Gli stati vegetativi. «Attaccati alla vita»
18 Novembre 2015Vegetali non «degni di vivere»? Giro nelle loro stanze al Don Orione di Bergamo, dove si vede in atto una realtà preziosa anche per i «sani»
Non guariscono, non tornano ad essere produttivi e non ringraziano. Sono gli uomini e le donne che abitano i nuclei specializzati per «persone in veglia non responsiva», o come i media più prosaicamente indicano, sono gli «gli stati vegetativi». Essi però, a differenza di quanto la vulgata tende a raccontare non sono attaccati ad alcuna macchina, hanno semplicemente un tubicino nello stomaco collegato a un flacone di nutrimento. Il loro respiro e le funzioni cardiache e digerenti sono autonome. Sono incapaci di deglutire ma hanno periodi di sonno e di veglia. Non paiono avere un contenuto di coscienza ma su questo punto anche la scienza più avveduta ha dismesso certezze incontrovertibili e definitive. Non si può parlare di loro come ammalati, sono disabili gravi che pongono problematiche assistenziali a bassissimo contenuto tecnologico, ma ad alto impatto umano.
Quanto può essere frustrante per operatori e medici, avere tutti i giorni a che fare con soggetti che non manifestano alcun tipo di reazione, che sostano in un letto o in una carrozzina senza palesare presenza o ascolto? Che pena deve essere vedere ogni giorno entrare in struttura padri, mogli e figli, in attesa di un segno dal proprio caro che li possa sollevare dall’indeterminatezza di una presente assenza?
Queste alcune delle tante domande che spesso infermieri, fisioterapisti e dottori, si sono sentiti porre, in buona fede, da colleghi e amici e che i media, con ben più intraprendenza, hanno tradotto con la classica formula: «Ha senso vivere così? Non sarebbe più dignitoso, per loro, per i parenti e per gli operatori stessi, introdurre la possibilità della “dolce morte” che renderebbe tutti liberi?
Ebbene, a queste domande il dottor Giovanni Battista Guizzetti, responsabile del nucleo specializzato al Don Orione di Bergamo, così come i fisioterapisti, gli infermieri e le Oss della stessa struttura, o del Carsima di Bergamo e dell’Ovidio Cerruti di Capriate, rispondono con la semplicità dell’esperienza diretta, raccontando che nelle stanze, nell’androne di ricevimento, nella sala del tè per i parenti o nei giardini antistanti gli ingressi, non esistono patologie ma individui, ognuno con la propria irrinunciabile unicità. È vero, la condizione di stato vegetativo può trovare una sua esplicitazione dentro una formula medica, ma nessun paziente è uguale ad un altro. In ognuno, esiste e permane una soggettività particolare e insopprimibile, mai statica, o definibile temporalmente come immutabile. Le lunghe cure decennali, anzi, aprono lo spazio a scenari del tutto impossibili da prevedere.
Impossibile non salutarli. Visti dall’esterno o attraverso i resoconti delle statistiche, essi divengono dati e numeri privi di pathos emotivo e attinenza al reale. Questo tipo di riduzionismo, che è diventato pensiero comune, contrasta inevitabilmente e senza pietà con il vissuto reale e concreto di chiunque si ritrovi ad entrare in un reparto, come familiare o semplice osservatore, di una struttura di accoglienza, assistenza e riabilitazione.
Angelo, Silvia, Leonardo non sono gli “stati vegetativi” raccontati dai media o dati statistici da inserire in una ricerca universitaria, ma persone. Davanti a loro non puoi che vivere la tua limitatezza. Impossibile non salutarli, volgere loro quella carezza che stringe gli individui dentro il grande contenitore dell’umana società. Per capirlo è sufficiente abbandonare le tesi precostituite che ne hanno disegnato un profilo falso affidandosi alla realtà, entrando nelle loro stanze.
Ognuno di loro viene chiamato per nome. Il termine “vegetativo”, che se a livello clinico ha un suo significato strutturale, trasferito in un contesto antropologico e soprattutto traslato nel linguaggio comune, rischia di insinuare l’idea che il paziente in stato vegetativo, appunto, possa in qualche modo perdere la sua dignità ontologica di essere umano e divenire una specie di “vegetale”.
Ogni giorno per mobilizzare uno di questi ospiti, cioè per alzarli dal letto, lavarli, vestirli e metterli in carrozzina, servono due infermieri per poco meno di un’ora, singolarmente. E visto che non hanno a che fare con “vegetali”, pezzi di legno o carote, li accarezzano, parlano con loro, cercano quotidianamente di stimolarli con messaggi che, di certo, vengono recepiti dal sistema nervoso. Scelgono gli abiti, li pettinano, hanno cura di loro con la passione che si ha per i vivi. Se c’è qualcosa di indegno in tutto questo è pensare che possano vivere l’abbandono terapeutico.
L’équipe del nucleo dell’Ovidio Cerruti di Capriate lo specifica con chiarezza: «Noi ci comportiamo come se loro fossero i residenti e noi operatori soltanto ospiti. E di fatto è così, loro stanno qui sempre. Per ogni medico, infermiere, Oss o volontario, la struttura è luogo di lavoro, di passione e di investimento, ma a fine giornata ognuno di noi torna alla propria sfera privata, mentre i pazienti e le loro famiglie ci abitano nella dimesione più intima e profonda, facendone una stanza di casa».
Insomma, per quanto l’osservatore distaccato possa faticare a comprendere questa dinamica, non si è mai soli dentro una stanza. Appese al muro, poiché la degenza è prolungata, compaiono le foto di una vita, i poster della squadra di calcio, o del cantante preferito.
«Ci si prende cura della persona sempre, anche quando essa non può più guarire», ripetono gli operatori che svolgono tutti i giorni il loro lavoro non solo con gli ospiti ma anche con parenti, amici e familiari. Ne conoscono gli umori e le difficoltà, le esigenze e le mancanze. Stanno loro accanto, entrano in relazione, cercando di colmare vuoti e di aggiungere carezze, di fornire appoggi su cui ridefinire il passo, perché un figlio che tutti i giorni va a trovare un padre in un letto di una struttura per stati vegetatvi, ha bisogno di percepire che non è solo davanti a quella sofferenza che non ha nome.
Cambio di prospettiva. Ecco perché un buon reparto per persone che vivono in queste condizioni non si identifica con la presenza di “macchinari” particolarmente complessi, bensì attraverso l’operosità di un personale esperto, addestrato alla cura di questo tipo di pazienti. Il vero impegno per coloro che devono assisterli, si sostanzia da un lato, nella prevenzione dei danni terziari, come i decubiti, le retrazioni muscolo-tendinee e le infezioni bronco-polmonari, e, dall’altro, dall’elevato impegno umano che queste “attenzioni” richiedono. A monte di tutto, però, deve sussister un presupposto essenziale, ossia una predisposizione all’ascolto totale, una dedizione umana ed una particolare partecipazione emotiva.
Alla base di ogni proceduta e nell’atteggiamento di ogni operatore sussiste pertanto la piena consapevolezza che l’azione che si mette in campo, tocca la complessità della vita di ogni individuo che incontra, sia l’ospite che il suo prossimo.
Gli operatori assieme alle mamme lavano i corpi e riassettano biancheria, massaggiano gambe e innaffiano piante. La giornata è scandita da tanti piccoli riti che richiamano ognuno alla semplicità del quotidiano. Un buon lavoro di équipe è imprenscindibile per la qualità dell’assistenza intesa nel suo contesto complessivo. Così, in un reparto di questo tipo, non sono importanti solo i medici, ma anche l‘Oss, figura cruciale, attenta ai bisogni primari, come l’igiene del corpo e in generale il benessere fisico e psichico, parte integrante dell’accudimento in senso lato, il fisioterapista per una terapia di mobilizzazione passiva che controlla gli aspetti posturali, e la psicologa, a servizio dei familiari, per monitorare il loro stato emotivo, ricostruire la storia della persona in stato vegetativo e del suo contesto sociale.
La vita per chiunque si ritrovi ad avere a che fare con un proprio caro in questa situazione si riposiziona, cambia di prospettiva, muta la dimensione del tempo, e l’intensità delle relazioni. Il dottor Guizzetti lo afferma senza mezzi termini: «Qui nessuno è attaccato alle macchine. L’unica cosa a cui sono attaccate queste persone è alla vita. In questi reparti regna un rispetto alto per la vita, e gli operatori cercano di dare un “senso altro” a tutto quello che fanno. Nei silenzi, carichi di sofferenza, dei familiari e degli amici si respira il bisogno di essere accolti nel dolore. Qui tutto ha un effetto amplificato e non lo si può dimenticare. I parenti si aiutano tra loro. E si aiutano aiutandosi».
Le parole di Marisa, madre di un ragazzo in stato vegetativo da tre anni, rappresentano la ragione più profonda per chiunque svolga la propria professione all’interno di questi reparti: «Ho avuto la grande fortuna di trovare persone splendide, operatori che a livelli diversi salvano dal deserto in cui spesso le famiglie sono lasciate. Operatori che difendono la vita, come sorgenti d’acqua, non solo di chi è ricoverato, ma anche di noi parenti».
Ecco perché, per paradosso, si può ben dire che in un nucleo per stati vegetativi, “gli stati vegetativi non esistono”.
Fabio Cavallari
Fonte: «Tempi»