Il Verbo-racconto era in principio, era presso Dio, era Dio, era quell’unico che nessuno ha mai visto né raccontato.
Poi il Verbo venne. Venne come vita e luce degli uomini, luce che splende nelle tenebre.
E tuttora questa luce illumina, quando è accolta da chi decide di farsi spettatore-discepolo e, ricevendo questa grazia, viene generato di nuovo.
L’occhio dei cineasti non è mai stato indifferente al piano dei valori, tantomeno imparziale dal punto di vista etico.
Il cinema che ci racconta Paolo Cattorini, Professore Ordinario e docente di Bioetica clinica al Dipartimento di Biotecnologie e Scienze della Vita e alla Scuola di Medicina dell’Università degli Studi dell’Insubria, nel suo ultimo libro Teologia del Cinema, edito da Edizioni Dehoniane, è da intendersi come pratica privilegiata, come «discorso autorevole per rappresentare la visibile narrabilità dell’essere»; un discorso in cui Dio non può non occupare una posizione di rilievo.
«La teologia del cinema riflette su questa “aura” e cerca in essa metafore attuali per pensare Dio come racconto, come principio vitale del narrare e come risorsa dell’inesausto desiderio umano di una storia di salvezza», scrive Cattorini, «una storia vissuta, sognata, profetizzata, attestata, trasmessa, immaginata, incarnata, ferita, sepolta, risorta».
Il volume prende in esame, con grande accuratezza e formale eleganza, le diverse analogie tra le liturgie religiose e il rito del recarsi al cinema: in entrambi i casi, l’individuo è mosso dal desiderio di conoscere ciò che è ignoto, di immergersi in una realtà distante da quella in cui vive e, per questo, ricca di mistero. L’Autore suggerisce, inoltre, una prospettiva narrativa per l’etica teologica relazionata alla presenza del male nel mondo e alle diverse soluzioni offerte dalla teodicea. Conoscere il significativo contributo che il racconto ha, in tempi recenti, dato alla medicina e all’etica è indispensabile per comprendere al meglio la relazione tra Dio e il cinema. Scrive Cattorini:
in entrambe le pratiche, l’impegno per la promozione del bene (il benessere clinico, da un lato, e il bene morale, dall’altro) ha riabilitato la narrazione come veicolo discorsivo necessario, non sostituibile o surrogabile dall’argomentazione intellettuale. Chi si occupa di combattere il male, diagnosticarlo con precisione, oppure promuovere una vita degna e felice, deve frequentare il racconto
Occorre, a questo punto, ricordare l’incommensurabile valore della medicina narrativa, che non è altro che una medicina più umana fondata sull’amore verso il prossimo, molto diversa da quella ippocratica tradizionale. Usando le parole dell’Autore,
è la stessa medicina di sempre, consapevole e addestrata a fare quello che non può evitare di fare: ascoltare storie, interpretarle, completarle, immaginarle, montarle, scriverle, impersonarle, dirigerle. Senza l’esercizio di una competenza narrativa, la clinica diventa un mestiere tecnico, che applica guide-lines generiche, trascinando l’impegno di cura in una catena decisionale «centrata sull’organo» invece che «sulla persona malata»
La teologia del cinema attinge alla teologia del racconto, declinandola in forme tipicamente estetiche. Uno dei compiti del cinema, afferma Cattorini, è rafforzare il valore dell’immaginazione nel pensamento della fede:
Se Dio riposa nel fondo dell’anima e attrae la ricerca umana verso il punto asintotico e indicibile, in cui oggetto e soggetto vengono a coincidere, allora il cinema, coniugando interiorità (vibrazione dei vissuti personali) ed esteriorità (epifania di una potenza che merita ammirazione e timore), rivela dimensioni inedite del sacro e istituisce una preziosa pratica di indagine e trasformazione etico-religiosa.
© Bioetica News Torino, Luglio 2020 - Riproduzione Vietata