Il senso di paura ed inquietudine nei confronti di un’opera d’arte; il buon gusto e la perversione; l’artista, lo spettatore; l’avvento del giudizio critico: questo è ciò che racconta il filosofo e scrittore Giorgio Agamben in questo breve ma illuminante saggio edito da Quodlibet (2022, II ed.) sulla nascita dell’estetica moderna attraverso la rilettura di testi filosofici e di pensatori di diverse epoche in cui l’Autore stesso descrive anche il suo pensiero. Un’indagine sull’arte messa bene in evidenza dalla scelta di nessun’immagine di copertina nella sua seconda edizione.
Nel suo percorso di critico il filosofo Agamben cita Platone e il suo La Repubblica dove riflette sulla decisione di voler bandire la poesia, Hegel sulla morte, Frenhofer sul suo concetto di doppio, ossia la differenza di interpretazione fra un’artista e lo spettatore di fronte ad un’opera e poi continua la sua analisi sui pensieri di Heidegger, Dürer, Hölderlin secondo il quale la poesia torna a essere qualcosa che si può calcolare e insegnare, del francese Benjamin e il suo angelo malinconico.
Nel primo capitolo, l’arte viene definita una cosa inquietante e spaventosa per gli artisti stessi: «l’arte – per colui che la crea – diventa un’esperienza sempre più inquietante […] perché quel che è in gioco non sembra essere in alcun modo la produzione di un’opera bella, ma la vita o la morte dell’Autore, o, almeno, la sua salute spirituale».
Ormai, sostiene l’Autore, lo spettatore non vede più il divino quando si trova di fronte ad un’opera d’arte, come succedeva in passato, ma aspira solamente a crearsi e a fornire una critica puramente estetica; l’opera d’arte è «una occasione privilegiata per mettere in moto un gusto critico, quel giudizio sull’arte che […] ha più valore dell’arte stessa».
Chi è in sostanza l’uomo senza contenuto? È l’artista stesso, che possiede una lacerazione in sé che lo porta a non comprendere appieno quale sia la realtà come artista e come uomo; «L’artista è l’uomo senza contenuto, che non ha altra identità che un perpetuo emergere sul nulla dell’espressione ed altra consistenza che questa incomprensibile stazione al di qua di se stesso». Poi continua, «L’arte è soltanto una negazione che nega se stessa, un autoannientantesi nulla». Quindi a questo punto ci si domanda: cosa ne sarà dell’arte? Stiamo veramente parlando di una crisi? L’Autore specifica che si tratta di una crisi della poesia, del fare dell’uomo, della produttività intrinseca. Bisogna ricordare che a inizio Novecento cambia radicalmente il modo di concepire l’arte: basti pensare ai ready-made di Duchamp o alla pop art, che si basano sulla trasformazione materiale di prodotti comuni, rendendoli arte. Per Agamben «l’arte non muore, ma divenuta un autoannientantesi nulla, sopravvive eternamente a se stessa».
Cita il concetto del filosofo Benjamin secondo cui la trasmissibilità della cultura sia mutata nel tempo e di conseguenza anche il rapporto con il passato: quando si estrapola una citazione da un determinato periodo storico, questo perde immediatamente di valore, «solo nell’immagine che compare una volta per tutte nell’attimo della sua estraniazione, così come un ricordo balena improvvisamente in un istante di pericolo, si lascia fissare il passato». Per Agamben invece «la rottura della tradizione non significa infatti in alcun modo la perdita o la devalorizzazione del passato. In tutto ciò, l’essere umano si trova in una sorta di limbo dove il tempo lo trasporta sempre avanti non avendo mai l’occasione di “fare proprio” il periodo storico che vive».
Partendo dalla differenza tra poiesis (produrre, portare in essere) e prassi (fare, agire) nel mondo greco, l’Autore sostiene che l’arte va al di là dell’artista e dello spettatore; è qualcosa di più, è la conseguenza dell’evolversi del mondo; in altre parole, «(l’arte) si distacca tanto dall’attività dell’artista che dalla sensibilità dello spettatore per porsi come il tratto fondamentale dell’universale divenire».
© Bioetica News Torino, Aprile 2023 - Riproduzione Vietata