La credibilità di un sistema sanitario non si misura solo per l’efficienza,
ma soprattutto per l’attenzione e l’amore verso le persone,
la cui vita sempre è sacra e inviolabile
Papa Francesco
Cosa significa essere fragile in una società “liquida”?
Le persone affette da malattie croniche pongono oggi una grande sfida alla comunità e in particolare l’invecchiamento demografico delle società occidentali interroga con insistenza i sistemi che si occupano di salute affinché percorrano strade nuove per una presa in carico non solo delle patologie ma della totalità della persona stessa. Una delle caratteristiche dominanti del nostro vivere è costituita dalla crisi del concetto di comunità, così descritta da Zygmunt Bauman:
Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo “soggettivismo” ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità1
In questo tipo di comunità coloro che sono più fragili, vulnerabili faticano a trovare risposte e prese in carico. Ripercorrendo i determinanti della Salute identificati dall’OMS (comportamenti personali e stili di vita; fattori sociali; condizioni di vita e di lavoro; accesso ai servizi sanitari; condizioni generali socio-economiche, culturali e ambientali; fattori genetici) si evince che lo stato di benessere degli individui e delle comunità è influenzato da una molteplicità di fattori che si incrociano anche con i determinanti legati alle diseguaglianze nella salute all’interno della popolazione2.
Fra tutti i fattori quello legato all’isolamento costituisce una condizione molto frequente. Per indicare la solitudine, la lingua inglese ha due termini: «loneliness» inteso come «sentirsi soli», ovvero come esperienza soggettivamente spiacevole di carenza della propria rete di relazioni sociali3 e «solitude» inteso invece come una scelta determinata per ricreare quel tempo quieto capace di rigenerarci con noi stessi e con il mondo. Una sorta di silenzio interiore che apre alle vie della conoscenza.
La logica dell’efficientismo e della velocità, un sovraffollamento di rumori e la sazietà di stimoli ed esperienze in ogni ambito hanno portato a considerare questa dimensione interiore un tempo “inutile”, vuoto, improduttivo, da riempire ad ogni costo e in qualsiasi modo.
Sempre Bauman descrive bene questa situazione: «Essere sempre in movimento, un tempo un privilegio e una conquista, diventa un obbligo. Andare sempre di corsa, un tempo un’eccitante avventura, si trasforma in una fatica massacrante»4.
Il peso della solitudine nel tempo di Covid-19
Nella lingua italiana si attribuisce alla solitudine un’accezione prevalentemente di tipo negativo identificandola con la condizione di emarginazione, esclusione, abbandono, isolamento. L’attuale pandemia legata al Covid-19 ha certamente amplificato in maniera esponenziale questa condizione. Pensiamo alle immagini e ai contenuti diffusi sui social nel periodo di pieno contagio e alla quantità di solitudine da parte sia degli operatori che dei pazienti in quei lunghi interminabili giorni scanditi dal suono continuo di ambulanze e dal rumore assordante dell’Ossigeno erogato ad alto flusso. Toccanti le parole di questa giovane dottoressa:
Oggi entro in un reparto Covid. Guerra, solitudine, impotenza. La guerra: il disordine, le continue corse, l’assenza di mezzi, il continuo ricambio di pazienti, un clima di terrore perché ogni volta che mi tocco, mi cambio, sto vicina a un malato, rischio il contagio. La solitudine. Dei pazienti, che spesso non riescono a telefonare e non vedono nessuno se non il personale sanitario, che però non si ferma a lungo perché il lavoro è tanto e per il rischio di contagio. Dei parenti, che lasciano il loro caro in ambulanza per riabbracciarlo dopo un mese, o attendere un camion militare che riporti a casa le ceneri da un’altra città. Di noi sanitari, spesso da soli a prendere decisioni immense, disumane, a cui manca il lavoro di équipe, la rielaborazione di ciò che sta accadendo, banalmente qualcuno che ci accolga a casa a fine turno. La solitudine di tutti coloro chiusi in casa a volte rattristati, a volte arrabbiati, a volte con un obiettivo grande, troppe volte senza capire il perché 5
Come gestire una relazione di cura?
Il saggio dello psichiatra Eugenio Borgna, La solitudine dell’anima6 presenta diversi modi di vivere la solitudine. L’Autore distingue, nel testo, la solitudine interiore, la solitudine dell’anima, la solitudine creatrice, la solitudine dolorosa, la solitudine negativa, la solitudine-isolamento. Queste solitudini così diverse spesso si intrecciano e si separano nella vita di ogni giorno, nelle esperienze del dolore e della paura, della felicità perduta e della vita mistica; ma anche nelle aree delle esperienze poetiche, della sofferenza psichica, della malattia e del mistero del vivere, del morire.
Occorre sapersi ascoltare, per accompagnare da “guaritori feriti, chi si trova nella fragilità, nella sofferenza. L’attenzione al silenzio, alla quiete, al rispetto dei tempi dell’altro, ci restituisce l’idea di una presa in carico, che consente al soggetto in cura di sentirsi accolto e compreso attraverso una molteplicità di linguaggi dove quello verbale e quello tecnico costituiscono solo alcuni fra le innumerevoli possibilità di comunicare.
Il tempo della cura ha bisogno di offrire un respiro più ampio rispetto il tempo kronos, legato a logiche efficientiste e scientiste. Se un primo livello del tempo della cura è legato ad una organizzazione di tipo finalistico (teoria, tecnica, formazione, professionalità, struttura, progetto terapeutico) e sulla speranza dei risultati legittimamente attesi (stare meglio, rendere vivibile la vita, convivere con la cronicità), un secondo livello del tempo della cura disorganizza, scompone, ridisegna la biografia del soggetto7.
La disposizione all’ascolto, nella dimensione del silenzio, può dischiudere nella relazione una pluralità di significati. Un silenzio inteso non come stato di passività o isolamento, ma spazio originario dove ridare voce all’essenziale, alla dimensione più vera di noi stessi, al senso complessivo del vivere. Per chi sta sperimentando una situazione di sofferenza acuta o cronica questa condizione può costituire un momento per ritrovarsi con se stessi; per recuperare una maggiore padronanza di sé e del proprio corpo in rapporto agli altri. Per i professionisti della cura l’esperienza del silenzio abitua all’esercizio di sapersi ascoltare, di aver cura della propria mente, in una condizione di rispetto reciproco.
La prassi ha bisogno di momenti di riflessività, di condivisione per ricordarci sempre la nostra condizione di “guaritori feriti”. È questa consapevolezza della propria fragilità, costitutiva della condizione umana, che può renderci capaci di vibrare alle solitudini altrui e di impegnarci in un accompagnamento che aiuti l’altro a compiere il proprio cammino.
1 Z. BAUMAN . – C. BORDONI, Stato di crisi, Einaudi, Torino 2018
2 G. MACIOCCO , I determinanti della salute, in Saluteinternazionale.info/2009/01/i-determinanti-della-salute-una-nuova-originale-cornice-concettuale/?pdf=97
3 A cura di D. DE LEO ‒ M. TRABUCCHI, La solitudine nei servizi sanitari, «L’Arco di Giano. Rivista di Medical Humanities», inverno 2018; 98: 47
4 Z. BAUMAN , Amore liquido, Laterza, Bari 2007, XII-XIII
5 E. DA RE, «Un medico in prima linea, dalla solitudine alla condivisione», in Luigi ALICI, Giuseppina DE SIMONE, Piergiorgio GRASSI (a cura di) Quaderni di dialoghi , La fede e il contagio nel tempo della pandemia, Speciale 2020, AVE, Roma
6 E. BORGNA., La solitudine dell’anima, Feltrinelli, Milano 2011
7 B. SILJ, «Oltre il finalismo della cura: il tempo della benedizione», Atti del Convegno Jonas. Il tempo della cura, Urbino 9 giugno 2009
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