Pubblichiamo di seguito la presentazione premessa allo studio di Clara Di Mezza scritta dal Professor Maurizio Chiodi, docente ordinario di Teologia Morale presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano.
Dalla Prefazione del Prof. Maurizio Chiodi
Semplificando un po’ il mondo di emozioni che, dal punto di vista fenomenologico, nascono in un docente che collabora al “venire alla luce” di una tesi di dottorato e facendo concretamente riferimento a questo ponderoso lavoro di Clara Di Mezza, direi che il sentimento prevalente non può che essere di soddisfazione e di incitamento a proseguire la ricerca […].
Si deve ampiamente apprezzare il punto di partenza di questo studio che si concentra sul tema della sofferenza in Scheler, mantenendolo però all’interno della più complessiva evoluzione del suo pensiero. In ciò consiste il primo e fondamentale merito di questo libro.
“Fondatore” dell’antropologia filosofica, Scheler è molto attento alla quaestio dell’uomo sull’uomo e all’esperienza morale – la sua etica vuol essere “materiale”, nel senso di concreta – dei valori “intuitivamente” conosciuti. Nella teoria antropologica scheleriana è centrale il valore della persona che, sul piano morale, sta nel suo essere «bene in sé per me» . Qui sta il guadagno della sua filosofia e insieme anche il suo nodo critico. La domanda è se la teoria scheleriana dei valori e del valore della persona si avvalga fino in fondo delle risorse del metodo fenomenologico. È quanto Di Mezza fa notare accennando ai rapporti di Scheler con Husserl sotto il profilo storico-teorico e sottolineandone la convergenza di intenti e la differenza di prospettive. Per un verso infatti l’etica materiale scheleriana è la trasposizione nel mondo dei valori delle intuizioni eidetiche husserliane e la teoria dei valori suppone l’idea husserliana dell’intenzionalità – che designa «la correlazione intrinseca spontanea tra “coscienza” e “oggetto della coscienza”» – ma per altro verso il “materiale” di Scheler è diverso dal logico-trascendentale di Husserl, al punto che si può parlare qui di uno scisma ideologico, anche se non metodologico. Alla fine, però, il difetto radicale dell’una e dell’altra impostazione è che esse danno per scontata una sorta di trasparenza della coscienza a se stessa. Ciò che manca a questo modo di pensare il fenomenologico, è il riconoscimento della necessità dell’«innesto» in essa dell’ermeneutica, che solo tematizza la necessità di interpretare la coscienza attraverso la mediazione delle esperienze e dell’agire effettivo.
Analogamente, la domanda è se Scheler non sia ancora debitore di un accostamento reificante e sostanzialistico al soggetto – come appare nella stratificazione dei sentimenti o della vita emozionale, legata ad un’antropologia delle facoltà –, con l’aggravante di un certo platonismo, evidente, per esempio, nell’affermazione che tanto più i valori sono psicofisici e sensoriali tantomeno essi sono elevati o quando giustappone il vitale e lo spirituale. La stratificazione ritorna anche a proposito del dolore. In questa giustapposizione gerarchica, alla fine il patire non viene davvero apprezzato nella sua portata istruttiva e rivelatrice.
Risulta fuorviante identificare l’idea cristiana di dolore con quella di “sacrificio”
Concentrandosi sul tema specifico della sofferenza, nel saggio Vom Sinn des Leides, Di Mezza mostra con cura come le fasi della sua elaborazione, al di là dell’apparente unitarietà, rivelino segni evidenti dello sviluppo teorico della filosofia scheleriana, soprattutto nel passaggio dalla seconda fase (cristiana) alla terza, cosmologica e pan(en)teista. In questo testo, giustamente l’autrice mette anche in rilievo l’unilateralità dell’interpretazione del dolore nell’Antico Testamento e nel Nuovo Testamento la riduttiva lettura di Cristo come supremo “modello” di nobiltà. In modo analogo, risulta fuorviante identificare l’idea cristiana di dolore con quella di “sacrificio”.
Il secondo importante merito di questo volume è che, a partire da Scheler, esso sviluppa una riflessione teologica che intende andare oltre Scheler. La terza parte si propone infatti di riprendere in modo critico tre grandi nodi teorici emergenti dall’analisi precedente: la teoria della persona e la sua valenza morale, nella coscienza; la qualità antropologica della sofferenza come forma del patire, considerata nel suo nesso originario all’agire; la riflessione della sofferenza alla luce del compimento cristologico. A tal proposito, andando al di là di quanto Scheler scrive sul dolore nell’Antico e nel Nuovo Testamento, nell’ultima parte intitolata Il nesso fra agire e patire alla luce del compimento cristologico, Clara Di Mezza sceglie opportunamente di approfondire il confronto con Eb 5,8 – mettendolo poi in relazione a Eb 12,4-11 – un testo nel quale il patire di Gesù viene interpretato come una «istruzione» nella quale egli ha «imparato» l’ubbidienza della sua condizione filiale. In questo modo la lettera agli Ebrei mette in evidenza come la storia umana del Figlio di Dio sia, per noi, non semplicemente un modello esemplare ma anzitutto il compimento dell’umano e dunque la “via” alla nostra sequela di discepoli.
L’idea fondamentale suggerita da Clara Di Mezza è che nella passione e morte di Gesù, in quanto essa è obbedienza incondizionata al Padre, trova indeducibile compimento la originaria circolarità antropologica tra passività e attività. L’evento cristologico è dunque ciò che autorizza e fonda l’agire morale del credente, nella costitutiva dialettica umana tra patire ed agire. Di conseguenza, diversamente da quanto suggerisce Eb 12,7 («è per la vostra correzione che voi soffrite») con l’insufficiente traduzione di paideia con «correzione», il patire del credente non è la correzione che egli subisce da un Dio che lo castiga. Esso deve essere piuttosto interpretato come un momento costitutivo della prova che appartiene alla libera scelta della fede, che proprio come decisione della libertà è forma radicale della coscienza umana. In questo senso, evitando ogni degenerazione doloristica, anche il patire fa parte dell’«educazione» del credente: infatti a questi è chiesto, anche nel soffrire, di accordare credito incondizionato – in questo consiste la sua obbedienza di figlio – ad un Dio che per primo ha attraversato la prova rivelando proprio in essa la sua sovrabbondante ed eccedente prossimità e dedizione alla storia dell’uomo. L’appello inscritto nel dono grazioso di Dio attende la risposta incondizionata della libertà umana – come dice Giobbe 1,9: «per nulla» – nella quale soltanto la salvezza anticipata si realizza davvero per colui che la accoglie.
DI MEZZA C.
La sofferenza: subire o agire?
Una riflessione teologica, nel confronto con il pensiero di Max Scheler
Collana «Studia Taurinensia» 46
Effatà, Cantalupa 2015
€23,00
© Bioetica News Torino, Settembre 2015 - Riproduzione Vietata