Un libro dai tratti originali perché gli Autori, Tullio Proserpio e Carlo Alfredo Clerici, si calano nel reciproco ascolto delle conversazioni e riflessioni sugli interrogativi esistenziali della condizione umana nei momenti di sofferenza tenute negli anni durante le loro pause in ospedale, dinanzi ad un distributore automatico di bevande, e delle loro competenze professionali accresciute nel tempo.
Consapevoli che «la medicina e la psicologia offrono solo risposte imperfette a queste domande, a volte con la pretesa di essere esaurienti. Ne siamo quotidianamente testimoni», affermano gli Autori che si sono incontrati, come loro stessi ammettono nel loro recente libro edito da San Paolo, da posizioni diverse, l’uno religioso e cappellano rettore di un ospedale, incarico che svolge da un ventennio, e l’altro, medico specialista in psicologia clinica e accademico, che si è allontanato dalle prospettive religiose ricevute dall’educazione cattolica in gioventù non trovandovi risposte di conforto dinanzi al dolore delle persone provate dalla malattia.
C’è una prefazione di Papa Francesco: «Sappiamo di non avere risposte pienamente persuasive davanti ai grandi interrogativi, soprattutto vicino al letto dei pazienti stessi. Anche questa è una forma di povertà, ma proprio perché ci riconosciamo poveri, ci rivolgiamo alla parola sempre buona e promettente del Vangelo, capace di aprire il nostro cuore alla speranza, quella speranza grande che attraversa il cuore di chi percorre il cammino dell’esistenza». Sottolinea l’importanza della prospettiva spirituale che aiuta a rispondere, in sintonia con le altre realtà coinvolte, alla domanda dei profondi bisogni dell’essere umano senza lasciarsi trascinare da logiche economiche, e augura un proficuo prosieguo di questo «dialogo tra l’ambito teologico-pastorale e clinico-psicologico con sempre maggiore efficacia, avendo la costante disponibilità ad affrontare aspetti tanto complessi».
Si tratta di un libro che non è solo di riferimento per la materia pastorale sanitaria ma mette in luce alcuni elementi che offrono spunti interessanti di stimolo e provocazione su cui interloquire anche con le diverse rappresentanze delle realtà istituzionali e politiche del mondo della salute nel Paese, come fa intendere nella postfazione il medico palliativista Augusto Caraceni, direttore SC di Cure Palliative all’Istituto nazionale dei Tumori – IRCSS di Milano e docente all’Università degli Studi di Milano.
Nel ripercorrere le loro esperienze personali e cogliendo il meglio l’uno dall’altro, gli Autori convergono su un quesito, cosa è l’assistenza spirituale e cercano di indagare su spiritualità e religiosità. Ammettono che non è stata ancora trovata una distinzione netta tra i due concetti, ma la spiritualità può essere definita una «ricerca di senso rispetto a quanto sta accadendo nella propria vita». Quest’ultima “si trasforma” in religiosità in una persona credente, un cammino di fede che si concluderà con l’incontro del Signore in Paradiso. Concetti teorici, difficili da calare nella vita reale di un paziente malato. Ma, come osserva Caraceni: «Non si giunge alla risoluzione della domanda, ma non era forse loro intenzione farlo. A chi scrive pare invece che essi aprano con lucidità e coraggio uno spazio a un dibattito che andrà affrontato e che, alla sensibilità di un operatore di cure palliative, suona attuale e necessaria, se si vuole riportare la medicina della parcellizzazione di saperi e interventi specialistici alla cura della persona».
Analizzano il significato profondo della spiritualità nel corso della malattia, danno spazio ad alcuni quesiti complessi e controversi: è possibile ottenere un legame fra medicina e spiritualità, nonostante i progressi tecnologici e la visione odierna degli ospedali come meri luoghi di profitto? Di cosa ha bisogno un malato che sente la sua vita giungere al termine? Proserpio spiega che «inizia ad essere richiesta, in particolare in contesti di medicina avanzata, una rinnovata disponibilità di cappellani formati al ruolo di testimoni e garanti delle istanze spirituali dei pazienti, a qualsiasi confessione appartengano». Ci vuole una collaborazione tra i due campi che riguardano la sfera emotiva: «Le discipline psicologiche possono aiutare il lavoro pastorale, ma possono anche essere aiutate», affermano.
Al concetto di speranza nella cura e alla speranza della cura viene dedicato un capitolo curato da Proserpio. Il compito dell’assistente spirituale è quello di stare vicino al paziente con piccoli gesti quotidiani, un sorriso, una parola di conforto, lacrime condivise che esprimono reale vicinanza. In una prospettiva religiosa, spiega il cappellano, ogni gesto diviene quel piccolo segno che riafferma in modo forse nuovo la speranza, e rende credibile, per quanti si identificano nella fede cristiana, la parola buona del Vangelo. L’attitudine alla speranza è, ci ricorda, una caratteristica profondamente umana, capace di raggiungere intensamente ogni persona, indipendentemente dalle diverse appartenenze religiose o culturali.
Allo stesso modo, aggiunge Proserpio, dell’accompagnamento dei malati e dei loro familiari è complesso il servizio di aiuto agli altri: «un’adeguata preparazione ed esperienza sul campo consentono all’operatore sanitario di intervenire con sicurezza nelle situazioni difficili e complicate. Si impara così a riconoscere per tempo, in se stessi, i segnali che indicano stanchezza, gestendo un adeguato spazio per bilanciare l’impegno clinico con l’altrettanto importante necessità di approfondire il vasto tema della ricerca scientifica, e concedendosi l’opportunità di trovare spazi per il riposo e il piacevole disimpegno. Un equilibrio così raggiunto consente di affrontare una lunga carriera professionale che sarà comunque segnata dal confronto con i limiti delle risorse di cura così come con la sofferenza, il dolore, l’angoscia, la paura della morte».
Il servizio di assistenza spirituale va formato adeguatamente per il luogo di cura e integrato con le altre équipe curanti, e non relegato a mera questione religiosa individuale. La società è cambiata, non tutti i malati riescono a riconoscere i propri bisogni spirituali. E parlando per l’ambito cattolico viene fatto notare come sia ormai del passato avvicinarsi ai malati partendo dai contenuti di fede; piuttosto, riporta il testo, mettersi in ascolto favorendo l’incontro e il dialogo; raramente il punto di partenza può essere la prospettiva religiosa; essere preparati significa orientarsi su un piano diverso rispetto a quello nel quale ci si muove, di solito, in ambito ecclesiale; alla preparazione teologica può trovarvi spazio altre formazioni specifiche all’interno di un contesto sanitario.
Pongono più volte l’accento sulla necessità di ripensare ad rimodulare la gestione delle strutture ospedaliere mettendo al centro la qualità delle relazioni – sanitarie e psicologiche e spirituali – con il paziente. Sarebbe opportuno organizzare corsi riguardanti la spiritualità nella cura nei vari master e università di medicina. Ad oggi sono poche le scuole di formazione che prevedano un corso simile nel loro piano di studi; una di queste è la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. Nonostante ciò, gli autori ci tengono a sottolineare che «mentre gli aspetti tecnici possono essere insegnati e appresi, l’attenzione all’umano è una caratteristica personale da sviluppare nel corso dell’esercizio della professione», lasciando intendere che i medici dovrebbero avere una propensione innata nell’aiutare un altro individuo in difficoltà.
© Bioetica News Torino, Aprile 2022 - Riproduzione Vietata