La condanna di Alfie
27 Aprile 2018Sulla vicenda complessa del piccolo Alfie, in tenera età, affetto da una malattia neurodegenerativa molto grave, finora sconosciuta, per il quale è al centro di battaglie legali pro e contro il lasciarlo morire senza l’ausilio di sostegni vitali pubblichiamo l’articolo della filosofa e teologa morale Carla Corbella che pone una riflessione bioetica ne La condanna di Alfie, «La Voce e il Tempo» di domenica 29 aprile 2018, pp. 1; 10. Il testo, andato in stampa il 24 aprile scorso, viene pubblicato, in quanto è nel rispetto del silenzio richiesto dai genitori di Alfie Tom e Kate Evans giovedì 26 aprile:
La vita di Alfie, un bimbo di ventitré mesi, è al termine; non succede a causa della malattia neurovegetativa gravissima e sconosciuta che pure lo ha colpito, ma a causa delle sentenze della Giustizia britannica. Quest’ultima, attraverso più pronunciamenti, ha decretato inutili le cure mediche perché «futile» è considerata la sua vita in queste condizioni. Detto in modo forse brutale: lo Stato britannico ha deciso che il «miglior interesse» del piccolo Alfie sia morire, dunque così bisogna procedere nonostante la volontà contraria dei genitori che, sostenuti da professionisti e istituzioni mediche di fama internazionale, sono disposti a perseguire piste alternative.
Il punto del conflitto è chiaro a tutti: scegliere se curare fino alla fine un bimbo sapendo che certamente non guarirà, oppure, proprio perché la sua malattia non lascia spiragli né di possibili miglioramenti né, tanto meno, di guarigione, porre fine alla sua vita sospendendo la ventilazione.
Anche per Alfie come, prima di lui, per Charlie, il mondo intero si è mobilitato. E, contemporaneamente, si è diviso in pro e contro la sospensione della ventilazione che attualmente (andiamo in stampa martedì 24 aprile) mantiene Alfie in vita, pro e contro uno Stato che giudica, con sentenze inappellabili, «migliore interesse» per un suo cittadino di soli due anni la morte per sospensione della ventilazione. Lo Stato britannico ha sposato come principio cardine dell’etica, e della bioetica in particolare, il principio di autonomia e autodeterminazione del soggetto.
È, dunque, perlomeno spiazzante che poi si arroghi, lui e lui solo, il diritto di decidere in caso di soggetti deboli scavalcando totalmente sia l’autonomia dei genitori, soggetti desiderosi per primi di realizzare il miglior bene per il proprio figlio, sia proposte alternative scientificamente autorevoli ed economicamente senza oneri per la società.
Che dire? Che fare? Quali domande porsi per innestare processi di comprensione e decisione che vadano realmente nella direzione del bene delle persone, piuttosto che dell’interesse? Alfie, è bene ricordarlo in questa triste chermesse, non è semplicemente un oggetto rispetto al quale decidere in base a dei presunti interessi da difendere, ma un bambino che ha diritto ad essere amato fino alla fine e fino in fondo. Questo credo sia il suo bene, che ogni adulto ha il dovere di cercare e realizzare pur attraverso le onde, spesso drammatiche e incomprensibili, dell’esistenza umana. Allora la vera domanda diventa: quale è il vero bene di Alfie tenendo conto della sua situazione e delle possibilità reali ed attendibili di aiutarlo nel vivere una malattia purtroppo fino ad oggi inguaribile? Una risposta univoca ed assoluta non esiste perché in realtà, né i genitori, né i professionisti, né tanto meno, uno Stato può pretendere di raggiungere e decifrare il mistero di un’esistenza umana. Lasciando a Dio solo la facoltà di scrutare e giudicare i cuori, si può essere certi che un dialogo onesto fra le parti, animato dalla ricerca del bene reale e possibile, conduce ad un giudizio prudente che consenta un’azione rispettosa di tutti i soggetti coinvolti ma soprattutto di Alfie, la cui vita è e resta un dono prezioso. Nonostante tutto.