Introduzione
a cura di Enrico Larghero
Responsabile scientifico Master universitario in Bioetica, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – sezione parallela di Torino
La nascita di un bimbo – afferma la scrittrice Lailah Gifty Akita – è una gioia per i genitori e per il mondo. Tuttavia non sempre il venire al mondo di una nuova creatura suscita gioia ed entusiasmo, in quanto, purtroppo, non tutti i bambini nascono sani. Rispetto al passato è però mutato profondamente il contesto, in quanto oggi, parallelamente ad una progressiva denatalità la società non è pronta ad accettare un nascituro malato. Già attraverso la diagnostica prenatale vengono eliminati embrione e feti, ma anche all’atto della nascita, di fronte a qualsiasi forma patologica, troppo spesso la Medicina non elabora un atteggiamento ponderato ed equilibrato. Oggi infatti le aspettative di salute si presentano alte, sia da parte delle famiglie che del “corpus” sanitario. Le attuali conoscenze neonatologiche, unitamente alle tecniche rianimatorie, permettono di tenere in vita neonati gravemente malati, ponendo in essere questioni bioetiche che, se da un lato si muovono spostando oltre l’asticella del limite (e aprendo in tal modo a nuove prospettive di cura), dall’altro sollevano problematiche che si possono configurare come accanimento terapeutico. Maria Gabriella Caroni, neonatologa, affronta con equilibrio e competenza tali questioni che richiedono una valutazione in toto del contesto, tra luci ed ombre nell’auspicio che in futuro si crei un clima di serenità, di fiducia, di alleanza terapeutica, ponendo al centro il bene dell’essere umano ai suoi albori.
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L’epoca che stiamo attraversando registra un preoccupante calo delle nascite, e questo ci offre l’occasione per considerare con maggior attenzione le questioni etiche relative al neonato, cioè all’essere umano all’inizio della sua vita individuale e sociale. Come spesso avviene per gli eventi originari, fondativi, nell’esistenza dell’uomo, pur essendo il periodo neonatale di breve durata, presenta caratteristiche particolari che richiedono continue esplorazioni e interpretazioni, determinanti per la vita di ciascuno. Prendersi cura del neonato, soprattutto oggi, richiede un impegno etico non solo quando ci si trova di fronte a quelle situazioni estreme, talvolta evidenziate dai titoli dei giornali, ma anche quando si affrontano le questioni più quotidiane.
La Neonatologia, branca della Medicina che si occupa della cura del neonato malato e del benessere del neonato sano, ha presentato negli ultimi quarant’anni uno sviluppo rapido e una sperimentazione spesso incontrollata. Attualmente le cure intensive non sono più considerate moralmente neutrali, la malattia e la morte di un neonato non sono più avvertite come eventi naturali e inevitabili. Ciò che un tempo non poteva essere scelto oggi è oggetto di un’opzione che può essere messa in discussione in base ai propri valori esistenziali, e quanto più aumenta il progresso tecnologico, con le possibilità che esso offre, tanto più la scelta implica una responsabilità morale.
In Neonatologia esistono molte situazioni “limite” che richiedono una valutazione etica, ad esempio quando bisogna decidere quale nato rianimare in Sala Parto, quando rianimare e come rianimare; oppure quando il neonato diviene oggetto “prezioso” in caso di gravidanza a tutti i costi, piuttosto che “negato”, abbandonato alla nascita; e ancora quando si discute di accanimento terapeutico, di eutanasia, di terapia del dolore e di cure palliative. Molti di questi temi sono ricorrenti anche nella bioetica dell’adulto, ma quando si tratta del neonato, siamo di fronte ad un individuo che non ha, e non ha mai avuto, l’autonomia per esprimere una volontà propria e spesso è difficile capire quale sia il suo migliore interesse.
Anche la quotidianità della vita neonatale può suscitare questioni etiche. La divulgazione delle norme di puericultura, ad esempio, non è eticamente neutra poiché i media, la televisione, la stampa e la pubblicità, diffondono spesso immagini irreali di un bambino idealizzato per fini commerciali e non educativi. Come affrontare dunque tali situazioni? Un modo può essere quello di valutare se il neonato sia da considerarsi una “persona” e se, quindi, dal punto di vista sociale e familiare, lo si definisca prevalentemente “soggetto” o prevalentemente “oggetto”, rispetto all’adulto. In altre parole, si tratta di riflettere sulla nostra capacità di riconoscere nel neonato quel valore esistenziale per cui nessuno è superfluo, dal momento che ogni individuo è originale e irripetibile.
Vi sono alcune correnti bioetiche utilitaristiche che tendono a negare al feto e al neonato lo statuto di “persona”, poiché, secondo la loro visione, un individuo che non è in grado di prendere decisioni non esiste in campo etico. Tuttavia, man mano che si procede dalla sfera teorica a quella pratica e ci si addentra nel vissuto concreto, ci accorgiamo che il neonato è percepito quasi sempre come una persona da coloro che gli stanno accanto. Questo vale anche per il feto, in fondo che cosa è un neonato prematuro, se non un feto che si trova a vivere nel posto sbagliato? Il Manifesto dei Diritti del Bambino Nato Prematuro, riconosciuto dal Senato Italiano nel dicembre del 2010, afferma nell’Art. 1 che «Il neonato prematuro deve, per diritto positivo, essere considerato una persona». Così pure nella Carta dei Diritti del Bambino Morente del 2013 all’Art 1 si afferma che il bambino morente ha il diritto di «essere considerato “persona” fino alla morte, indipendentemente dall’età, dal luogo, dalla situazione e dal contesto. Il bambino è una persona a tutti gli effetti fin dalla nascita». Non è neppure un fatto secondario che, ai sensi dell’art. 1 del Codice Civile, al momento della nascita si acquisisca anche la capacità giuridica. Inoltre ogni buon pediatra sa bene che trattare il neonato come persona, offrendogli il rispetto che si merita, permette di instaurare con lui una relazione sana, facilitando così anche la risoluzione di molti problemi che possono insorgere nei primi mesi di vita. Se dunque il neonato è considerato una persona, è più probabile che venga trattato come soggetto e non come oggetto, sia dal punto di vista familiare, che da quello sociale e sanitario. Se invece viene vissuto come oggetto già nella sua “programmazione”, ad esempio attraverso tecniche avanzate di fecondazione medicalmente assistita o di maternità surrogata, si corre il rischio di scivolare dal desiderio di voler “generare” un figlio a quello di “fare” un figlio, confezionato come un “prodotto”. Anche se oggi non si “fa” un figlio per avere forza lavoro, per garantire una dinastia, o per intessere alleanze politiche, come accadeva un tempo, può darsi che si “faccia” per consolidare la relazione di una coppia che ha già figli da relazioni precedenti, o per sancire il successo dell’unione tra persone dello stesso sesso. In molti di questi casi il confine tra persona-soggetto e prodotto-oggetto è molto sottile. Senza contare che tali gravidanze si traducono spesso in nascite di neonati prematuri o affetti patologie inaspettate, con gravissime ripercussioni su tutto il nucleo familiare.
Ci sono genitori, poi, che sottopongono i bambini a diete incongrue o li sottraggono alle vaccinazioni, come se questi fossero una “bandiera” della loro ideologia; altri, non volendo rinunciare alla propria riuscita sociale, ricorrono alla somministrazione di farmaci per risolvere problemi che spesso non sono di natura medica ma psico-relazionale, come il pianto, la difficoltà di addormentamento, l’inappetenza. E sono solo alcuni esempi. Anche gli operatori sanitari possono rendere il neonato una non-persona, e dunque un oggetto, quando sottopongono i piccoli pazienti a terapie inefficaci o sproporzionate, o quando somministrano loro dei farmaci solo per accondiscendere alle richieste dei genitori o per rispondere a criteri di medicina difensiva. Tanto che, in una recente mozione, il Comitato Nazionale per la Bioetica, raccomanda esplicitamente di evitare che il neonato sia considerato un semplice oggetto di sperimentazione e ricerca da parte dei medici.
Dal momento la riflessione bioetica invita l’uomo a un atteggiamento di “responsabilità” di fronte al fenomeno della vita, si comprende come la responsabilità etica nei confronti del neonato trovi il suo fulcro nel considerarlo come persona in sé. In questo modo risulta più agevole uscire dai limiti della visione adulto-centrica, che può “cosificare” il neonato, soffocando i suoi interessi e negandogli il riconoscimento delle sue specificità.
Per rendere più concreta e diffusa l’etica della responsabilità e della cura richiesta dalla particolare vulnerabilità dei neonati, sarebbero utili una politica economica, sanitaria ed educativa di maggior sostegno alle famiglie, e la formazione di specialisti sanitari che siano davvero “dalla parte del bambino”, in modo da garantire ai nostri piccoli, al di là dei problemi sociali e dei condizionamenti culturali, non solo la salute ma anche il diritto al futuro.
© Bioetica News Torino, Gennaio 2021 - Riproduzione Vietata