Il dolore, la sofferenza e la malattia permeano la vita di ogni uomo e costituiscono una delle esperienze più personali, non soltanto dal punto di vista fisico, ma anche come evento morale ed esistenziale. Del nostro dolore non riusciamo a non occuparci poiché esso sconvolge ogni nostro tentativo di relegarlo in aree inaccessibili. Per questo diventa una fondamentale cartina di tornasole per valutare la capacità del pensiero umano di inserirlo nei suoi sistemi e soprattutto per mettere alla prova la sua più generale capacità di fare i conti con un’esperienza che rifugge da ogni sistematizzazione.
Molti si sono cimentati proprio in questo tentativo, ma non tutti hanno avuto il coraggio di affrontarlo “a viso aperto”. A questa categoria appartiene, senza ombra di dubbio, il saggio Aver cura di Dio, l’ultima fatica letteraria di Paolo Marino Cattorini, medico, filosofo, ma soprattutto esperto a livello nazionale di Bioetica, etica clinica e Medical Humanities.
Il testo, ricco di spunti e di suggestioni, ripensa le tradizionali soluzioni proposte dalla teodicea al problema del male e abbozza una linea di ricerca. Questo libro ― scrive nell’incipit l’Autore ― è dedicato in primo luogo a chi soffre […]. Il paziente, in condizioni estreme, cerca una ragione per continuare a vivere, nonostante e attraverso il negativo che lo opprime […]. Poiché non trova un alleato terreno, che lo liberi dai tormenti, chi soffre cerca un Dio che gli restituisca la gioia di vivere.
Affrontare un argomento così misterioso e importante per la vita umana, come la sofferenza, è un’impresa alquanto ardua. Consideriamo un aspetto dell’esistere umano a cui si addice più il silenzio che la parola, talmente è personale, enigmatico, scandaloso e inesauribile. Nella malattia, nella morte, nella sofferenza è implicato tutto l’uomo. Il dolore non è solo una questione tecnica, scientifica, sociale, giuridica, psicologica ed economica, ma attraversa tutto lo scibile umano e impone il rimando alle domande basilari dell’esistenza.
Emergono dall’opera alcuni temi appartenenti alla storia del sapere umano. Come è possibile che un Dio buono e potente permetta che il male ferisca in modo straziante il mondo da lui creato e amato? Quali strategie di resistenza sono praticabili da un credente, che sperimenti l’assurda irruzione del negativo nella sua vita e dei suoi cari?
Gesù Cristo, nella proposta e nella risposta di Cattorini, smaschera gli idoli di potenza e ci offre un’icona vulnerata, fragile, bisognosa, ferita e sofferente di Dio. La croce dà motivi di scandalo, ma il Cristianesimo annuncia una via di redenzione e impegna il credente a una risposta riconoscente: aver cura di Dio. Questa attitudine alimenta il desiderio di liberazione dal male, sostiene un’etica della prossimità verso i fratelli e verso il creato e custodisce la verità dei patti biblici. L’ottica del dolore conduce anche al superamento del dualismo sani/ammalati, per attingere il punto di vista della comunione solidale: la sofferenza, come situazione limite, è un luogo dove nascono domande che non appartengono a qualcuno in particolare, ma all’uomo come tale, a ciascun essere umano.
L’Autore parla infatti di una triplice cura: cura dell’altro, cura di sé, cura di Dio. Cura intesa ― prosegue ― come attitudine volta a restituire a Dio la gradita, promettente premura donataci da lui, unilateralmente e senza un nostro merito pregresso nel tempo della salvezza. Un’attitudine che tiene gli occhi fissi sull’icona visibile di tale amore, ossia sull’immagine incarnata del Cristo.
Nella sequela di Cristo rispondiamo positivamente all’invito divino di confermare la nostra alleanza con lui. Ci guida l’interrogativo se la vita umana debba inesorabilmente bloccarsi nel dualismo tra l’aspirazione di ognuno alla vita, all’amore, alla felicità e il fallimento del desiderio, che può coincidere con l’inesorabile scacco del dolore.
© Bioetica News Torino, Giugno 2022 - Riproduzione Vietata