Tumore è una parola che ha sempre richiamato concetti quali inguaribilità, incurabilità, morte. Molta strada è stata fatta negli ultimi anni, contribuendo a togliere questo alone negativo attorno alla parola “cancro”. Le malattie oncologiche sono un universo nel quale, tuttavia, i medici hanno messo ordine, classificandole e codificandole a seconda delle tipologie e degli stadi di gravità, elaborando al contempo protocolli consolidati a livello internazionale con nuove possibilità di cura e guarigione.
Alessandro Comandone, oncologo e ricercatore, riflette sulla bioetica del fine vita, ribadendo la necessità di evitare, per ogni patologia irreversibile, qualsiasi forma di accanimento terapeutico, evocando una proporzionalità delle cure ed una “presa in carico” globale che allontani lo spettro dell’eutanasia. Tutto ciò in una prospettiva che fondi il rapporto sanitario sull’alleanza terapeutica, crei tra medico e paziente un clima di fiducia reciproca attraverso l’accompagnamento umano, professionale e solidale. Inevitabili, nel contesto odierno, leggi appropriate, che permettano di agire in scienza e coscienza, supportando l’opera del sanitario, ma che, al contempo, tutelino il paziente ed il suo contesto familiare.
Le cure palliative con un’idonea terapia del dolore sollevano da inutili e gravose sofferenze, migliorano la qualità di una vita che volge al termine e restituiscono dignità alla persona fragile, recuperando una prospettiva in grado di dare una luce di speranza al mistero della morte.
Enrico LARGHERO
Il fine vita: aspetti scientifici*
Il concetto di fine vita è sempre stato ben presente nel pensiero religioso e nella storia della medicina, ma ha avuto una rilevanza marginale fino a quando i mezzi tecnologici e una nuova sensibilità scientifica, morale e sociale, non si sono evoluti.
Nella società contadina e protoindustriale il sacerdote appariva al capezzale del morente quando la povera medicina di allora aveva esaurito il suo compito. «Non c’è più niente da fare. Chiamate il prete». Era la frase che sanciva il passaggio delle ormai inutili cure mediche alle più necessarie cure spirituali.
Con l’evolvere delle cure mediche il fine vita si è trasformato. Oggi siamo di fronte ad una Medicina che cura sempre di più, ma cronicizza e non elimina la maggior parte delle malattie. Prolunga la sopravvivenza del malato, senza purtroppo riportarlo in uno stato di validità e di piena salute.
Come conseguenza di questa evoluzione della scienza medica negli ultimi cinquant’anni si sono sviluppati i concetti di terapia di supporto, di cure palliative, di terapie proporzionate e sproporzionate e di accanimento terapeutico. Pur non volendo stabilire delle date precise, ritengo che le comuni storie del fine vita di due uomini di stato degli anni ’70 abbiano fatto nascere questa nuova coscienza della medicina. Sto parlando di Tito padre e padrone dell’allora esistente Jugoslavia e di Francisco Franco dittatore della Spagna.
In entrambi i casi si temeva che la morte dei due personaggi potesse creare un vuoto di potere letale per le due nazioni. Dunque per avviare una successione il più possibile solida, si escogitò il prolungamento esasperato della vita di entrambi gli statisti. La scelta di accanimento terapeutico portò buoni frutti in Spagna che conobbe finalmente la democrazia. Portò invece al disastro la Jugoslavia che, dopo 10 anni di guerra crudelissima si disintegrò come un puzzle smembrato.
Da questi tempi ormai lontani, eravamo rispettivamente nel 1974 e 1976, i concetti di accanimento terapeutico, di sopravvivenza in stato vegetativo, di prolungamento delle cure oltre il limite sono diventate patrimonio comune del linguaggio del nostro tempo. A questi esempi dell’onnipotenza vana della medicina si contrappone una richiesta che ha la stessa origine: la richiesta di legalizzazione dell’eutanasia “quando la vita non ha più senso”.
Ma che cos’è scientificamente il fine vita? Quello che intuitivamente ci sembra facile spiegare e definire (sono i tempi ultimi della nostra vita terrena) acquisisce sfumature e connotati diversi. Il fine vita di un giovane di 20 anni che entra in stato vegetativo dopo un incidente stradale ma che potenzialmente è reversibile, è ben diverso dal fine vita di una persona anziana che ha esaurito le sue riserve vitali o di un malato cronico, oncologico, cardiopatico, nefropatico, pneumologico, o con malattie degenerative neurologiche in cui le cure attive non servono più, ma per il quale si può ancora fare moltissimo per alleviare le sofferenze. La fase terminale di una malattia cronica è un tempo molto variabile in cui i trattamenti di supporto e antidolorifici prendono il posto delle cure specifiche della situazione patologica causa dello stato terminale. Ecco perché oggi in medicina il vecchio aforisma «Non c’è più niente da fare» non ha più senso. C’è sempre qualcosa da fare per aiutare il Malato e la Famiglia ad affrontare questo difficile momento.
La stessa OMS, organizzazione assolutamente laica, riconosce che il morente può essere aiutato in molti modi, venendo incontro alle sue necessità: bisogno di sicurezza di non essere abbandonato; bisogno di appartenenza alla vita residua e agli affetti; bisogno di sentirsi ascoltato; bisogno di sentirsi accettato anche in questa fase di estrema debolezza; bisogno di essere coinvolto nei processi decisionali; bisogno infine di una consolidata fiducia nella famiglia e nei curanti (Dal codice OMS per le persone morenti).
Ecco perché l’eutanasia non è un problema così importante come alcune forze laiciste tendono a far credere. Anche un grande laico quale Umberto Veronesi, attanagliato a sua volta da una malattia mortale scriveva: «per non arrivare all’eutanasia c’è un obiettivo fondamentale da raggiungere: prevenire il desiderio di morte facendo il possibile perché il malato terminale non arrivi a un tale stato di sofferenza. Se è curato bene e con amore, difficilmente il malato chiede di morire». Ovviamente tutto va dosato con sapienza, condivisione, comprensione. Quando il medico è al capezzale di un malato terminale deve diventare un ago della bilancia che si oppone ai due estremi: l’abbandono che condanna il Malato e la Famiglia alla solitudine e l’accanimento con cure inutili procrastinate senza motivo. Pensiamo alle chemioterapie antitumorali praticate nell’ultimo mese di vita, fonte esse stesse di sofferenze per la tossicità che determinano, praticate solo per soddisfare la richiesta dei famigliari di «tentare ancora qualcosa».
Sulla fase terminale e sulle cure del fine vita sono ormai stati versati fiumi di inchiostro sia dal punto di vista scientifico, che giuridico che di analisi sociologica ed etica. Pensiamo alla legge n. 38 sul controllo del dolore del 15 maggio 2010 e alla legge n. 219 sulle disposizioni di fine vita del 22 dicembre 2017.
Personalmente credo che entrambe le leggi siano testi onorevoli e degni di una nazione civile ed evoluta. Soprattutto per la legge sulle disposizioni di fine vita, occorre evitare interpretazioni esagerate dalle parti contrapposte, ma va colto lo spirito più positivo del legislatore in quanto «promuove la consapevolezza delle questioni in dibattito, riafferma il principio del consenso ai trattamenti, ribadisce il rifiuto di ogni irragionevole ostinazione terapeutica, imposta in modo moderno la relazione Medico-Paziente e non presta il fianco a derive nella direzione dell’eutanasia». (Gruppo di studio sulla bioetica di «Aggiornamenti Sociali» 2017).
Note
* L’articolo è apparso nel periodico settimanale «La Voce e il Tempo» del 2 giugno 2019, p.24, Che cos’è il fine vita? Si ringrazia il direttore Alberto Riccadonna de «La Voce e il Tempo» per averci concesso la pubblicazione.
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