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Il caso di Bologna. Ovociti congelati, la ricerca non dimentichi l’etica

23 Gennaio 2016

La scarsità di ovociti disponibili per la fecondazione eterologa ha indotto medici e coppie a sperimentare l’uso di quelli in giacenza a meno 196 gradi sotto zero. Al Policlinico S. Orsola Malpighi di Bologna si è così ottenuta per la prima volta una gravidanza eterologa da un ovocita crioconservato da un decennio, donato gratuitamente dalla donna che lo aveva messo da parte per un trattamento di fecondazione artificiale omologa.

«La dimensione della gratuità è per noi fondamentale – ha commentato Eleonora Porcu, direttrice del centro di Procreazione medicalmente assistita (Pma) del S. Orsola e vicepresidente del Consiglio superiore di sanità (Css) – e si affianca a risultati scientifici di grande rilievo: in letteratura ci sono gravidanze da ovociti congelati da 10 anni, ma per fecondazioni omologhe».

Le prime gravidanze da ovociti crioconservati si sono ottenute a metà degli anni ’80 del secolo scorso, ma gli eventi erano episodici e l’efficienza della tecnica bassissima. Dopo un periodo di abbandono, nel 1997 proprio gli studi di Eleonora Porcu riportavano al successo questa tecnica. Restava il dubbio sulla resistenza nel tempo delle cellule sottozero e della loro sopravvivenza al momento dello scongelamento, ma la gestazione in corso dimostra che anche dopo un periodo così lungo un risultato positivo è possibile, addirittura nel corpo di un’altra donna.

Un esito straordinario che però deve confrontarsi con le obiezioni etiche sulla fecondazione eterologa e sul possibile utilizzo disinvolto della crioconservazione di ovociti. Da un lato infatti, è questo un trattamento indispensabile nella conservazione della fertilità femminile in vista di terapie, come quelle oncologiche, che possono danneggiare irreparabilmente il sistema riproduttivo, una finalità cui guarda con attenzione e favore anche il Piano nazionale per la fertilità. Ma l’avanzamento della tecnica ha prestato il fianco a utilizzi strumentali quali l’indurre le giovani dipendenti al congelamento della propria fertilità per posticipare una gravidanza a un’età molto più avanzata.

Una pratica molto in voga soprattutto negli Stati Uniti che incontra la netta opposizione della Porcu: «Una chance sopravvalutata di avere figli, un’altra schiavitù alla quale è sottoposta la donna come schiavitù è l’utero in affitto». Altro elemento da non tralasciare riguarda una delle principali difficoltà nell’egg sharing: l’età della donatrice. La qualità dei gameti decresce al crescere dell’età della donna, ovvero, più si è avanti con gli anni e maggiore è l’aumento dei fattori di rischio di tipo genetico che rende preferibili gli ovociti “giovani”.

È questa una delle ragioni dello scarso successo in Italia: le donne che si sottopongono a tecniche di Pma e che potrebbero donare i loro gameti ad altre, raramente si situano nell’intervallo compreso tra i 20 e i 35 anni, lo stesso individuato e consentito dal Regolamento messo a punto dal ministero della Salute su indicazione del Css. Ne consegue che difficilmente una donna alla ricerca di una gravidanza eterologa sceglierà gli ovociti poco fecondi di una coeva, come dimostrano le pubblicità delle cliniche procreative all’estero: per garantire la qualità del prodotto vantano “donatrici” molto giovani.

Emanuela Vinai
Fonte: «Avvenire.it»

Redazione Bioetica News Torino