Per quanto la sanità italiana resti a tutti gli effetti una delle migliori in Europa, le incertezze sul futuro ne hanno inevitabilmente compromesso la funzionalità e le diseguaglianze nell’accesso e le prestazioni non omogenee hanno indotto il Censis a definirla “sanità del rancore”. Partono da questa considerazione nel loro nuovo volume Cura il tuo prossimo come te stesso, edito da Il Pensiero Scientifico Editore, i curatori Michele Colasanto e Mario Colombo proponendo alcune riflessioni su percorsi possibili attraverso i contributi dati al Convegno tenutosi a Milano il 18 ottobre scorso dallo stesso titolo da professionisti provenienti da settori differenti che hanno affrontato il tema della centralità della persona nella ricerca e nella cura. L’attenzione posta è sul paziente al centro della cura evitando inutili astrattismi e focalizzando invece sulle reali esperienze di dolore e sofferenza da lui vissute.
Nel percorso strutturato nel volume e orientato a trovare soluzioni, un ruolo fondamentale è giocato dal senso di responsabilità, che si estende oltre quella seppur primaria della politica e che richiede un coinvolgimento attivo dell’intero mondo della Sanità nell’individuazione di possibili soluzioni e miglioramenti. Uno di questi è senza dubbio la considerazione del paziente come elemento centrale nel processo di cura.
«Le strutture sanitarie in particolare dovrebbero essere chiamate a coniugare sostenibilità e qualità delle prestazioni secondo la propria specificità», scrivono nella presentazione Michele Colasanto, professore emerito di Sociologia del Lavoro dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e presidente dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano, e Mario Colombo, Direttore generale dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano e Professore emerito di Sociologia economica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Entrambi chiariscono che «le strutture sanitarie, come tutte quelle che hanno in evidenza i legami sociali, si configurano come “focolai” di vita morale, proiettano sull’esterno, sulla costruzione della “città”, la loro ricchezza valoriale, come suggerisce l’Arcivescovo Monsignor Mario Delpini nel suo intervento al convegno riportato in questo volume. Con questa idea di cura, con il malato-persona al centro, non la malattia, la società acquisisce una dimensione di equità, di riconoscimento dell’altro, e di attenzione alle fragilità. Una dimensione preziosa per la “polis”, ovvero per le scelte che definiscono le regole della convivenza sociale, ma che è al tempo stesso un “indicatore” di senso e valore per la vita di ogni componente il popolo della città».
È necessario, a tal fine, che venga assicurata una relazione medico-paziente fondata sul rispetto e sulla fiducia reciproci e sul riconoscimento della dignità della persona . Si tratta, chiaramente, di una visione che va oltre la semplice contrapposizione tra approccio biologico e approccio clinico. «Il malato non è mai semplicemente un malato: si tratta sempre di un uomo o una donna che vivono un momento di prova, di fragilità, di difficoltà, perché la malattia spezza i ritmi ordinari della vita e talvolta mette a dura prova sia la famiglia del malato che la persona direttamente interessata», scrive Monsignor Mario Delpini, Arcivescovo di Milano.
Vivere la cura come relazione e non come semplice erogazione di un servizio tecnico è l’obiettivo della Medicina del terzo millennio. Nel suo intervento il Professor Colasanto fa osservare che le difficoltà nell’applicare una prospettiva “personalista” alla pratica medica trova alcune ragioni nella «tradizione medica a lungo dominante, quella biomedica, di derivazione positivista che si è (è stata) imposta come modello scientifico per eccellenza in grado di determinare le cause ultime di ogni fenomeno». Questa tradizione promuove l’idea della centralità della malattia, non del malato e come spiega il professore con essa «è la parte ad essere curata, non il tutto che implicherebbe dover indagare tra le interdipendenze presenti nel corpo del malato stesso. È una posizione che si presta all’accusa di un meccanicismo dove l’innovazione tecnologica trova spazi di applicazione sempre più ampi e più diffusi in un processo evolutivo che oggi vede protagonista in particolare la ricerca genetica con la sua promessa di saper individuare in modo predittivo i fattori che causano determinati stati patologici».
Senza negare gli sviluppi scientifici con la biomedicina tale prospettiva comporta per il Professor Colasanto due considerazioni: «l’idea di un uomo-macchina mal si concilia con un’idea di persona che vale per ciò che è in ragione della sua totalità fisica e mentale» e che «la medicina finisce con il sottovalutare il valore della clinica, quella che si “china sul malato” e cerca di comprenderlo nelle interazioni presenti nel suo corpo e nei suoi comportamenti». Per l’Autore cogliere la persona e la sua centralità nella cura occorre superare la dicotomia tra malattia e malato. È proprio nella cura, dunque, che si dovrebbe percepire con maggiore evidenza il valore della persona».
Scienza e tecnica devono cooperare nel rispetto dei fondamentali elementi di moralità. Come asserisce Gianfranco Parati, cardiologo e Direttore scientifico dell’Istituto Auxologico italiano, «l’etica della scienza non può derivare dalla scienza stessa, ma deve basarsi su valori preesistenti a servizio della persona umana, avendo sempre come fine ultimo il bene integrale dell’uomo per rispettare pienamente in ciascun individuo la sua inalienabile dignità di persona, il diritto alla vita e l’integrità fisica sostanziale».
Si affacciano, a questo punto, questioni etiche tuttora al centro di animati dibattiti in tutto il mondo, come ad esempio quella del testamento biologico. Rispettare la volontà del paziente, afferma il Magistrato Giuseppe Anzani, significa sì che nessun trattamento può essere praticato senza il consenso libero e informato del malato, ma non suggerisce certo l’assecondamento di qualsiasi volontà espressa da quest’ultimo: «La legge dice che ci sono trattamenti che il paziente non può “esigere”. Esistono dunque richieste che non creano obblighi, se il tipo di condotta necessario a soddisfarle vìola i codici di deontologia professionale e buone pratiche clinico-assistenziali».
Il fattore chiave di separazione tra il vecchio approccio alla Medicina e il nuovo − asserisce Guido Coggi, Professore emerito di Anatomia Patologica all’Università di Milano − «è il concetto di complessità, intesa come cifra della società e dell’uomo, che ha portato alla riflessione sull’esigenza di una formazione più articolata, più consapevole del fatto che alla conoscenza della malattia e dei modi per curarla (che rimangono necessari), va affiancata una visione più globale, che consideri il complesso malato-malattia e non solo quest’ultima». Lo scopo della formazione non è più, dunque, soltanto la “produzione” di un dottore, ma la “creazione” di un professionista in grado di dimostrare capacità sia relazionali che tecniche. Da questo approccio moderno deriva anche la personalizzazione delle cure e la diversificazione delle terapie indirizzate a sottogruppi di pazienti nell’ambito della stessa patologia.
Si può affermare che il progresso della medicina e delle scienze ha portato ad accrescere enormemente le conoscenze finalizzate al prolungamento della vita, aiutando a debellare malattie un tempo letali e a migliorare o stabilizzare condizioni di salute estremamente critiche, anche prefigurando ipotesi di diagnosi predittive. Se è vero che la tecnologia e la biotecnologia possono aiutare a superare ogni limite nella cura delle persone, è altrettanto vero che il progresso galoppante impone nuove domande di natura etica e morale.
Nella prospettiva antropologica e spirituale che dà Monsignor Paolo Martinelli, OFMCap, Vescovo ausiliare di Milano, delegato per la pastorale sanitaria della Conferenza Episcopale Lombarda, occorre far distinzione fra atto clinico e arte terapeutica, l’uno medico e biomedico e l’altro che richiede una “comunità della cura”: «l’atto clinico sarà sempre più sofisticato e specialistico. Per questo sarà necessario fare in modo che tali interventi avvengano nell’orizzonte ampio dell’arte terapeutica che richiede il prendersi cura della persona in tutte le sue dimensioni, attraverso una molteplicità di figure che insieme collaborano. Infatti, ciascuno di noi è sempre un “io-in-relazione” ed anche l’esperienza della malattia chiede non solo la cura, ma anche la casa, ossia vicinanza di rapporti reali in cui il cuore dell’uomo trovi dimora».
COLASANTO M. − COLOMBO M. (eds.)
Cura il tuo prossimo come te stesso
La persona al centro della ricerca e delle cure
Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2019, pp. 156
€ 28,000
© Bioetica News Torino, Giugno 2019 - Riproduzione Vietata