I giovani sono una formidabile cartina di tornasole per cogliere lo spirito del tempo. Questo vale anche nell’ambito della sfera religiosa. Nel nostro tempo, si è ormai consumata la situazione di «cristianità», ossia la sovrapposizione tra l’appartenenza ecclesiale e l’appartenenza sociale. La fede cristiana di conseguenza non rappresenta più l’opzione predefinita; il «cattolicesimo per inerzia» ha perso quasi totalmente la sua spinta. Le nuove generazioni sono appunto il riflesso evidente di questa profonda trasformazione.
Potremmo parlare di una «opzionalizzazione» dell’esperienza religiosa. Per un verso, il rapporto con Dio è avvertito come un optional, ossia come un accessorio facoltativo per realizzare una vita buona. Per altro verso, tuttavia, proprio perché il rapporto con Dio non è più necessario, esso può venire riscoperto come una opzione, ovvero come una scelta libera e responsabile.
A mio avviso oggi la relazione dei giovani con l’esperienza cristiana si decide appunto in base a come essi si posizionano su questa linea sottile, che separa la superfluità e la libertà della fede.
Le vie della bellezza e della solidarietà
È la grande questione della formazione cristiana oggi. Siamo di fronte ad un compito cruciale, perché davvero una Chiesa che non è capace di parlare ai giovani finisce di non saper parlare a nessuno.
Senza scendere nel dettaglio, mi limito ad un’indicazione di carattere generale. Penso che per intercettare la sensibilità e il coinvolgimento dei giovani – ma non solo – sia indispensabile coltivare la dimensione estetica della fede, o in parole più semplici la «bellezza del credere». Intendo dire: l’incontro con Cristo che cambia la qualità della vita non può avvenire in un ambiente asettico e in un clima anestetizzante.
Purtroppo la sensazione che si prova in molti casi nei percorsi formativi o nelle celebrazioni liturgiche non spinge affatto chi partecipa ad esclamare: «È bello per noi stare qui!». Eppure una testimonianza ecclesiale, che non accenda i sensi con la luce dello Spirito e non indirizzi gli affetti a percepire il fascino di stringere alleanza con il Signore, è destinata fin dall’inizio a mancare il suo compito.
Senza sperimentare la bellezza del credere nel Dio di Gesù sarebbe del tutto impossibile riconoscere la verità della sua Parola e lasciarsi trasformare dalla bontà della sua Presenza.
Oltre alla via estetica, anche la strada dell’attenzione e della solidarietà con il bisogno dell’altro può essere certamente un punto di partenza efficace per l’ambito giovanile. Il teologo Michel De Certeau scriveva che è sempre l’altro che ci salva: ossia, solo accettando di farci prossimi al volto dell’altro riusciamo a riappropriarci della nostra umanità, tornando a dare un senso alla nostra vita.
Da questo punto di vista, le esperienze di gratuità e di dedizione contengono già una dimensione «salvifica», perché liberano dal puro ripiegamento su se stessi e aprono ad un orizzonte di relazione. D’altra parte Gesù è chiaro su questo punto: ogni gesto di cura compiuto verso il prossimo è lo spazio di un incontro del tutto realistico con Lui. L’importante però è che i giovani, in un contesto ecclesiale, quando vivono queste esperienze concrete siano accompagnati a riconoscerle come occasione favorevole di incontro con Cristo, che sollecita ad amare Dio che non si vede amando il prossimo di cui vedo il volto.
La sfida di esplorare la «terra di mezzo»
La fine della «cristianità» ci impone di garantire la possibilità che l’incontro e l’accoglienza del Vangelo siano offerti a tutti e in ogni condizione di vita, senza pregiudizi e senza discriminazioni.
A questo livello, un fenomeno interessante è la presenza numerosa di chi, dal punto di vista della religiosità individuale, si trova ad abitare una sorta di «terra di mezzo», per usare un’espressione utilizzata in alcune recenti ricerche sociologiche (vedi A. CASTEGNARO, Fuori dal recinto. Giovani, fede, chiesa: uno sguardo diverso, Ancora, Milano 2013).
Si tratta per lo più di persone dai venticinque ai trentacinque anni, che si sono allontanate dalla Chiesa poco dopo l’adolescenza, per presa di distanza consapevole o più spesso per un distacco progressivo e quasi impercettibile, vivendo così una condizione di sospensione, di incertezza, potremmo dire di «stand by», per quanto riguarda la dimensione religiosa della propria esistenza.
In alcuni casi accade che, ad un certo momento, tali persone avvertano l’esigenza di riaffacciarsi alla soglia della fede e della Chiesa, magari a partire da una circostanza della vita, da un incontro importante, da una situazione sofferta, dalla conoscenza di un gruppo percepito come coinvolgente e significativo.
Questi «abitanti della terra di mezzo» a volte si vedono comparire nel campo ecclesiale portando con sé una domanda non sempre chiara, con una presenza saltuaria, magari per sondare se nella comunità cristiana possano trovare o ri-trovare un luogo e una compagnia per interpretare la loro attesa e intraprendere un nuovo cammino di accoglienza del Vangelo.
È indispensabile imparare a «uscire» verso queste persone mettendosi dalla loro prospettiva, valutando se la forma concreta della vita ecclesiale non rischi di suscitare subito l’impressione di uno spazio impenetrabile, di un ambiente troppo strutturato e troppo poco fraterno, per chi vorrebbe iniziare quasi da capo a porre i fondamenti della sua adesione di fede. Su questo fronte, urge attivare uno stile capace di ospitalità, che sappia davvero ascoltare, accompagnare e integrare.
Da un lato, è vero che gli evangelizzatori maggiormente incisivi dei giovani sono i giovani stessi. La condivisione dell’esperienza cristiana è più facile se passa attraverso un rapporto di affinità. Dall’altro lato, è senz’altro indispensabile che le nuove generazioni colgano la fede nel Dio di Gesù come una fede «adulta» e «per persone adulte». Un certo modo di realizzare l’attività pastorale ingenera la convinzione che il cristianesimo sia una faccenda infantile e senile, poco capace di interpellare e coinvolgere chi è entrato nella maturità della vita.
Dunque la presenza di adulti testimoni è indispensabile per mostrare che il fuoco dell’Evangelo è in grado ancora oggi di illuminare la via dell’autentica umanizzazione. Il problema, però, è che nel contesto, che abbiamo descritto all’inizio, la testimonianza degli adulti è efficace se sa rendere ragione delle risorse di verità, bontà e bellezza che la fede cristiana mette a disposizione. Non basta un approccio dottrinalistico, ma neppure il ripiego in un puro spontaneismo. I giovani hanno bisogno di incontrarsi con figure adulte realmente «generative», per poter essere a loro volta generati ad una fede libera e responsabile.
Come è facile accorgersi, siamo di fronte a quella che è forse la «prova di stile» più impegnativa e più appassionante per la Chiesa del nostro tempo.
Conclusione
L’uscita dalla «cristianità» — accelerata esponenzialmente dall’emergenza pandemica — ci provoca a passare dall’attesa che le persone accostino i nostri ambienti ecclesiali, all’iniziativa di incontrarle dove esse effettivamente vivono. Da questo punto di vista, il dramma della pandemia è stato a suo modo una «re-velatio», un toglimento del velo, che ha messo allo scoperto un limite strutturale della nostra realtà ecclesiale.
È necessario investire risorse di intelligenza e di impegno per attivare una testimonianza che interpella, inquieta, suscita domande e alimenta speranze. Non è più sufficiente una pastorale di conservazione, c’è bisogno di un cammino che conduca ad una pastorale «generativa». Percorrere questo cammino verso una pastorale generativa significa appunto convertire l’immagine della Chiesa, lasciando finalmente alle spalle l’«ecclesio-centrismo» per andare verso una comunità ecclesiale che si riconosca de-centrata nella storia.
Quindi una comunità ecclesiale che sia cosciente di trovarsi non in una condizione di staticità, di immobilità, bensì immersa dentro un continuo cambiamento, e di conseguenza si senta chiamata ad essere presente proprio là dove si genera la fede.
Un primo passo, indispensabile, richiesto alla comunità cristiana per procedere efficacemente in questa direzione, è quello di mettersi davvero in ascolto in particolare delle esperienze concrete dei giovani, con le loro attese e le loro disillusioni, con le loro risposte e i loro dubbi. Solo passando attraverso questo esercizio umile dell’ascolto, sarà possibile per la testimonianza ecclesiale incontrare i giovani in carne ed ossa, in modo da discernere insieme con loro le strade da percorrere per tenere acceso il fuoco dell’Evangelo. Solo così il rapporto tra i giovani e la fede cristiana potrà ancora avere un futuro.
© Bioetica News Torino, Maggio 2022 - Riproduzione Vietata