Di fronte a un’opera come Io sono ancora qui (Ainda Estou Aqui), la nuova fatica cinematografica di Walter Salles, lo spettatore non può che cedere all’urgenza della memoria. Ambientato in Brasile nei primi anni Settanta, durante il periodo più cupo della dittatura militare, il film riporta alla luce non solo un dramma personale ma anche una pagina dimenticata – per meglio dire, colpevolmente rimossa – della storia sudamericana. E lo fa attraverso una narrazione sobria, misurata e potentemente emotiva che ha il suo cuore pulsante in Fernanda Torres, interprete monumentale e al tempo stesso sottilissima, capace di scolpire sul grande schermo uno dei personaggi femminili più toccanti degli ultimi anni.
Il film prende spunto dalla tragica vicenda di Rubens Paiva, ex deputato e ingegnere, prelevato senza spiegazioni da uomini del regime nel 1971 e mai più tornato a casa. Ma Salles – già regista di Central do Brasil – evita la trappola del biopic o della denuncia gridata. Preferisce piuttosto affidarsi ai silenzi, alle ellissi narrative, agli sguardi che si perdono nel vuoto. In questa grammatica del non detto, Io sono ancora qui costruisce una tensione crescente, quasi kafkiana, in cui l’orrore politico si insinua lentamente nella quotidianità.
Sin dall’incipit è chiaro che il film non è solo un resoconto storico ma un viaggio nell’interiorità di una donna. Eunice Paiva, interpretata con sensibilità e rigore da Fernanda Torres, emerge fin da subito come figura centrale: moglie, madre, cittadina, sopravvissuta. Il suo sguardo diventa il filtro attraverso cui osserviamo l’erosione lenta e dolorosa della normalità, la trasformazione della casa in prigione mentale, la maternità ferita, la forza ostinata di chi cerca verità in un Paese che, allora come oggi, sembra avere paura della giustizia.
Torres, in questo ruolo, compie un autentico atto d’arte. Conosciutissima in patria – è figlia della leggendaria Fernanda Montenegro – ma finora relativamente ignota al pubblico internazionale, l’attrice offre una performance calibrata, stratificata, mai compiaciuta. Evita ogni tentazione melodrammatica e costruisce il dolore di Eunice come una presenza costante, sorda, ineluttabile. Ogni gesto è pensato, ogni espressione è levigata dalla vita vera. È una prova attoriale che merita di essere studiata, non solo ammirata.
La regia di Salles accompagna l’interpretazione con mano ferma e visione lucida. La fotografia è volutamente desaturata, quasi a suggerire l’annichilimento progressivo della speranza. Le musiche tropicaliste, i costumi d’epoca, la cura filologica nella ricostruzione ambientale non sono mai calligrafici: sono parte di una narrazione organica, dove ogni elemento ha una funzione drammatica.
Ma è nella seconda parte del film, quando il tempo narrativo si frattura e l’assenza diventa memoria, che Io sono ancora qui tocca le sue vette più alte. I flashforward mostrano una Eunice invecchiata (interpretata proprio da Fernanda Montenegro), stanca ma non domata, e completano il cerchio tragico eppure luminoso di una vita dedicata alla verità. Il passaggio di testimone tra madre e figlia – nella realtà e nella finzione – è uno dei momenti più commoventi e simbolici dell’intero film.
Io sono ancora qui non è solo un film necessario: è un film urgente. In un Brasile contemporaneo attraversato da rigurgiti nostalgici verso il passato autoritario, questa pellicola rappresenta un atto politico, civile e umano. E lo fa con l’eleganza della grande arte, senza proclami, ma con una forza silenziosa che resta.
Fernanda Torres, attraverso Eunice, ci ricorda che il dolore non è mai solo individuale e che la memoria, per quanto fragile, è l’unico antidoto possibile all’oblio. È giunto il momento che anche il mondo, oltre il Brasile, si accorga di lei. E non la dimentichi più.
© Bioetica News Torino, Aprile 2025 - Riproduzione Vietata