Una riflessione sul delicato tema dell’eutanasia, in particolare la richiesta della sua depenalizzazione, che in Italia è stata di recente promossa con un referendum abrogativo, viene presentata da due esperti, Lucetta Scaraffia, membro del Comitato nazionale di Bioetica e Ferdinando Cancelli, specialista in medicina palliativa, nel loro recente volume edito da Scholé.
La pandemia ha messo in ginocchio un mondo che avanza con celerità nella scienza e nella tecnologia e allontana il senso della morte da sé cercando di poterla almeno controllare. Gli Autori nella parte introduttiva spiegano come l’atteggiamento verso la morte sia mutato con l’irrompere della pandemia. Si è passati da «se la medicina fallisce nella sua battaglia, almeno decido io il come e quando» a «non si tratta più di come morire ma di come sopravvivere, in un regime di scarsità di letti nei reparti di rianimazione. La vita, che prima sembrava assurdamente lunga, è tornata a essere breve anche per gli anziani che si avvicinano al secolo».
L’eutanasia è indubbiamente un quesito medico ed etico molto complesso da gestire ed affrontare, sia da parte degli specialisti sia da parte dei pazienti gravi e dei loro familiari; ci sono molti aspetti da considerare, e non si riduce al “desidero morire” di un paziente terminale. Il paziente sceglie davvero di porre fine alla sua vita? Chi deve compiere la decisione finale, il paziente o il medico?
In un capitolo dedicato al Mito della scelta gli Autori non condividono la decisione del darsi la morte: «La possibilità di scegliere quando e come morire, secondo i difensori dell’eutanasia, non sarebbe che la giusta prosecuzione delle libertà di scelta che abbiamo esercitato nelle altre fasi della vita, quando abbiamo deciso chi sposare, dove vivere, che lavoro fare e così via. La loro idea è che nessuno può esercitarla al nostro posto. Dimenticando che non si tratta di una scelta come le altre, dimenticando che non abbiamo scelto noi di venire al mondo». Morire, aggiungono, non costituisce infatti una tappa di vita come le altre, ma la sua conclusione irreversibile, la cui natura, come accade per la nascita, rimane per molti aspetti per noi misteriosa.
Scaraffia e Cancelli ritengono che questa non sia una scelta come le altre e si pongono questa domanda: in un periodo storico in cui veniamo costantemente influenzati, i pazienti terminali o i lori familiari prendono con coscienza e imparzialità la decisione più difficile? Vi sono molti fattori in gioco, da quello etico a quello legislativo (si ricorda la Legge 219 del 2017, che regola il consenso informato e il trattamento sanitario). Bisognerebbe fermarsi e riflettere sull’effettivo atto e sulle sue conseguenze e non essere troppo sbrigativi nel sostenere che basti il consenso del paziente grave o di chi ne fa le veci.
La morte non è un momento privato, isolato; è un momento “corale”, in quanto tutti noi facciamo parte di una comunità con un’identità e una cultura condivise. È importante creare un’idea di morte collettiva, anche se oggi non è così: cerchiamo con tutte le nostre forze di evitare la morte, i suoi simboli e i suoi luoghi, ma è sbagliato, poiché «viene eluso il problema essenziale della vita, e quindi della morte: scoprire il senso di ogni esistenza». Spiegano infatti che «la legalizzazione della scelta individuale di morire è la rinuncia a costruire una legge che sia prodotto di una società che definisce la sua cultura e i suoi simboli, che definisce ciò che è permesso e ciò che è vietato, che cioè distingue il bene dal male. Le democrazie, per definizione, dovrebbero produrre leggi universali, uguali per tutti, e quindi definire i presupposti culturali di una società». La legge — proseguono — non ha solo valore repressivo, ma soprattutto valore espressivo, cioè traduce i valori etici di una società in un sistema coerente. Se la morte viene perseguita come obiettivo il rischio è di lasciare, abbandonare il malato a se stesso.
Oggi più che mai, tutti noi abbiamo avuto e ancora abbiamo paura di morire; speriamo in una fine rapida e indolore, magari nel sonno. Però, quelli che possono essere gli ultimi momenti di un malato «possono essere luminosi e rischiarare la vita, quella di colui che se ne va come di coloro che restano». Un’occasione, citano un medico inglese Heath, per «poter lasciare in ordine le proprie cose, contribuire a pianificare il proprio funerale, condividere e rivivere i ricordi, dire addio, perdonare ed essere perdonati e dire le cose che andrebbe dette», dare un senso a quanto è accaduto nella propria vita, «un processo con il quale la mente arriva ad accettare la morte».
E chi dice che la scelta dell’eutanasia sia indolore nel passaggio dal tranquillante al veleno? Scaraffia e Cancelli pensano: «Nessuno è tornato indietro a dirci se le cose stanno realmente così e la presenza di una così alta variabilità individuale in condizioni di morte diciamo fisiologica rende difficile pensare che si possa essere tutti uguali di fronte agli effetti del farmaco letale, sia come vissuti profondi sia come tempi sia come modalità di morte».
Le cure palliative non così conosciute ed utilizzate come si pensa. Ne dà un’ampia definizione l’International Association of Hospice and Palliative Care (IAHPC) oltre all’Organizzazione Mondiale della Sanità. In quel “quando non c’è più nulla da fare” in realtà vi è tanto, curare lenendo i sintomi fisici, psicologici, spirituali e sociali che affliggono il malato grave e che gli sta accanto ma non solo nelle fasi finali della cura di fine vita ma già in quelle precoci che seguono la diagnosi di cura di supporto o cura palliativa iniziale. Le cure palliative, afferma l’IAHPC, «non affrettano né rinviano la morte: affermano la vita e riconoscono la morte come processo naturale».
La scuola di specializzazione in cure palliative è in procinto di avviarsi solo ora, tra questo e il prossimo anno. Se così si recupera la lacuna formativa dall’altro rimane ancora sollecitano gli Autori quella dei «medici di medicina generale che invece dovrebbero sempre più lavorare a fianco degli specialisti nella cura del paziente grave o morente».
Gli Autori tengono infine a precisare che c’è una differenza tra eutanasia e sedazione palliativa profonda: quest’ultima, quando è continua e intenzionale, consiste nel somministrare a un malato terminale gravato dalla presenza di uno o più sintomi refrattari (intrattabili con i comuni farmaci che non alterano lo stato di coscienza) di far perdere la coscienza, una pratica che deve rimanere rara e riservata a quei casi di chi si trova a pochi giorni o poche ore dal decesso.
© Bioetica News Torino, Settembre 2021 - Riproduzione Vietata