Siamo avvolti in questi giorni da un’atmosfera che sembra irreale ma che ci riempie di paura e di sconcerto. Siamo senza difese. Ci sentiamo quello che in realtà siamo: precari e vulnerabili. La scienza tace, il capitale trema, il lavoro è fermo, le scuole sono chiuse, l’economia traballa.
Siamo costretti ad affrontare una situazione sommamente complessa in cui non esistono soluzioni immediatamente efficaci. Sarebbero necessari approcci sistematici, ma ci ritroviamo capaci solo di soluzioni parziali.
La nostra fragile psiche può rendersi conto solo gradualmente di qualcosa che ci supera e ci schiaccia. Questa progressività nella presa di coscienza ci induce ad accettarci nel nostro limite. Ci può rendere più umili e questo può disporci a dare e ricevere aiuto.
All’inizio, quando il terribile virus attaccava altri, lontano da noi, si è fatto tutto il possibile per negare, per sdrammatizzare. S’indossava la maschera della falsa sicurezza, ci si ostinava a una vita irreale. Il male poi è avanzato fino a dilagare nella nostre case. La minaccia diventava tanto evidente da non poter essere negata. In un primo momento subentrò la rabbia, il prendersela irragionevole contro qualcuno: i cinesi, gli stranieri, gli anziani… I pregiudizi e i comportamenti sconsiderati non potevano però che moltiplicare l’irresponsabilità. L’inutile sfogo non portava a nulla, se non alla chiusura e al pessimismo. Alla rabbia rancorosa sono succeduti così, presto, la depressione, lo sconforto, l’angoscia, il sentirsi perduti.
Questa è la fase più lunga, difficile, delicata. La stiamo vivendo ora. Nel suo dramma, questo tempo contiene però un’opportunità, preziosa come una grazia. Sentendosi umili e vere, le persone possono diventare più unite e solidali. Possono rientrare in sé, riconoscere la propria vulnerabilità. Il credente può incontrare la confidenza di Dio, unirsi alla passione di Cristo, cercare la forza e la consolazione dello Spirito. Chi prima era indifferente s’interroga di più sul senso della vita. Può anche sorprendersi ad avvertire il bisogno del divino e a ritrovarsi a pregare. Le cose possono ritrovare la loro verità: il valore delle persone, la preziosità della vita, la bontà del bene. Gradualmente avviene un cambiamento nella vita popolare, sorprendente e rassicurante, come stiamo assistendo da un po’ di tempo. È evidente lo straordinario mobilitarsi di tanta generosità, innanzitutto del personale medico e anche da parte della gente di ogni età e condizione. Da questa terza fase può svilupparsi quello sbocco rinnovatore che, del travaglio e dall’angoscia apre una via d’uscita, motiva alla resistenza e all’azione: la speranza.
In questo momento, che rimane però ancora di smarrimento e di pericolo, non solo possiamo aiutarci a convincerci che, insieme, ce la faremo, ma anche cogliere ciò da questi giorni possiamo imparare e che ci potrà sostenere e orientare nella ricostruzione.
Imparare dal dolore
Ci accorgiamo delle cose che amiamo, quando esse non ci sono più disponibili. Ci piace stare a casa, quando poi possiamo uscire per la scuola, il lavoro, gli amici. La solitudine forzata ci sta così insegnando il valore e il prezzo delle relazioni umane, la distanza superiore al metro alimenta un’incontenibile nostalgia delle distanze brevi. Stiamo improvvisamente comprendendo le cose più ovvie, eppure dimenticate: si va al mercato, ci si reca nei negozi, non solo per fare provviste ma anche (e soprattutto) per vedere qualcuno e fare quattro chiacchiere. Vedersi, incontrarsi e parlarsi è essenziale come fare acquisti, perché le persone valgono più delle merci.
Grazie ai nuovi e prodigiosi strumenti elettronici, reggono e anche si rinforzano le reti familiari, amicali e di comunità. Il contatto con i nostri cari, con gli anziani a casa, con gli amici e i parenti in giro per il mondo, rimane saldo. I numerosi gruppi virtuali ai quali siamo collegati ci sono di conforto. Ognuno pare disposto ad aiutare gli altri, offrendosi di portare cibo e medicine ai vicini anziani, se ne ha la possibilità.
Perdono di importanza tutti quegli appigli alla materialità del consumismo e all’esteriorità dell’immagine, ai quali prima eravamo attaccati. Messi al confronto del dolore, certi nostri comportamenti e manie ci appaiono davvero ridicoli. Sono quasi spariti i selfie, tanto goffo ci sembra oggi il narcisismo. Diamo meno spazio ai VIP e agli influencer e tendiamo a fidarci piuttosto delle parole e dei consigli degli esperti comprovati.
Chi ha fede prega di più. Se non è possibile frequentare la chiesa, si allestisce in casa un piccolo spazio religioso per fermare lo sguardo sul crocifisso e sentirsi parte di una comunità, di una storia, del cosmo intero. Chi ha detto che una pausa di adorazione non sia indispensabile per la nostra mente-corpo-anima, come lo è la spesa per il pane e le verdure? Chi può dimostrare che inginocchiarci per posare un attimo la tristezza, non sia più potente di un farmaco?
Imparare dagli errori
In questa pandemia, messi in relazione con l’angoscia e il dolore, possono diventare più evidenti e insopportabili i nostri errori. Siamo più disposti ad assumerci la responsabilità. Così, nel travaglio c’è sempre un appello alla coscienza che ci orienta al vero e al giusto. Riusciamo più facilmente a capire, anche attraverso tanti fatti di bella cronaca, che un male comune (il virus) può farci vedere quanto più forte sia il bene comune. Stare a casa, prendere tutti gli accorgimenti, cercare diversamente le persone, sono forme d’amore, il quale è poi il principio fondamentale della convivenza umana. Anche per questo, è una terapia efficace per rallentare l’avanzare minaccioso e veloce della pandemia.
Pur non essendo facile stabilire collegamenti diretti, il contagio virale richiama spontaneamente i cambiamenti climatici, la distruzione del pianeta, i nostri modi irresponsabili e insostenibili di vivere. Qui sono evidenti le nostre responsabilità.
Gli eventi estremi ci sembrano tutti collegati (pandemia, terremoti, incendi, alluvioni, siccità, carestie). Al confronto di questi fenomeni, inconcepibilmente assurde e inumane ci appaiono le guerre che continuano a imperversare. Il credente vi legge i segni di quel “mistero dell’iniquità che è in atto” di cui parla la lettera di Paolo (2Tess 2,7) e pensa non solo alla precarietà umana ma anche al dramma del peccato. Pensa anche al travaglio della natura, come misteriosamente ne parla ancora l’apostolo: «Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto» (Rom 8,22). Si rasserena tuttavia nella fiducia che «nella speranza noi siamo stati salvati».
La nostra estrema vulnerabilità, come è evidente in questi giorni, ci insegna che la verità della vita è la grazia, che nel suo lato umano ha il volto della gratuità. Nella precarietà impariamo a distaccarci dalle cose, dal denaro, dalle preoccupazioni eccessive, dall’arroganza delle idee e, anche, dalla pretesa. Le grandi crisi ribaltano le vecchie certezze e abitudini, e svelano i nostri errori, ai quali ci eravamo rassegnati. Siamo vulnerabili. Siamo nati mancanti. Non solo siamo stati costretti a percorrere un primo lungo arco della vita senza capacità di autonomia fisica e mentale, ma ogni giorno dobbiamo faticosamente crearci il nostro essere: affrontare la fatica di vivere, di difenderci, di preservarci. Non troviamo nulla già pronto, a nostra misura. Dobbiamo inventarcelo. La realtà ci resiste. Se non impariamo ad adattarci e mantenerci sani, soccombiamo. L’esperienza umana è però anche una continua offerta di occasioni, un inesauribile dischiudersi di potenzialità. Siamo costretti ad affrontare la fatica di “generarci” di nuovo, di portare a compimento ciò che abbiamo dentro solo in abbozzo. Questo desiderio di rinascere, di combattere, di non mollare, si chiama “speranza”. Si può anche definire “pienezza di vita”. Grazie a essa siamo creature dei nostri sogni, rinasciamo a ciò che non vediamo ancora, perseguiamo ciò che non possiamo verificare. La speranza è sostanza della nostra vita, il suo fondo ultimo. È la forza che ci fa sempre ricominciare. Vivere, rinascendo ogni giorno, per i cristiani è la grazia e la regola battesimale.
E dopo?
Speriamo che le cose che stiamo imparando in questa emergenza non ce le dimenticheremo, tornati alla normalità.
Da questa emergenza possiamo imparare a chiederci, coraggiosamente: «Come dobbiamo vivere?». Alcune cose in questi giorni diventano più chiare. Sono quelle essenziali: stare vicini alle persone a cui vogliamo bene, vivere nel rispetto e nella solidarietà con tutte le persone che la vita ci offre. Stiamo scoprendo il valore di una stretta di mano e dei modi con cui scambiarci stima e affetto.
Dovremo mantenerci umili, senza arroganze o polemiche distruttive. Non siamo onnipotenti. Abbiamo sottomesso la natura, conquistato i cieli, viaggiato tra gli astri, ma con virus e batteri siamo ancora impotenti. Sarà necessario ricollegarci con la natura, orientarci a stili di vita sostenibili nei consumi, nell’alimentazione, nella gestione dei beni. Certi disagi derivano anche dalla rottura dell’equilibrio ecologico.
Il cambiamento delle nostre abitudini comincia dalla cura. Prenderci cura degli altri e del mondo è ciò che ci rende umani.
Potremmo, infine mettere ordine nella nostra vita per scoprire e non trascurare ciò che è veramente importante.
In questi giorni, è una scelta di umanità rimanere a casa. Sapere però che la chiesa è aperta, è una consolazione. Se poi, mentre si va fin lì a prendere il pane o a vedere se troviamo l’ultima mascherina, c’è nelle vicinanze una chiesa, aprendo solitari quella porta, ci troviamo, senza alcuna mediazione, immediatamente, davanti al Santo dei santi. Lui, il cuore vivo del mistero del cosmo, l’universo che ci avvolge senza schiacciarci, da cui proveniamo e di cui siamo fatti. A Lui appartengono e il virus e le galassie. E, in mezzo, noi impauriti ma anche stupiti (e riconoscenti) di esserci.
© Bioetica News Torino, Aprile 2020 - Riproduzione Vietata