L’argomento mi appare affascinante e nello stesso tempo non privo di paradossi e di ambiguità, almeno a prima vista: proprio per questo esso merita di essere affrontato.
1. Post-modernità e fragilità
Ciò che caratterizza la post-modernità, rispetto alla modernità, è il passaggio dalla certezza all’incertezza, dall’ottimismo che scaturisce dalle ceneri del disincanto allo smarrimento dei conti che non tornano. Al centro, c’è sempre il soggetto, ma ormai, quello del post-moderno non è più un soggetto trionfante. I tre “maestri del sospetto” (K. Marx, S. Freud e W.F. Nietzsche), ciascuno a modo suo, hanno contribuito ad estendere il dubbio su tutti gli ambiti o gli aspetti dell’umana esistenza. Essi hanno svelato l’ipocrisia e la debolezza di una modernità apparentemente sazia di sé e così hanno annunciato il post-moderno.
La complessità di un mondo trasformato dagli straordinari progressi della tecnica e della scienza, che oggi aprono addirittura la prospettiva di un post-umanesimo, il crollo delle ideologie e delle rispettive certezze, il declino delle grandi religioni e il loro sorprendente ritorno con i rischi delle pretese di una verità impugnata come un’arma o addirittura le violenze dei fondamentalismi, il ripiegamento sulle facili “ricette” dei sovranisti, il ritorno dell’intolleranza e la chiusura dei muri, tutto ciò è insieme origine, sintomo ed effetto di un diffuso senso di smarrimento e di incertezza, soprattutto nella cultura occidentale, il cui modello tecnocratico tende peraltro a imporsi in tutto il mondo.
Da questo acuto senso di incertezza e fragilità, che caratterizza il post-moderno, l’uomo d’oggi cerca – invano! – una doppia via di fuga: quella della “fede incondizionata” nelle evidenze tecnico-scientifiche o quella del ripiegamento narcisistico sugli affetti dell’io.
Sempre daccapo, le grandi domande sembrano rimanere senza risposta: ripiegandosi su di sé e sul proprio sentire o volendo tutto controllare con il suo potere tecno-scientifico, l’uomo vive in questo mondo come in una grande officina, e non più in una casa, una dimora, nella quale egli possa ritrovare il senso della sua vita e di tutto.
2. La fragilità del sé: identità e relazione
Fragilità o onnipotenza?
Questa è proprio l’alternativa alla quale dobbiamo sfuggire, perché, se la nostra libertà non è onnipotente, tuttavia essa è davvero libera, e se la nostra fragilità non è paralisi e nemmeno impotenza, tutta via essa “tocca” – o affetta – la nostra libertà. La sfida, come si vede, va al cuore della questione antropologica. È possibile pensare l’umano senza negare la fragilità, da una parte, e la libertà, dall’altra?
Non potendo riprendere adeguatamente il compito di pensare una teoria antropologica, già di suo tanto difficile e complessa, mi propongo di assumere un triplice punto di vista prospettico, selezionando alcune categorie ermeneutiche che mi paiono fondamentali per considerare il vissuto fenomenologico dell’umana esistenza: il desiderio (a), la relazione del riconoscimento (b) e il tempo dell’agire (c).
a) Il desiderio e la libertà
Un’ermeneutica fenomenologica del desiderio e dei suoi oggetti è certamente cosa ardua e complessa. In estrema sintesi, potremmo infatti dire che essa si estende a tutta l’ampiezza dell’esperienza umana: il corpo, le relazioni, la cultura, il mondo e perfino Dio.
Il desiderio è suscitato dalla promessa del bene ricevuto: per questo, esso è affetto/mancanza e insieme intenzione/aspirazione.
Dire che il desiderio è anzitutto affezione significa riconoscere che il “corpo proprio” è recezione di qualcos’altro, che appunto lo affetta e lo tocca. È la storia che ci affetta, ci trasforma e incide sul nostro corpo, le emozioni. Come affezione, poi, possiamo dire che ogni sentimento è una mancanza: esso è presenza di altro nel proprio, che rimane tale e quindi rende presente l’altro esattamente come ciò che manca.
Da questa scarna fenomenologia del sentimento è evidente che il desiderio si caratterizza per la sua tensione tra promessa e compimento. Esso nasce sempre grazie all’esperienza di un bene promesso. Alla sua origine c’è una promessa, un evento o un altro che ci diventano desiderabili per il bene che dischiudono e le possibilità che anticipano.
Tuttavia, ogni promessa annuncia un compimento che la eccede, perché è più della promessa stessa. La promessa, che fa sorgere, con stupore, il desiderio, non è un possesso sicuro. E tantomeno lo è il compimento. Nascosto dalla promessa che è anticipata in vista del compimento, la fragilità del desiderio sta proprio nella “sproporzione” e “distensione” tra promessa e felicità (compimento): perciò in essa il desiderio viene messo alla prova. È questo il tempo della decisione libera, autorizzata da una promessa, la cui evidenza però ci appare non univoca, incerta, intermittente, e per questo esige la nostra scelta.
b) La dialettica del riconoscimento
Ogni affezione è il sentire che, in sé, attesta l’altro. Tra sé e altri c’è un rapporto costitutivo, circolare e asimmetrico. L’altro non è mai come vorrei, eppure senza di lui non sarei quello che sono e nemmeno saprei chi sono.
Ci troviamo, dinanzi all’altro, di fronte a un’alternativa: da una parte, la tentazione dell’illusione, per cui l’altro è sempre buono, e dall’altra l’abisso della paura, per la quale l’altro è sempre cattivo. La posta in gioco è molto alta, perché non riguarda solo il rapporto (fragile) con l’altro, ma anche il rapporto (fragile) con me stesso. Si tratta della medesima questione della fragilità del desiderio: anche nel rapporto con l’altro, la posta in gioco è imparare a fare i conti con la passività che scopro nelle mie esperienze di vita e l’attività per la quale sono affidato a me stesso e assegnato alla mia responsabilità.
Anche nel rapporto con l’altro, si tratta di superare l’alternativa tra la promessa e la minaccia. Il reciproco riconoscimento comporta l’alternanza della lotta e della pace. Il rapporto con altri è sempre lotta, conflitto, appunto perché egli è altro, irriducibile a me, a volte in contrasto non solo con le mie pretese ma anche con le mie attese. La lotta appartiene in modo originario all’incontro, a tutti i livelli.
La posta in gioco della lotta, tuttavia, è la pace, ma anche questa è un’evidenza nella quale è in gioco la decisione della libertà che si fida, si affida e confida. Questo è il nocciolo etico dei rapporti umani e ciò comporta la lotta, come forma dell’incontro, in vista di un riconoscimento, che è più della lotta.
Nella lotta per il riconoscimento ci sono, senza dubbio, dei momenti di pace: questi attestano l’affidabilità della promessa legata alla relazione con l’altro e tuttavia non sono mai definitivi, ma sempre transitori, passeggeri, intermittenti. Essi anticipano un compimento che non può essere attinto se non nella speranza, autorizzata dalla promessa che lo anticipa. Alla fine, si tratta di optare per una delle due alternative, che, tuttavia, non si equivalgono, perché c’è di mezzo la decisione della fede, senza la quale non si può vivere.
c) La distensione temporale (e la sua interpretazione) e il dramma dell’agire
In questo terzo momento della riflessione sulla fragilità del sé mettiamo a tema il tempo e l’azione – o dramma, dal greco dràma, che significa appunto azione –. In questa incessante tensione tra passività e attività e tra identità e relazione, il rapporto con me stesso diventa difficile, drammatico: esso è legato al tempo e per questo non posso mai dire di averlo “concluso” e portato a compimento. Analogamente, è difficile e drammatico, disteso nel tempo, anche il mio rapporto con l’altro.
Non c’è dubbio che il tempo sia un enigma radicale per l’uomo. Il tempo è caratterizzato da un fragile paradosso: sono sempre io che permango nel tempo, eppure io non sono mai identico a me stesso. L’identità rimane stabile, nello svolgersi del tempo, ma non come un dato immobile, fisso, bensì in perenne cambiamento. Analogamente, accade per la relazione con l’altro.
Sono particolarmente rivelatrici, a tale proposito, due esperienze tipicamente umane: la memoria e la promessa. Il novum dell’azione, nella quale il soggetto decide di sé, rivela la libertà, per la quale egli è affidato a sé, nelle sue relazioni con l’altro e con il mondo. Qui sta il profilo etico costitutivo dell’antropologico. La fragilità della libertà è affidata al dramma dell’agire.
3. Il compimento del vangelo
La Parola di Dio si rivolge a noi, alla nostra fragilità, e ci chiede di “rischiare” e di “osare” sulla promessa di una grazia che autorizza il nostro agire, in vista di un compimento che ci è donato. Il compimento stesso, però, rimane una promessa. Esso infatti si è già realizzato nella storia di Gesù e tuttavia la sua attuazione dipende dalla decisione della nostra libertà, nella scelta della fede.
Per riflettere sul rapporto tra il dono del compimento cristologico e la sua accoglienza da parte del soggetto destinatario – dentro il popolo che è la Chiesa – intendo ora proporre una riflessione per mostrare che tutta la Scrittura è attestazione di come la promessa del compimento si inscriva nella storia fragile dell’uomo, attraversata dai desideri, dalle relazioni e dall’agire, nel dramma del tempo.
Tra i molteplici testi biblici, ne scelgo tre che, al di là delle differenze letterarie e narrative, ci permettono di comprendere come dentro il dramma della libertà, l’iniziativa di Dio annunci il compimento, sollecitando la risposta dell’uomo, nella pratica della fede.
a) Il desiderio, la legge e la fede (Es 16)
La simbolica del desiderio, nella sua costitutiva tensione tra promessa e compimento, è illustrata in modo insuperabile nella narrazione di Es 16, paradigmatico di tutta l’esperienza di Israele nel deserto. Questo è un tempo di prova, caratterizzato dal difficile cammino che sta tra la liberazione dalla casa di schiavitù e l’arrivo nella terra, che è (per ora) il compimento della promessa. Il racconto comincia con la mormorazione del popolo contro Dio.
La prova del desiderio è “stilizzata” proprio nella metafora della fame che, come la sete – già raccontata in Es 15,22-27, con l’episodio delle acque di Mara –, è mancanza e insieme aspirazione (insoddisfatta). Attraverso Mosè, Dio risponde con una promessa, alla quale è indissociabilmente collegata una legge.
Questo stretto legame tra la storia, il dono e la legge è particolarmente importante: esso significa che non c’è alcuna separazione né tantomeno alternativa tra l’accadere della grazia e la “donazione” della legge. Al contrario, è la legge stessa a svelare che il significato della “cosa” sta nella sua originaria qualità di dono. Ogni segno, infatti, è radicalmente dono. Nell’atto di raccogliere ogni giorno il “pane quotidiano”, al popolo è chiesto di fidarsi di Colui che, come ne ha dato oggi, continuerà a darne anche domani. È solo accedendo alla qualità simbolica della cosa che gli Israeliti possono comprenderne il senso. La legge non proibisce il desiderio, ma ne tutela, svelandolo, la referenza al segno che è inscritto nell’oggetto. La prova radicale sta nella fede.
Questo testo rivela in modo insuperabile il nesso tra la promessa e la grazia, la legge e la fede, la concupiscenza e il desiderio: la legge non chiede altro se non di fidarsi di Colui che nel dono della manna si nasconde e nello stesso tempo si rivela. Nel rapporto tra il desiderio e il suo oggetto è in questione la fede. Lo stupore può (facilmente) trasformarsi in rifiuto. La pretesa della saturazione cieca del desiderio ne fa perdere il carattere trascendente, occultando la qualità simbolica della manna.
Gv 6 riprende proprio il testo di Esodo, alla luce del compimento cristologico. Nel segno del pane Gesù rivela alle folle che lui stesso è «il pane vivo, disceso
del cielo» (Gv 6,51): la sua parola e la sua carne sono il compimento della promessa fatta ai padri. Solo nella fede in lui trova compimento il desiderio umano. Solo la fede consente all’uomo di apprezzare il dono di Dio, dato nel tempo della prova.
b) La relazione al nemico e la grazia del Padre (Mt 5,43-48)
Il secondo testo al quale facciamo riferimento appartiene al Discorso della montagna (Mt 5-7). Della pericope (Mt 5,21-48), che è una sorta di “riformulazione del decalogo”, mi limito a ricordare l’ultima parola.
Gesù, con l’autorità dell’origine, dice la sua parola sorprendente, nella quale chiede addirittura di amare il nemico. Questa parola rivela un’evidenza della vita, a tutti nota: non sempre l’altro è amico. Il dramma della storia è che gli uomini possono diventare nemici gli uni degli altri.
Al cuore di questo dramma, il vangelo rivela la possibilità di una diversa qualità della relazione, chiedendo un nuovo modo di agire, senza tuttavia pre-determinarne casuisticamente le forme. Amare il nemico, dunque, significa amare il prossimo senza porre alcuna condizione. Ciò che sorprende, qui, è che il nemico può essere amato. Egli diviene, così, il prossimo da amare, nel senza condizioni della fede. Il comandamento, tuttavia, per quanto intrigante, sembra “prescrivere” l’impossibile. La domanda, spontanea, è un’altra: davvero e come questo impossibile può accadere?
L’agire che Gesù richiede al discepolo ha un fondamento teologico o, ancor più, schiettamente cristologico. Per amare il nemico Gesù non offre alcun’altra “ragione” se non quella che, in tal modo, noi testimoniamo all’altro quello che, per grazia, abbiamo anzitutto ricevuto (Mt 5,45).
Amando il nemico, Gesù chiede al discepolo di testimoniare la grazia che è offerta a tutti, e che anch’egli ha ricevuto. Nel dramma dell’agire, Gesù chiede al discepolo di testimoniare il compimento. È su questo dono che si “fondano” le azioni del credente.
c) Il compimento e la fede (Mc 1,14-15)
L’annuncio del compimento del tempo, nel vangelo del Regno, è il nucleo di tutta la predicazione di Gesù, come mostra Mc 1,14-15.
«Il tempo è compiuto» (Mt 1,15) significa che, nella presenza di Gesù, Dio ha portato a compimento la fragilità delle attese dell’umano desiderio e il dramma della storia. Il tempo provvisorio e fragile è finito, perché il Regno di Dio “si è fatto vicino” all’uomo, dischiudendogli la possibilità di credere, decidendosi per quel bene (Mt 13,44-46) che è la pienezza di ogni sua aspirazione e impegno.
Il vangelo di Gesù si rivela così come l’indeducibile compimento che la fragilità umana, nelle vicende drammatiche della storia, attendeva da sempre e che tuttavia solo a posteriori può essere scoperto come compimento di quella grazia che sta all’origine della vita.
Il compimento rimane affidato alla fragilità della libertà dei cristiani che, nelle relazioni della storia, sono chiamati, come popolo di credenti, a testimoniare per tutti la risposta all’appello che li sorprende.
Il compimento evangelico, per il cristiano, non annulla la fragilità, ma la preserva dalla rassegnazione e dalla disperazione, per aprirla ad una paziente speranza, il cui fondamento è l’opera di un Altro, Colui che ogni giorno celebriamo nella Chiesa come «il pane vivo, disceso dal cielo» (Gv 6,51), per annunciarlo e testimoniarlo sulle strade del mondo, come il “cibo” di vita, atteso da tutti gli uomini.
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