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106 Settembre
Speciale Dignitas Infinita

La realtà carceraria in Italia Intervista ad Antonio De Salvia, criminologo

In breve

La riforma della giustizia, il sovraffolamento, i suicidi (già 47 nei primi sei mesi dell’anno) sono soltanto alcune delle criticità che emergono pressochè costantemente dal mondo carcerario in Italia. Una realtà complessa che richiede un’analisi attenta, un monitoraggio continuo ed una profonda riflessione etica. Ne parliamo con Antonio De Salvia, criminologo che da decenni si occupa della materia sul territorio piemontese. Ne emerge una situazione a tratti drammatica ed inquietante che interpella la coscienza di tutti.

Dottor De Salvia, cosa significa carcere?

Sono molti e contrastanti i significati attribuiti al carcere come parola e come realtà. Dalla memoria e dall’immaginario individuale e collettivo emerge come territorio, struttura artificiosa, ambiente per imporre tempi, spazi, regimi di vita che condizionano l’esistenza, le relazioni interpersonali, le prospettive. Accanto ai riferimenti dotti che rilevano l’incidenza delle categorie dello spazio e del tempo (I. Kant) sulla qualità delle relazioni, e il disagio di vivere nei non-luoghi e durante i non-tempi (M.Augè), è possibile aggiungere definizioni, per lo più anonime, espresse da persone che hanno espiato la pena detentiva sul tipo di: “Il carcere è il luogo dove lo spazio si riduce e il tempo si dilata”; oppure: “Il carcere è il luogo dove il facile diventa difficile a causa dell’inutile”; infine: “In carcere gli anni e i mesi passano in fretta, ma certi pomeriggi non passano mai”. 

Qual è la situazione carceraria in Italia? Negli anni è migliorata la condizione dei detenuti?

Il carcere, come luogo di detenzione è parte integrante del sistema giuridico-penale e rappresenta, con la determinazione della pena, la risposta istituzionale alla responsabilità individuale nel compimento del reato.
Alcuni dati nazionali per rispondere: 190 gli Istituti penitenziari, 32 Rems per autori di reato con patologie psichiatriche; 61.000 detenuti: 4,3% donne, 31,3% stranieri, 25% tossicodipendenti, 2,3% ergastolani, 3,2% per mafia; negli ultimi anni aumento di suicidi (84 nel 2022, 49 al 30/6/24).  
Sostanzialmente quindi i riferimenti percentuali che caratterizzano nel tempo il fenomeno penitenziario rivelano analogie e differenze: i reati di omicidio da 40 anni sono in costante diminuzione; i reati contro il patrimonio sono in aumento; forte espansione dei reati informatici che, pur causando danni alle vittime, assicurano generalmente impunità agli autori.

Come si pone il nostro Paese in Europa?

In Italia prevale la concezione carcero-centrica e reo-centrica: il detenuto è affidato ed appartiene all’Istituzione penitenziaria; la sua condizione di recluso prevale determinando tempi, contenuti e modalità di progetti e iniziative mirati al trattamento “rieducativo”. Risultano subordinate al regime penitenziario percorsi di istruzione, formazione e eventuali attività lavorative o di ergoterapia.
Interessanti i dati sull’occupazione lavorativa di detenuti in Germania e Francia.
In Germania, ad esempio, -committente lo Stato- il lavoro è obbligatorio e impegna l’85% dei condannati: se il detenuto è sposato, lo stipendio viene corrisposto alla famiglia; se è single, la somma viene accantonata e consegnata a fine reclusione all’ex-detenuto per utilizzarla secondo le proprie necessità.
 In Francia invece la situazione è un po’ più complessa: per quanto concerne il lavoro penitenziario, dati accessibili del 2014, confermano che i datori di lavoro sono Stato e imprese private e impiegano circa il 70% dei detenuti.
In Italia solo il 20% dei detenuti espleta mansioni lavorative che consistono quasi unicamente in “lavori domestici”, a servizio della comunità carceraria (cucinieri, portavitto, spesini, addetti pulizia).

Parallelamente alla pena vi sono percorsi di riabilitazione e recupero?

Risposta affermativa, anche se risulta differenziata territorialmente la mappa delle iniziative per motivi più o meno plausibili.
Nonostante tutte le carenze ambientali, le tragedie che periodicamente si verificano (suicidi, atti di autolesionismo), in carcere si registrano forme di convivenza multietnica, solidarietà, volontariato al servizio di malati, mediazioni spontanee per l’attenuazione di disagi e conflitti. 
Percorsi di istruzione (alfabetizzazione, licenza media) sono attivati ovunque; meno frequenti scuole superiori di II° grado, corsi di formazione professionale, laboratori di oggettistica, attività culturali, ricreative, biblioteche; pochi i Poli universitari, …
Sono sufficienti? Certamente no, ma sovraffollamento, carenze strutturali, mancanza di risorse economiche, oneri di gestione costituiscono dei limiti invalicabili. 


Cosa significa in sintesi per Antonio De Salvia la pluriennale esperienza professionale nel mondo del carcere?

È stata un’esperienza impegnativa ma gratificante, perché mi ha offerto occasioni e stimoli per conoscere una realtà umana falsata da pregiudizi e mi ha permesso di entrare in relazione con persone segnate da vicissitudini e in cerca di un sostegno, una spinta per emergere dalle sabbie mobili del disagio. Da questa esperienza ritengo di aver ricevuto più di quanto ho dato.
I riferimenti ideali ed etici che ho interiorizzato da tempo ripropongono la concezione umanistica fondata sul riconoscimento e il rispetto del valore della persona, consapevole di non poter cambiare il passato, ma di possedere, anche nello stato di detenzione, potenzialità di cui avvalersi per realizzare il proprio reinserimento lavorativo e sociale. Durante l’intero percorso è necessario il sostegno di Istituzioni, società, privato sociale.
 I risultati conseguiti, grazie al contributo rilevante del gruppo (CFPP – Centro Formazione Professionale Piemontese), convalidano la convinzione che per affrontare il problema è necessaria una visione globale, un approccio sistematico, un efficace lavoro di rete per offrire opportunità praticabili in tempi rapidi e sostenere l’ex-detenuto nel percorso di reinserimento, dalla formazione professionale al tirocinio, all’assunzione a tempo indeterminato. Realizzare compiutamente questo percorso, oltre ad offrire un’alternativa di vita, equivale a ridurre la recidiva, i conflitti, e a preservare da sofferenze altre vittime. 

La sfida morale è grande, ad essa però non possiamo sottrarci se vogliamo ribadire la dignità della persona umana ed i suoi diritti all’interno di una società che vuole e deve definirsi civile e democratica.

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