Lucia è una mamma single che vive con il figlio Gabriel, un ragazzo di 17 anni. Il marito si è allontanato dopo alla morte della primogenita Anna, malata di leucemia, 7 anni prima. Lucia, infermiera in una casa di cura per anziani situata nell'estremo Nord Italia, cerca di superare il trauma attraverso il rapporto con gli ospiti della struttura, malati terminali che si riveleranno dei veri e propri maestri di vita in grado di dimostrarle che anche dal buio più completo, come quello generato dalla morte di un figlio, può sgorgare nuova luce.
La malattia terminale e il flusso tumultuoso di emozioni che essa porta con sé sono temi che il cinema contemporaneo affronta dedicando alcune delle migliori pellicole degli ultimi due decenni.
Al Dio Ignoto (Italia – Germania 2019), che riprende il titolo di una famosa poesia di Nietsche, rappresenta un ultimo lavoro dell’acclamato regista Rodolfo Bisatti, allievo dell’indimenticato Ermanno Olmi: è una storia di coraggio e speranza, capace di affrontare il difficile tema della morte con pudore e delicatezza mediante la complicità di una acuta sceneggiatura e fotografia luminosa in grado di “vestire” alla perfezione ogni ambientazione.
L’estro registico è stato volutamente messo da parte, in modo da assicurare più spazio possibile al racconto dei drammi intimi vissuti dai pazienti, alla travagliata narrazione della malattia che, lungi dal divenire melanconico espediente per suggestionare lo spettatore, si rivela invece un potente strumento di riflessione sul come prendersi cura quando non vi è più possibilità di guarire. Si entra nel mondo degli hospice laddove il modello di cura di lenimento del dolore in fase terminale, abbraccia in modo olistico tutta la persona, che si fa all’insegnamento lasciato dall’antesignana delle cure palliative, l’infermiera e medico britannico Cicely Saunders.
Rodolfo Bisatti si rende regista invisibile: sono infatti le immagini, in tutta la loro veemente verosimiglianza, che raccontano la storia, seguendo un flusso ininterrotto di pensieri. Una scelta di stile che prende decisamente le distanze da quell’istrionismo felliniano a cui ci aveva abituati il classico cinema d’essai italiano. Al Dio Ignoto ci spinge ad affrontare un doloroso viaggio dell’animo umano, con una crudezza spesso quasi insopportabile. All’asprezza degli eventi narrati fa da contraltare la natura lussureggiante che cresce al di là delle mura della casa di riposo: le alte catene montuose, spesso immortalate dalla macchina da presa, paiono quasi avvolgere in un abbraccio sempiterno gli uomini e le loro sofferenze.
Dalla struttura fortemente intimista e riflessiva, il film si snoda in un perfetto equilibrio tra la cupezza degli eventi e la luminosità armonica della scenografia, allontanando il pericolo di un’eccessiva pesantezza.
«In questi giorni mi fanno orrore le certezze, i dispensatori di verità scientificamente approvate», afferma Bisatti,
Con “Al Dio ignoto” abbiamo voluto soltanto avvicinarci al dolore con il dovuto riguardo, senza fare troppo rumore, per dire ‘ci siamo, con il dolore è possibile dialogare’. Il film risponde a due domande: La Vita? La Morte? La Vita va vissuta e non vegetata, la Morte va vissuta e non subita. E ancora: la medicina va utilizzata per ciò che può offrire, ma nessun medico avrà mai il diritto di diventare proprietario di un corpo; ogni corpo ha una sua sacralità inviolabile. Se osservate con attenzione il film, vi accorgerete che c’è un sottotesto che consiglia alla medicina di umanizzarsi.
Il film è disponibile dal 23 aprile in versione acquistabile o a noleggio, sulla piattaforma Chili.
© Bioetica News Torino, Luglio 2020 - Riproduzione Vietata