per chi è medico è vocazione speciale. La parola “visitare” evoca un viso accanto ad altro viso, una presenza che è cura e sollecitudine per la persona nella sua interezza, sapendo che il malato «vuole essere guardato con benevolenza, non solo esaminato; vuole essere ascoltato, non solo sottoposto a diagnosi sofisticate; vuole percepire con sicurezza di essere nella mente e nel cuore del medico che lo cura» (Benedetto XVI).
Il medico sa che prendersi cura del malato, in questo modo, significa farsi suo compagno nel cammino della vita, dando un senso a ciò che sta vivendo, al di là della sperata guarigione. Questa alleanza segna la sua maturità umana, morale e spirituale. E se il contesto culturale inclina verso l’opacità e la crisi di senso, la malattia del corpo fa più acuto il bisogno dell’anima di comprendere, di sapere perché si soffre, perché si muore, e in ultimo che cos’è la Vita.
Molte volte il medico giunge a chiedersi, senza mai trovare risposte: che cosa ha fatto di male l’uomo che ho davanti perché soffra così tanto? In quei momenti — annota il prof. Attilio Maseri, grande medico cardiologo — penso al Cristo nella sua Passione e lo prego di aiutarlo a sopportare e a sperare, là dove io mi trovo impotente. Prima di sentirmi impotente, però, considero mio dovere, e dovere primario di ogni medico, usare sempre tutte le armi messe a disposizione dalla medicina per non fare soffrire il malato6
Per vedere il volto di Cristo nella persona malata, scriveva il cardinale Dionigi Tettamanzi, già Arcivescovo di Milano e assistente nazionale dell’Associazione dei Medici Cattolici Italiani, occorre seguire un itinerario culturale e spirituale, che si snoda in alcuni passaggi fondamentali7:
- dal corpo alla corporeità
- dalla corporeità alla persona
- dalla persona alla persona malata
- dalla persona malata all’essere umano radicale e finale.
È così possibile vedere l’uomo con lo sguardo contemplativo, l’uomo nelle sue vere radici e nel suo autentico destino, l’uomo come creatura di Dio, destinato a condividere in modo pieno e definitivo la felicità stessa di Dio. Il medico per vivere questo sguardo contemplativo sul malato ha bisogno di rivolgerlo su se stesso e sulla sua professione.
La visione del volto di Cristo nel malato è, indubbiamente, il frutto di una fede vissuta in mezzo alle difficoltà, alla fatica, alla stanchezza del lavoro quotidiano presso il malato. Ma ogni gesto concreto del medico, di ogni medico, che esprime vicinanza, condivisione, servizio, cura al malato, unito a competenza professionale, senso di responsabilità morale, vero amore umano, indica che il termine ultimo e vero di tutto ciò, — anche se non conosciuto chiaramente o non riconosciuto esplicitamente — non è il malato stesso, ma Cristo presente in lui. Lo afferma in modo chiaro ed esplicito Matteo nel suo Vangelo quando descrive la scena del giudizio finale. A Cristo che dirà agli uomini: «Ero malato e mi avete visitato», gli uomini manifesteranno tutta la loro sorpresa: «Signore, quando noi ti abbiamo visto ammalato e siamo venuti a visitarti?» (Matteo 25, 39).
Davvero straordinario quel “quando”! Esso testimonia che è possibile veramente amare e servire Cristo senza vederne il volto. Lo si vedrà alla fine, allo svelarsi insospettato di una realtà che già ora è in atto: «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me!» (Matteo 25, 40). «L’avete fatto a me»! Questo il premio più ambito e la consolazione più grande che costituiscono la speranza vera del medico.
Conclusioni ultime
Il termine solitudine8 evoca nell’opinione comune fantasmi di abbandono, isolamento, melanconia, in una parola sofferenza. Tale accezione non è però l’unica giustificata dall’etimologia: infatti «solitudo», da «solus», sta ad indicare anche “essere unico”.
Ci sono due vissuti differenti relativi alla solitudine, affermava il prof. Carlo Lorenzo Cazzullo, padre della psichiatria italiana e già presidente dell’Associazione Medici Cattolici Italiani di Milano, l’uno implica la capacità di star soli con se stessi, come necessaria alla formazione della propria identità; l’altro rimanda invece alla privazione degli altri, al senso di esclusione e di emarginazione. In tali condizioni la solitudine non è una scelta, ma porta spesso alla depressione.
La solitudine acquista un senso positivo quando è espressione della capacità di stare solo per interiorizzare il riconoscimento della propria identità e dei propri valori e di essere in grado di ascoltare la voce più profonda della comunità. Liberandoci dall’incerto, illusorio, possesso degli oggetti e della loro invadente influenza, la solitudine consente di raggiungere l’autentico possesso di sé e la possibilità di iniziare un autonomo e libero rapporto con l’altro.
La solitudine, annota il prof. Enrico Smeraldi, emerito di Psichiatria, non è certamente un bene e non è neppure un male: non è né l’uno né l’altro, eppure è entrambe le cose insieme. In se stessa non ha senso, come potrebbe averne? Ma attraverso di essa l’uomo si pone il problema del senso della vita.
L’uomo è un animale sociale e naturalmente si pone in rapporto ai propri simili per una spinta vitale all’incontro interpersonale tanto che la rottura nel racconto biblico della Genesi stessa è riconosciuta come necessità ineludibile per il completamento e la perfezione della condizione umana, e l’ultimo dono di Dio per il bene assoluto è la compagnia dell’”altro” e il vivere in società. L’uomo è fatto per ricercare l’umano e la solitudine con il silenzio degli affanni è fatta per riflettere, per meditare.
La solitudine è la matrice di partenza della vita (si è soli quando si nasce) e la traiettoria umana si conclude in solitudine (si è soli di fronte alla morte); nel mezzo possiamo cercare di interromperla con l’intuizione, la conoscenza, l’amore, così che con Quasimodo possiamo pensare ai versi:
Ognuno sta solo/
sul cuore della terra/
trafitto da un raggio di sole;/
ed è subito sera
L’auspicio ultimo è che
ogni operatore sanitario raggiunga il fine di avere cura, cura misericordiosa, operativa, fattiva, cura scientificamente organizzata per poter durare e svilupparsi, della persona umana. Nessuna separatezza, nessun dualismo anima-corpo. Noi siamo curiosi, scientificamente curiosi dell’uomo in tutte le forme del suo agire; noi vogliamo avere cura del suo corpo e della sua mente, così come delle opere che questo straordinario insieme di corpo e mente produce, dell’anima che esso esprime creando, operando, dialogando, sperando, credendo. Ogni nostro sapere è rivolto all’altro, è rivolto alla cosa stessa. E a chi si oppone il principio di misericordia se non all’inospitale amore di sé, per il proprio sé? Questo principio vale per tutti noi: vale per i filosofi come per i medici come per gli psicologi. Anzi, per ciascuno di noi medico-psicologo-filosofo (Massimo Cacciari)9
1 M. Christina COX, Membro del Centro Studi e Servizi ANAAO-ASSOMED Lazio, «La solitudine del Medico», Quotidiano Sanità, 95.110.224.81/anaao/public/aaa_7111841_QS%20anaao%20lazio.pdf
2 Alberto TOZZI, Responsabile della struttura Innovazione e percorsi clinici, IRCCS Ospedale pediatrico «Bambino Gesù», sul tema del Burnout, Una Tecnologia per l’uomo, in «Recenti Progressi in Medicina» (2019, Il Pensiero Scientifico), https://www.recentiprogressi.it/r.php?v=3112&a=30997&l=336576&f=allegati/03112_2019_02/fulltext/02_Dalla%20letteratura.pdf
3 Paola ARCADI, Infermiera, Università di Milano: Una medicina per la solitudine, in «Recenti Progressi in Medicina» (2019, Il Pensiero Scientifico), https://www.recentiprogressi.it/r.php?v=3112&a=30997&l=336576&f=allegati/03112_2019_02/fulltext/02_Dalla%20letteratura.pdf
4 Stefano GUICCIARDI, Scuola di Specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva, Università di Bologna, Mirko CLAUS, Scuola di Specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva, Università di Padova, Alla ricerca delle connessioni perdute, in «Recenti Progressi in Medicina» (2019, Il Pensiero Scientifico Editore), https://www.recentiprogressi.it/r.php?v=3112&a=30997&l=336576&f=allegati/03112_2019_02/fulltext/02_Dalla%20letteratura.pdf
5 Marisa BENTIVOGLI, «Visita al malato, consolazione di Dio», Settimana News, 11 novembre 2018, http://www.settimananews.it/pastorale/visita-al-malato-consolazione-di-dio/
6 Attilio MASERI, Il volto di Cristo nel volto del malato, Lezione al Movimento Medicina Sacerdozio, San Raffaele, Milano, 9 maggio 2005
7 Dionigi TETTAMANZI, «Nella persona malata vedo il volto di Cristo», in D. TETTAMANZI, Maestro e pastore, a cura di A. ANZANI, Edizioni San Paolo, 2014
8 C. Lorenzo CAZZULLO, Corriere della Sera, 9 maggio 2010
9 M. CACCIARI, Prefazione. La sfida della misericordia di Walter Cardinal KASPER, Edizioni Qiqaion, Comunità di Bose, 2015, pp. 14-15.
Testo trascritto con il consenso alla pubblicazione ma non rivisto dall’Autore
© Bioetica News Torino, Luglio 2020 - Riproduzione Vietata