L’appoggio dato l’11 luglio scorso a Venezia, dall’incontro del G-20, all’accordo Global Minimum Tax firmato in precedenza da 131 Paesi per un prelievo societario minimo di “almeno il 15%” per le imprese operanti a livello internazionale e, al tempo stesso, per definire nuove regole per il ricollocamento di una parte degli utili netti delle maggiori aziende del mondo tra potenziali beneficiari, ha destato molto interesse e alimentato molte speranze in chi spera in un fisco equilibrato e giusto.
I motivi di un consenso del G20 all’accordo Ocse sulla “Global Minimum Tax”
Non v’è dubbio infatti che l’attuale situazione nella quale esistono più di 40 sistemi di tassazione nazionali porti a notevoli disparità e si presti ad abusi più volte conclamati sebbene non facili a quantificare con la necessaria precisione. Ben nota è infatti la prassi, seguita da grandi imprese multinazionali (non necessariamente appartenenti all’ambito digitale) di fissare la propria sede in Paesi a più basso livello di tassazione operando al tempo stesso con imprese partecipate in varie parti del mondo, regolate da livelli di tassazione anche sensibilmente elevati: livelli in realtà non corrisposti riducendo (al limite azzerando) gli utili tassabili inserendo tra i costi i pagamenti di royalties su brevetti e diritti di utilizzo da corrispondere alle controllanti e quindi trasferendo ad esse in tutto o in parte i profitti maturati. L’orientamento verso la Global Minimum Tax dovrebbe rispondere alla giusta esigenza di eliminare tali anomalie, sinteticamente richiamate parlando di ricorso ai paradisi fiscali; paradisi peraltro creati e incoraggiati da Paesi economicamente poco brillanti, per richiamare sul proprio territorio attività economiche in grado di portare ricadute finanziarie altrimenti inesistenti.
L’apparente condivisione riscontrata a livello internazionale del quadro accennato di rinnovata fiscalità, non può infatti far superare con facilità l’accertata contrarietà di non poche realtà che vanno al di là dei ricordati ricorsi a tradizionali insediamenti in zone a fisco facilitato, offshore, caraibici o europei (Channel Islands”), per includere anche Stati membri dell’Unione europea quali Ungheria, Irlanda ed Estonia, o come la Svizzera.
Come sempre, le ottime intenzioni devono fare i conti con le situazioni concrete nelle quali allignano interessi e problemi diversi che devono trovare composizione in un sistema di regole di funzionamento accettate da tutte la parti in causa.
In tema non possono però essere sottaciuti problemi formali, in specie quando si consideri ad esempio la coesistenza delle preesistenti legislazioni nazionali in materia di tassazione delle attività di commercio digitale (cosiddetta digital tax), dalle quali potrebbe scaturire una poco desiderata coesistenza di finalità in potenziale conflitto.
Non per nulla, dopo l’espressione dell’orientamento seguito al G 20 veneziano è seguito l’impegno ad attivare negoziati da svolgere entro l’estate volti a raggiugere un accordo concreto entro ottobre, tale da essere approvato dalle istituzioni di ciascun Paese per andare a regime nel 2023.
Torna in mente in proposito l’ipotesi formulata dal prof. Draghi, al momento di assumere l’incarico di primo ministro del nostro Governo, di istituire una commissione formata da soggetti di assoluta e provata competenza per studiare a fondo la riforma del sistema fiscale; perché di questo in definitiva si tratta.
Gli obiettivi dei due pilastri su cui poggia la Global Minimum Tax
In ogni caso va sottolineato come nell’incontro veneziano come nei precedenti, pur tra importanti discussioni, alcune decisioni di carattere operativo con valore di impostazione dei lavori sono state adottate. Esse identificano i cosiddetti due pilastri entro i quali devono essere comprese più analitiche regole di attuazione.
In concreto: il primo pilastro prevede il trasferimento dei diritti impositivi agli stati dove l’attività economico-produttiva si svolge ovvero dove operano gli acquirenti di beni e servizi dalle grandi multinazionali; il secondo fisserebbe un’aliquota minima di imposizione pari almeno il 15% per le imprese attive a livello internazionale.
Definiti questi due aspetti molto rimane ancora da fare. Occorre infatti: convincere e organizzare il ritiro delle digital tax nazionali tuttora in vigore; affrontare e dirimere le pressioni, soprattutto francesi, tese ad innalzare, anche in futuro, l’attuale aliquota (dal 15% fino al 18%); superare le difficoltà, da parte degli esperti OCSE, dell’affinare le regole e le procedure di questo profondo cambiamento fiscale. Se infatti c’è consenso, sull’impianto di base dei due pilastri, non altrettanto si può affermare in merito alle regole tecniche di dettaglio.
Nello sviluppare le risposte ai vari problemi possono sorgere inoltre dubbi e reazioni nel considerare le possibilità di un’equa ripartizione dei benefici cercati ed effettivamente ottenuti.
Queste incertezze e le varianti che possono verificarsi rendono arduo il giudizio sugli esiti prevedibili, in termini di vantaggi economici, delle diverse parti del mondo e delle differenti classi sociali che in esse vivono.
Lo spirito che guida la riforma è quello di correggere distorsioni in atto attenuando certi anomali guadagni, esagerati per dimensione, determinati da una fiscalità sfuggente ai principi ispiratori che dovrebbero guidarla per indirizzarli a favore di zone e persone danneggiate dall’operare delle ricordate anomalie.
Alcuni dati di ricerche possono aiutare a formarsi un’idea. L’OCSE stima che la riallocazione dei profitti potrebbe consentire di sottoporre a tassazione complessivamente circa 100 miliardi di dollari di profitto che ogni anno sfuggono al fisco.
In virtù del secondo pilastro della riforma, alle multinazionali con almeno 750 milioni di fatturato verrebbe applicata un’aliquota minima di almeno il 15%, in ciascuno dei paesi dove esse operano: ne potrebbe derivare un gettito incrementale di 150 miliardi di dollari. La verifica concreta dell’assunto è però legata alla definizione della base imponibile tenuto conto che, nei Paesi non ancora aderenti, le aliquote fiscali sugli utili cambiano e possono essere decisamente minori del 15%: ad esempio, in Irlanda e in Ungheria sono rispettivamente del 12,5 e del 9 %.
La GMT e le sfide per concretizzarla
La materia è in parte sfuggente non essendo precisate al momento le condizioni per praticare la tassazione in base al primo pilastro, quando le si colleghi all’effettiva redditività ottenuta dalle imprese da tassare. Allo stesso modo dovranno essere chiarite le regole per gestire la retrocessione del complemento al 15% ove le imprese abbiano come sede fiscale un luogo ove la tassazione sia inferiore a tale livello.
Riesce inoltre difficile da comprendere la ragione per la quale a volere il meccanismo della Global Minimum Tax siano soprattutto paesi come USA, Francia e la Germania. Secondo lo studio legale di diritto commerciale Renato Veneruso, questi Stati, stimano che ad avere i risultati più soddisfacenti dalla riallocazione delle risorse fiscali del primo pilastro sono di norma i Paesi più popolosi, (es. India e Cina). Questi destineranno le maggiori risorse finanziarie all’aumento dei consumi, a vantaggio delle produzioni fornite dai Paesi avanzati contribuendo alla loro crescita. Ne deriverebbero cioè vantaggi per i paesi più ricchi.
Al momento, dall’analisi risulta uno stato delle conoscenze insufficiente a tirare le somme su vantaggi e svantaggi nelle diverse parti del mondo; indispensabile è quindi un solido lavoro di approfondimento sul piano di una cooperazione internazionale. Si ricade dunque sulla proposta formulata dal Primo ministro Draghi nell’accettare il suo oneroso incarico.
© Bioetica News Torino, Settembre 2021 - Riproduzione Vietata