La mia breve riflessione si pone in un quadro teologico, ma ciò non intende in alcun modo pregiudicare la qualità antropologica degli argomenti. Difatti, l’approccio teologico non conferisce necessariamente un taglio dogmatico ed eteronomo alla riflessione sul tema della sofferenza umana, bensì permette di istruire ed arricchire la questione antropologica a partire dalla specifica esperienza del credente. Ed è proprio dalla personale esperienza di donna credente che desidero partire, condividendo alcune riflessioni sul dolore, frutto di un particolare periodo di fragilità.
Prima di tutto occorre precisare che in questo breve scritto saranno spesso utilizzati i termini dolore, patire, sofferenza indistintamente, ma in realtà hanno significati ben diversi. Difatti, la sofferenza non comporta necessariamente dolore ed il patire ha una valenza più ampia della sofferenza. La sofferenza non coincide con il patire, in quanto se da un lato è indubitabile che il soffrire sia una forma del patire, d’altro lato non ogni “patire” è un soffrire. In realtà, così mi pare si debba dire, nel “patire” si designa tutto ciò che la coscienza patisce e subisce: il patire coincide con il pathos della vita e dunque è costituito da tutte le affezioni, la passività, le emozioni, gli affetti, i desideri che “toccano” la vita dell’uomo.
Fatta questa premessa, durante il mio periodo di malattia ho compreso che ogni persona, e in particolar modo chi è credente, dinanzi alla sofferenza dell’altro non può e non deve cercare di dare un senso o una spiegazione consolatoria partendo “dall’alto”, ovvero da concetti e pensieri astratti. Persino una riflessione teorica sulla fragilità umana nel tempo della malattia non può essere pensata in forma astratta. Per comprendere la sofferenza, segno tangibile e concreto della fragilità umana, occorre anzitutto pensare più complessivamente la fragilità della vita umana tutta, e a questo proposito l’istruzione migliore mi pare quella di una fenomenologia ermeneutica delle esperienze fondamentali del vivere. Queste sono tutte segnate e “‘affette” dalla fragilità: c’è una fragilità del nascere, del morire, del patire, così come c’è una fragilità del desiderare, dell’amare… Solo elaborando concretamente una tale fenomenologia si potrà precisare il senso della fragilità umana.
Per parlare di senso della sofferenza con chi sta “attraversando” il dolore non è corretto partire dal piano teologico/cristologico. Partiamo “dal basso”! Comprendiamo prima chi è l’uomo e poi arriviamo a Cristo, vero Uomo, la cui croce è stata ed è fonte di salvezza. La sofferenza, proprio come la persona, unica e irripetibile, è singolarissima. La rottura di un equilibrio organico, psichico o sociale provoca sofferenza e in ogni sofferenza si ha sempre qualcosa di incomprensibile e indicibile. La sofferenza è un enigma di non facile comprensione e risoluzione, ma che sempre e comunque porta la persona all’azione. Infatti, il dolore non è solo un subire ma anche un agire, perché fa conoscere meglio noi stessi, ci fa interrogare, riflettere, fa conoscere i veri valori dell’esistenza, il senso autentico della vita. Inoltre, prendere coscienza della propria fragilità significa prendere atto che nessuna persona è onnipotente. La libertà individuale si costruisce comprendendo i propri limiti (fisici, intellettivi, affettivi, relativi alla volontà…). Per assumere la sofferenza in modo umanizzante bisogna passare attraverso il riconoscimento concreto di tali limiti. Occorre vivere la propria fragilità nell’umiltà, cioè nell’accettazione serena dei limiti umani. L’umiltà porta a fidarsi dell’altro e a superare la tentazione di offrire un’immagine sempre perfetta di sé. Il malato con l’umiltà impara a presentarsi così agli altri e a considerarsi sempre un essere pieno di dignità davanti agli uomini e davanti a Dio. Purtroppo oggi l’uomo vive in una società dalle mille contraddizioni: se da un lato si tende a condividere con amici e conoscenti ogni istante della vita (lavoro, divertimento, sport, vacanze…) sui social, dall’altro c’è un atteggiamento di nascondimento, per cui si ha quasi paura di mostrare i momenti della propria fragilità. Tendiamo a rimuovere e a nascondere la sofferenza e la morte soprattutto ai più giovani. A tal proposito, ritengo sia utile e opportuno rivalutare questo problema in relazione all’educazione dei ragazzi, a scuola così come in famiglia.
Un ulteriore punto della mia riflessione sulla sofferenza si pone in relazione alla temporalità. In quanto essere che vive nel tempo, la persona umana affronta la sofferenza mobilitando il passato, il presente e il futuro. Il passato interviene sul vissuto di chi soffre (fenomeni di regressione, ricerca di rassicurazione, ricerca di senso, sensi di colpa). Il presente, invece, va compreso e vissuto, per cui occorre aiutare chi soffre a vivere la propria situazione dando valore ad ogni fase della vita. Ogni evento, anche difficile, può assumere un valore etico. Il combattimento della fede, della speranza e dell’amore, può trasformare il senso di disfatta in un percorso che porta a essere maggiormente uomo e donna. Occorre imparare a non avere paura dei propri dubbi, ma a saperli affrontare e assumere. Il Vangelo ci insegna che Colui la cui vita sembrava volta al fallimento, diventa al contrario la Via dell’uomo e in particolare dell’uomo sofferente (Gv 14,5). Il futuro, infine, inteso come avvenire della persona, viene sempre affrontato in maniera ambivalente: è oggetto di apprensione e/o di speranze. La sofferenza riattiva in modo particolare tale ambivalenza e l’etica deve tenerne conto. Subentra la paura dell’isolamento e dell’abbandono, la paura del dolore fisico e di non saperlo gestire, soprattutto se già sono state sperimentate certe situazioni di dolore. Il malato e colui che lo accompagna nel suo percorso, devono saper parlare con queste paure, che talvolta si rafforzano a vicenda.
Il male, il dolore, la sofferenza, sono diventati gli argomenti contro Dio nel tempo della postmodernità. Non si comprende perché un Dio definito Padre, Onnipotente e Somma Bontà, possa permettere il male e la sofferenza. Siamo a uno dei punti nodali della nostra cultura, uno degli scogli dell’attuale evangelizzazione. Un problema dall’immensa portata: i due attributi fondamentali della natura di Dio, la bontà assoluta e l’onnipotenza, non sembrano essere compatibili fra loro. Dobbiamo scegliere! Certo non possiamo toglier la bontà, cioè la volontà al Bene, che è inseparabile dal nostro concetto di Dio e non può sottostare a nessuna limitazione. Rimane in questione l’onnipotenza. Dio è buono nonostante l’esistenza del male, ma forse non è onnipotente. La sua onnipotenza è in divenire. Ma c’è una terza soluzione: Dio può mantenere i suoi attributi che la Rivelazione e la Tradizione gli hanno sempre riconosciuto se l’onnipotenza non è assoluta perché incapace di oltrepassare il muro dell’assurdo? Il teologo catalano Andrés Torres Queiruga è una delle voci odierne fra i teologi che si stanno orientando per una terza via basata sull’affermazione giovannea che Dio è Amore. Il teologo, infatti, afferma:
La fragilità appartiene all’esperienza umana e la sofferenza, segno concreto e tangibile di tale fragilità, è esperienza originaria, cioè costitutiva, della persona umana. Se facciamo nostra questa verità, non cadiamo nella tentazione di attribuire a qualcosa fuori di noi, ad Altro, a Dio, la causa del nostro dolore. Capire che la sofferenza “tocca” e “riguarda” tutti, significa non cedere al grido disperato: «Dio mio perché proprio a me? Cosa ho fatto di male per meritare questo dolore? Perché Dio permette tutto ciò?». Comprendere che la sofferenza è esperienza fondamentale e ineludibile della vita, significa pensare una interpretazione organica e sistematica della persona umana che aiuti a comprendere e a vivere il senso del difficile tempo della sofferenza.
Proprio per il suo potere “sorprendente”, la sofferenza dischiude un senso nuovo, nel quale vengono cambiate e sconvolte le relazioni con gli altri, con il lavoro, con se stessi, e perfino con Dio. La malattia spinge e “costringe” la persona a prendere diversa coscienza dei significati delle scelte e delle azioni, iniziando un processo di reinterpretazione e di decisione a proposito di sé, ponendo radicalmente il senso della vita. In questa opera di “ri-narrazione”, la malattia contribuisce alla rivelazione della verità del sé, e cioè del suo essere corporeo e in relazione e della necessità di vivere relazioni di fiducia.
In tale ottica, la malattia non è un accidente, ma una vera e propria condizione rivelatrice del senso universale della vita umana e del suo carattere di impresa morale. Ecco perché anche la bioetica deve imparare a riflettere non solo sui mezzi con cui intervenire direttamente sulle forme di sofferenza, ma anche sul modo di aiutare il malato ad assumere nella maniera migliore possibile la propria responsabilità etica davanti a quanto gli accade. Volendo fare un esempio, possiamo dire che certamente dinanzi a un malato dolorante non è importante fare bei discorsi religiosi o filosofici, ma somministrare le cure corrette. Però, dinanzi ad un anziano da tempo infermo, che invoca la morte, può essere urgente aiutarlo a scoprire che la sua vita e la sua presenza esercita ancora una fecondità su quanti gli vivono accanto, e che Gesù Cristo, con la Sua croce e risurrezione, gli dischiude un avvenire.
Riferimenti bibliografici
CHIODI C., Etica della vita, Glossa, Milano 2006
ID., L’enigma della sofferenza e la testimonianza della cura, Glossa, Milano 2003
FROSINI G., Il male sconfitta di Dio? Riflessioni sulla sofferenza, Elledici, Torino 2019
THÉVENOT X., Breve introduzione alla bioetica, Queriniana, Brescia 2016
TORRES QUEIRUGA A., Quale futuro per la fede? , Elledici, Torino 2013
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