«La ricerca sull’Alzheimer, un campo scientifico un tempo ritenuto un’impresa inutile, si è trasformata come d’incanto nella più grande delle sfide». Così scrive il brillante ricercatore in neuroscienze Joseph Jebelli nel suo libro (metà saggio scientifico, metà romanzo) La Battaglia Contro L’Alzheimer, edito da Mondadori. Il volume, afferma lo stesso Autore, «è un viaggio emotivo e coinvolgente, alla ricerca della memoria, dei suoi meccanismi e dei suoi significati, un viaggio animato dalla speranza che la cosa più preziosa di cui disponiamo non rimanga così impenetrabile ancora a lungo».
L’opera più ambiziosa di Jebelli, che raccoglie storie e ricerche provenienti da tutto il mondo (dall’Inghilterra all’India, dal Giappone all’Islanda) si suddivide in cinque parti tematiche. La prima parte si concentra sui primi rudimentali studi della malattia (attualmente, afferma il «The Guardian», la prima causa di morte in Inghilterra e Galles) condotti dal ricercatore tedesco Alois Alzheimer nei primi anni del ‘900, in una delle cliniche psichiatriche più importanti al mondo, la Casa per alienati ed epilettici di Francoforte. I suoi studi al microscopio sui cervelli affetti da tale patologia gli permisero di scoprire che negli spazi fra le cellule nervose erano presenti particelle di una sostanza scura e ignota che «avevano la forma raggrinzita delle cellule cerebrali morenti, ma con una consistenza frastagliata e irregolare, che le indicava chiaramente come entità separate [da quelle circostanti]». Fu la svolta del secolo: finalmente era possibile dimostrare la natura biologica dei disturbi mentali, in un’epoca in cui ancora si faticavano a comprendere le complesse teorie psicoanalitiche Freudiane. Per quanto epocale, la scoperta non destò particolare interesse negli illuminati del tempo; presentata al congresso scientifico di Tubinga nel 1906, la teoria di Alzheimer fu anzi aspramente criticata e giudicata dai più come “inappropriata”. Furono i due studiosi Robert Terry e Michael Kidd a compiere un decisivo passo in avanti nella conoscenza del morbo tramite l’utilizzo dell’allora innovativo microscopio elettronico, in grado, diversamente da quello ottico, di ingrandire gli oggetti fino a due milioni di volte. A uno sguardo più ravvicinato si scoprì che le placche scure e impenetrabili individuate in origine da Alzheimer erano costituite da «un’enorme massa di fili neri» intrecciati tra loro come filo spinato; si trattava di grovigli a doppia elica simili alla struttura del DNA. Maggiore era il numero delle placche, maggiore era il deterioramento intellettuale.
Gli anni Settanta, scrive Jebelli, furono il decennio più prolifico per la consapevolezza sulla demenza. A questo periodo risalgono l’istituzione della Alzheimer’s Disease Society (1978) e la scoperta da parte dello scienziato William Summers della tacrina, approvata dall’FDA nel 1993 come prima cura per l’Alzheimer, benché gli effettivi benefici fossero in realtà modesti.
La seconda parte è dedicata all’analisi delle ricerche condotte da esperti scienziati a livello internazionale che hanno tentato di dare una risposta agli innumerevoli quesiti posti dal morbo, riuscendo solo, però, a far sorgerne altri. Tra questi scienziati occorre ricordare Leonard Heston, che scoprì che i parenti dei malati di Alzheimer precoce «avevano più probabilità di sviluppare la malattia al raggiungimento della terza età»; e George Glenner, un patologo molecolare che riuscì a estrarre la proteina che formava il nucleo delle placche battezzandola ” β amiloide”.
Di particolare interesse sono gli studi condotti da Dale Schenk in merito a un potenziale vaccino contro l’ Alzheimer, un’idea semplice quanto innovativa. Il vaccino consisteva in una β amiloide sintetica che ingannava il cervello «facendogli pensare che gli invasori fossero le placche» stimolando dunque una forte reazione immunitaria. Un’idea allettante che però non provocò gli effetti desiderati: sebbene i test sugli animali avessero avuto risultati ottimali, diversa fu la risposta immunitaria dei pazienti sottoposti al test clinico, durante il quale molti di loro svilupparono una forte encefalite, pericolosa forma di infiammazione cerebrale.
Secondo lo studioso svedese Henrik Zetterberg, inoltre, sport violenti come il pugilato o il football americano possono provocare disturbi neurodegenerativi come il Parkinson, l’encefalopatia traumatica cronica e, probabilmente, aprire la strada all’Alzheimer, anche se l’effettivo rapporto tra i traumi sportivi e lo sviluppo del morbo sia ancora oggetto di dibattito.
La terza parte del volume si focalizza invece sulla prevenzione della malattia, partendo dal presupposto che il frenetico stile di vita dell’Occidente, dove di certo lo stress non manca, sia particolarmente dannoso per la salute. Scrive Jebelli: «non è chiaro se lo stress contribuisca all’Alzheimer, ma un numero crescente di studi sta dando credito a questa idea». Tuttavia, studi approfonditi hanno dimostrato che l’esposizione continua allo stress «fa contrarre i dendriti, strappa le sinapsi e arresta la capacità del cervello di produrre nuovi neuroni». Una riduzione dello stress quotidiano risulta quindi essere di primaria importanza per ridurre il rischio di insorgenza della malattia, insieme all’adozione di una salutare dieta mediterranea. Da non sottovalutare sono anche il regolare esercizio fisico, il sonno e la stimolazione dell’attività cerebrale, tramite il brain training.
La quarta parte ci introduce alle varie sperimentazioni messe in atto negli anni e all’affascinante concetto di medicina rigenerativa. Tra i più importanti studi condotti agli inizi degli anni Duemila vi è quello portato avanti dal ricercatore giapponese Shinya Yamanaka, il quale scoprì la possibilità di trasformare le cellule umane in cellule staminali. L’enormità di tale scoperta gli fece guadagnare il Nobel per la medicina nel 2012.
Altrettanto stupefacenti furono i risultati di un esperimento sui topi condotto dallo statunitense Clive McCay negli anni Cinquanta, il quale scoprì che «lo scambio costante di sangue tra ratti rendeva le ossa degli esemplari anziani più simili, in robustezza, a quelle dei giovani». Studi seguenti condotti da Wyss-Coray comprovarono l’effetto profondo del sangue giovane anche sulla memoria. Un’altra interessante ricerca basata sul paradigma dei prioni ipotizza, invece, la trasmissibilità dell’Alzheimer per via sanguigna, teoria che però non ha ancora (fortunatamente) ottenuto un riscontro empirico.
La quinta e ultima parte prende in analisi le scoperte più importanti messe a punto negli ultimi anni volte a debellare il morbo. Di forte pregnanza in questo senso è stata la scoperta, da parte dello studioso islandese Stefánsson di una mutazione genetica propria di una buona parte della popolazione islandese, in grado di offrire completa protezione contro l’Alzheimer. Molto interessanti sono inoltre le ricerche condotte da Mary Ganguli nei piccoli paesini dell’India, nei quali la vita basata sul lavoro nei campi e gli stretti rapporti familiari sembrano costituire un toccasana per la popolazione, che mantiene una certa prontezza mentale anche in età avanzata.
In conclusione, Jebelli afferma l’importanza di investire in nuovi fondi per la ricerca a favore dell’Alzheimer, ricordando che
Per quanto insidiosa e diffusa, a oltre un secolo dalla sua scoperta l’Alzheimer rimane una delle malattie meno conosciute, pericolosamente avvolta nel mistero. Investire nella ricerca in questo senso è dunque l’unica via per salvaguardare quella che Jane Austen definiva «la più straordinaria delle facoltà umane».
La battaglia contro l’Alzeimer
Il lungo viaggio alla ricerca della memoria
Mondadori, Milano 2018, pp. 320
€ 20,00
© Bioetica News Torino, Dicembre 2018 - Riproduzione Vietata