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79 Maggio - Giugno 2021
Speciale Giovani e sport Dalla cura del corpo alla sua esaltazione

La disabilità nello sport. L’educazione sportiva nella scuola di oggi

Lo sport è esperienza completa,, fatta di progettazione, programmazione, allenamenti e gare,
naturale evoluzione del gioco infantile

L’importanza del far leva sullo spirito di gruppo


Nei delicati rapporti tra attività motoria ricreativa e attività agonistica, è in atto nel mondo delle  scienze sportive un rilancio del valore della competizione, nel tentativo di contrastare le valenze negative che normalmente investono gli aspetti legati all’agonismo nelle diverse discipline. La gara insegna a costruire un obiettivo, a gestire la tensione, ad accettare i propri limiti e, muovendosi all’interno di essi, a gestire la sconfitta; inoltre aiuta a ridimensionare il desiderio di controllo, se non addirittura di onnipotenza, troppo spesso ricercato dall’uomo e proposto dai modelli sociali.

Ci si interroga spesso sugli elementi che hanno trasformato un momento di sano confronto psicofisico (la gara) in un operatore di selezione e di conflitto. La vittoria indicata come “unico obiettivo della competizione”, anziché come eventualità, ha trasformato il risultato sportivo in giudizio di valore che spesso investe l’intera persona. L’attribuzione degli epiteti di “vincente” e “perdente” all’individuo, anziché alla sua prestazione, trasforma la gara in momento esclusivo (inteso come contrario di “inclusivo”).

Per contro, l’idea che “l’importante è partecipare” (e tanto basta!) stravolge la natura stessa della competizione. Non è sufficiente partecipare, occorre farlo bene, preparandosi per ottenere il miglior risultato possibile; quello è già vittoria. Potremmo chiamarlo “divertirsi seriamente”. Occorre un cambio di prospettiva da parte di ogni insegnante, educatore, allenatore, genitore; altrimenti, il messaggio non passa e la valutazione prestazionale assoluta rimane l’unico parametro.

Noi insegnanti, non dovremmo agire in un’ottica di “selezione” fra gli alunni; averli tutti contenti e motivati all’ingresso in palestra continua a costituire uno degli obiettivi primari dell’educazione motoria nella scuola. In realtà, la creazione di aspettative positive e di curiosità dovrebbe essere il presupposto di tutte le discipline, ma la relativa facilità di individuazione dell’attitudine personale rende l’attività fisica un terreno di osservazione unico nello studio dei rapporti tra predisposizione, motivazione e prestazione finale.

Dovremo quindi evitare di rimarcare le differenze attitudinali (per non accentuare il divario) e fare leva sullo spirito di gruppo, “usando” la classe e mettendo l’accento sugli sforzi comuni (“Tutta la seconda B salta un metro con la rincorsa”, “La terza C scende sotto i quattro minuti in una staffetta del giro di palestra” etc).

L’insegnamento delle scienze motorie prevede un’osservazione dell’individuo e la valutazione del percorso di ciascuno rispetto al punto di partenza, con particolare attenzione verso coloro che, per una, serie di esperienze negative, hanno un rapporto “complicato” e di scarsa fiducia nei confronti della disciplina e delle proprie capacità psicomotorie.

Disabilità e sport. Come può essere un percorso di “concreta” crescita

Per raccontare lo stimolante incontro tra l’attività motoria e il mondo della disabilità è necessario rifarsi alle origini dell’inclusione scolastica.
In contrasto con un’immagine dell’Italia spesso considerata fanalino di coda in diversi settori, è bene ricordare che mezzo secolo fa il nostro Parlamento, con la legge 118/71, prima nazione europea, sanciva il diritto degli alunni disabili a frequentare la scuola pubblica; da allora sono seguiti anni di sperimentazione, adattamento e, soprattutto, riflessione. I percorsi di inclusione, di attenzione al “diverso” hanno arricchito tutta l’esperienza educativa italiana, ben oltre gli aspetti di integrazione dell’handicap. Il risultato del processo è una pedagogia di eccellenza, che è stata diffusamente “copiata” ed adattata alle realtà scolastiche europee e mondiali.

L’evento determinante non è stato quindi l’inserimento concreto delle persone con disabilità all’interno delle classi “normali”, ma il percorso di crescita e maturazione che ne è seguito, da una fase più intenzionale ad un’inclusione reale. Nel corso formativo organizzato dal Centro Cattolico di Bioetica di Torino in collaborazione con l’Ufficio Diocesano Scuola e Uciim Piemonte per i docenti di religione tenutosi quest’anno si è condiviso la necessità di considerare la persona con disabilità al netto della “mancanza”, della “menomazione”, possibilmente evitando le “attenzioni particolari”: forme empatiche artificiose, ipervalutazione dei risultati, simpatia generalizzata, ed altre modalità di rapporto che, nonostante le buone intenzioni, possano rimarcare le differenze di condizione.

Il continuo confronto (gap) con la presunta normalità è una sottolineatura della mancanza, che può portare a considerare la persona con disabilità persona infelice per definizione. La fissità con cui viene osservato, diretta conseguenza della sua “condizione”, deve lasciare spazio alla variabilità, al riconoscimento degli stati d’animo, delle emozioni. Ognuno di noi tende a trovare dentro di sé e nell’ambiente motivazioni positive e, dove necessario, risorse di compensazione ma, nel caso delle persone con disabilità, la ricerca si scontra talvolta con lo sguardo compassionevole dell’interlocutore; c’è bisogno di empatia, ma di quella giusta: quella che sa riconoscere la gioia, la rabbia, la frustrazione, la soddisfazione, la paura e il benessere.

La rigidità nell’approccio alla persona può produrre danni anche nelle fasi di programmazione educativa e valutazione, quasi che qualsiasi risultato didattico, anche minimo, possa essere considerato sufficiente, alla luce delle condizioni di partenza; salta quindi il principio dell’impegno, del giusto lavoro per ottenere un determinato obiettivo.

L’educazione è fatta di obiettivi a breve e lungo termine e si appoggia alla zona di sviluppo prossimale, per tutti gli alunni. L’ipervalutazione risulta discriminatoria, in quanto lede il diritto di ricevere una programmazione didattica adeguata ed una valutazione formativa efficace. Nell’ambito delle tipologie di disabilità, considero utile la conoscenza sostanziale delle modalità comunicative prevalenti nelle due principali forme di disabilità sensoriale: la LIS (Lingua Italiana dei Segni) per i sordi, il Braille per i non vedenti. E nel Corso citato sono stati offerti alcuni esempi di attività rivolte alle classi in cui (ma non necessariamente) sono inseriti alunni con disabilità uditiva o visiva.

La performance tra riscatto e disagio

La valutazione delle attività motorie si trova spesso in controtendenza rispetto ad altri ambiti; cambiano i rapporti di performance degli alunni nei confronti del resto delle discipline e si rompe il fronte della valutazione prevalentemente “cognitiva”. Se è vero che da un lato le scienze motorie possono rappresentare una sorta di riscatto per alcuni alunni, è pur vero che in altri possono creare disagio. In palestra, disabilità e difficoltà “si mischiano”: il disagio può riguardare alunni che presentano un alto rendimento scolastico, mentre altri, a dispetto di disabilità certificate o difficoltà di apprendimento, possono esprimere pienamente attitudini ed interessi specifici.

Non è nostro compito, ovviamente, “compensare”, né offrire strumenti di rivalsa, ma piuttosto di eliminare il disagio, per chiunque. Proprio lo sport, nella sua varietà di situazioni (progettazione, allenamento, gara) può rappresentare un’occasione espressiva adattabile ad ogni condizione, che ci aiuta a considerare la disabilità con una logica “sfumata”: in questo campo può non essere così determinante la presenza di una certificazione, di una menomazione, di un handicap; si può passare dalla lacuna all’eccellenza nel breve volgere di un cambio di attività.

Si pensi alla storia dello sport paralimpico, iniziata con i “Giochi per Paralitici”, manifestazione parallela ai giochi Olimpici di Roma del 1960, dai quali è stato prodotto il bellissimo film documentario E poi vincemmo l’oro. L’iniziale associazione mentale dell’handicap alla carrozzina ed alla paraplegia, rimasta nella simbologia della disabilità, si è evoluta in una definizione più «funzionale». Si trattava inizialmente di un elenco che riguardava tipologie minorative più riconoscibili e confrontabili: oltre alle paraplegie, già citate, le amputazioni, la sordità e la cecità. In realtà, i sordi, sulla base di un forte senso di identità di gruppo e non riconoscendosi appartenenti ad una categoria di disabilità, hanno scelto da tempo di organizzare autonomamente quelle che vengono impropriamente denominate le loro “Olimpiadi Silenziose”. Tutto ciò che riguardava la disabilità mentale o intellettiva non veniva considerato, proprio a causa delle difficoltà di “catalogazione” e di valutazione dei livelli di compromissione dei partecipanti.

Due parole chiavi: fare rete e progetto di vita

Per quanto riguarda la pratica motoria, è bene ricordare che, in considerazione delle infinite variabili, non esiste un “manuale” di intervento per le attività da svolgere in palestra con persone che presentino forme di disabilità, nemmeno nell’ambito della stessa tipologia o della stessa sindrome. Vale il principio dello sviluppo della professionalità del docente, della sua plasticità e della sua capacità di adattare la didattica alle caratteristiche degli alunni, di tutti gli alunni.
La chiave dell’intervento pedagogico è affidata quindi alla capacità di analisi dell’insegnante, dell’educatore, dell’allenatore, del genitore, allo studio dei meccanismi di apprendimento, alla capacità di “fare rete” e di pensare al progetto di vita delle persone loro affidate.

© Bioetica News Torino, Giugno 2021 - Riproduzione Vietata

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