Un dettagliato excursus sulla storia della disciplina bioetica, dagli studi di Fritz Jahr negli anni '20 del secolo scorso ai più moderni approcci di studio.
La Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), redatta nel lontano 1948, definì la salute «stato di completo benessere fisico, psichico e sociale». Una definizione piuttosto generica che dilatò il concetto di salute oltre i confini preesistenti, rendendo pressoché utopistico il reale raggiungimento di uno stato di totale benessere dell’individuo, da sempre in guerra contro i grandi e i piccoli malesseri quotidiani.
A tale imprecisa definizione ha fatto seguito la tendenza generalizzata a considerare l’assenza di una malattia conclamata come condizione insufficiente per riconoscere uno stato di buona salute. Ecco dunque che ogni piccolo disagio viene immediatamente medicalizzato, dalla menopausa allo stress dovuto al lavoro. Chi è oppresso dalla malattia o da generali condizioni di debolezza fisica e cognitiva, in questa nostra frenetica società del progresso, sembra non aver più il diritto di essere rispettato e tutelato.
Il nuovo libro del professore Giuseppe Zeppegno, Dottore di Ricerca in Morale e Bioetica, nonché direttore del Ciclo di Specializzazione in Teologia della Facoltà di Teologia di Torino, è intitolato Il dibattito Bioetico. Da Fritz Jahr al Postumanesimo, edito da IfPress. Analizza, in un’ottica bioetica, il valore della vita all’interno di una società che rifugge e teme ogni tipo di debolezza fisica o mentale partendo dai primi studi bioetici di Fritz Jahr negli anni Venti alle teorie di Van Rensselaer Potter degli anni ’70 del secolo scorso.
Comincia con la consapevolezza che l’uomo non vale per quello che fa, ma per quello che è. «La vita umana ha senso non solo quando è nel pieno delle sue potenzialità, ma anche quando percorre le fasi meno produttive», scrive Zeppegno, «verrà poi anche la morte. Oggi volutamente fingiamo di dimenticarla, viviamo nell’illusione che non busserà mai alla nostra porta. Comunque arriverà e sarà molto più triste e drammatica se ci coglierà impreparati. Chi saprà prepararsi a questo evento ultimo dell’esperienza terrena, invece, vivrà in una maggiore e per certi versi rassicurante serenità».
Il secondo, obiettivo dell’opera, è risvegliare l’interesse non solo verso la cura degli esseri umani, ma anche verso la natura, senza la quale l’uomo non avrebbe speranza di vita. «Nel nostro tempo la natura è costantemente e in mille modi vilipesa», afferma l’Autore, «nel corso dei secoli la natura [ha continuato] ad essere presentata come una realtà disordinata e caotica pienamente dominabile dall’uomo. Il progresso tecno-scientifico del XX secolo portò però con sé nuovi problemi e nuove prospettive. Si avvertì sempre più l’esigenza di porre attenzione all’inquinamento, agli sconvolgimenti climatici, alle catastrofi provocate dall’attività sconsiderata ed imprudente dell’uomo. La tradizionale riflessione morale non sembrava più in grado di prendere su di sé questo compito. Occorreva una nuova assunzione di responsabilità interdisciplinare per ridefinire le adeguate possibilità di intervento sulla vita umana e sulla natura».
Una missione insidiosa e complessa di cui si è fatta carico la disciplina bioetica, da sempre tesa verso il superamento delle tematiche prettamente medico-scientifiche nell’intento di «riscoprire l’urgenza di prestare attenzione all’intero ecosistema e a tutte le sue componenti». Come ricordava Maurizio Faggioni, citato da Zeppegno, la bioetica ha «il compito immane e affascinante di dare pienezza di senso alle nostre conoscenze nel campo delle scienze della vita e della salute e orientare l’espandersi delle conoscenze tecniche e scientifiche verso il bene autentico e integrale dell’uomo, rispettando gli equilibri naturali del pianeta nel contesto dei quali si dispiega la sua avventura».
© Bioetica News Torino, Settembre 2020 - Riproduzione Vietata