Giovani e violenza: l’emergenza educativa
24 Settembre 2017Intervento: dopo la morte della sedicenne di Lecce, uccisa dal fidanzato, l’analisi di don Domenico Cravero, psicoterapeuta e sociologo: «Riscrivere il patto che unisce le generazioni».
Non è più solo un’impressione indotta dai fatti di cronaca. Ci sono dati e studi a confermarlo: la violenza è un fenomeno in crescita e riguarda anche i giovani. Nel disorientamento etico e nella confusione di oggi la violenza fisica può anche essere minimizzata («era solo un po’ nervoso»), le pressioni sessuali non essere riconosciute («se mi nego, mi molla», i comportamenti di dominazione e controllo essere scambiati come gelosia d’amore. Viviamo, in realtà, in un mondo violento. I comportamenti aggressivi sono sempre il segno di un fallimento. Violenza e bassa stima di sé sono il risultato di un difetto di personificazione. Sono due le esperienze originarie che ci rendono persone autonome: l’attaccamento e la separazione. L’Io cerca dipendenza e gratificazione (il legame materno), affermazione di sé e identità sociale (la separazione paterna). Nella vita concreta però l’Io è riportato costantemente alla realtà: il limite, l’insufficienza, l’ostacolo. Sperimenta rifiuto, frustrazione, abbandono. Si genera l’oscura esperienza dell’angoscia, che trasforma in dinamiche distruttive il potenziale di crescita. Appare la realtà temuta del non-amore, del non-senso esistenziale, subito rimossa. Questa, tuttavia, riemerge nel quotidiano in due possibili percorsi: la depressione (la resa dell’Io) e la violenza (il rifiuto della realtà). L’agito aggressivo è una difesa estrema per l’Io. La debolezza interiore si riveste di forza e prepotenza. Da solo però l’Io non può trovare giovamento alcuno: più cerca di liberarsi, più sprofonda. La soluzione viene dall’esterno: il legame familiare, il valore dell’altro, l’affidabilità dell’autorità. Questi sostegni naturali alla crescita personale oggi sono tutti in crisi.
Il legame familiare
Si viene al mondo da un atto d’amore, si cresce sani e felici per l’affetto ricevuto. La più intensa esperienza del piacere è legata alla scena originaria dell’umano nella prima infanzia. Il bambino chiama, la madre risponde; il piccolo urla il suo bisogno, la mamma accorre alla sua domanda e la soddisfa. La mamma si avvicina con il suo volto, lo stringe tra le sue braccia, gli offre il calore del suo corpo, lo avvolge del suo affetto. Man mano il volto della mamma, la sua presenza, le sue attenzioni, diventano nel piccolo la rappresentazione anticipata della soddisfazione del suo bisogno, quindi l’immagine del godimento assoluto. Il bambino impara ad apprezzare non solo il cibo, ma molto più l’affetto e la tenerezza di chi glielo assicura. Il volto è il luogo simbolico del piacere e del desiderio. Ciò che fa vivere, però, può smettere di esserci, può allontanarsi, sparire, negarsi. Su questo orrore si fonda l’umano, fin dal primo pianto. Il problema della vita sono, quindi, le separazioni. La perdita della mamma è la base dell’angoscia. Nella simbiosi materna il bambino si percepisce come il solo, l’unico. L’illusione però è di corto respiro. Colei che ha il potere di fare godere il suo bambino, è costretta a deluderlo, a farlo piangere, quando diventa inaccessibile e appare lontana e perduta. Con l’aiuto del padre, il bambino riuscirà, gradualmente e con molto dolore, a trovare piacere non solo nell’attaccamento ma anche nella propria identità. Smetterà di pensarsi “il solo”, dovrà accettare di stare “solo”. Supererà la dinamica capricciosa della pretesa e imparerà a fare “da solo”. L’angoscia prodotta dall’andare via della madre potrà essere gradualmente sostituita dal piacere di esplorare l’ambiente e apprendere nuove esperienze. Solo chi ha avuto in “giusta quantità” l’attaccamento, tuttavia, può separarsi. Quando la madre manca (separazione) il bambino può imparare a portarla dentro di sé, a viverla nel simbolo. Questo processo naturale, essenziale per l’umano, si sta scontrando con nuove difficoltà. I bambini oggi vengono al mondo perché i genitori li hanno desiderati e ricercati e quando mamma e papà li vogliono.
I nuovi nati sono sempre meno figli della natura e sempre più «figli del desiderio» (M. Gauchet), figli del «programma» dei loro genitori. Nascere nel segno del programma trasforma la percezione dell’infanzia e della giovinezza e scuote tutto il sistema educativo. Per crescere non c’è più bisogno di lasciare la famiglia, non è più necessario separarsi. Fino all’ultimo, finché possibile, madri e padri vogliono accompagnare l’evoluzione del figlio, i cui desideri considerano del tutto connaturali ai loro. Si genera uno scombussolamento di valori e di costumi. Sembra si stia andando verso una condizione psichica di adolescenza illimitata. Si cresce senza punti di riferimento, senza padri, con madri ansiose, esigenti e tendenzialmente possessive. I ragazzi violenti non riescono a sostituire la madre con i suoi significati. L’aggressività in aumento è il prodotto di un’emergenza educativa che chiede di riscrivere il patto educativo tra le generazioni.
Il valore dell’altro
Si impara ad amare trasferendo parti di sé in un Altro. La maturità dell’amore è data dalla reciprocità: amare l’altro come se stessi. Se il bambino non impara a riconoscere l’altro, non potrà soddisfare i suoi desideri. L’altro, che entra nella mia vita, mi estorce il diritto di essere l’unico. Solo chi ha ricevuto amore è capace di questo sacrificio dell’Io. Se si è potuto godere in abbondanza dell’attaccamento primario, si può rinunciarvi in parte, per entrare in rapporto con gli altri. I ragazzi violenti sono stretti in un realismo senza affetti (senza vero attaccamento né separazione). Tutto è ridotto all’agito. Rinnegano la realtà, non riuscendo a rappresentarla. Il bambino riesce, invece, a separarsi e a introiettare i suoi legami, quando i genitori non sono né troppo lontani, nè troppo vicini. Può così ricreare nel simbolo l’oggetto assente e aprirsi agli altri, attribuendo loro valore e significato. Nei bambini adeguatamente amati il sistema simbolico si sviluppa potente. Essi apprendono precocemente e facilmente il linguaggio (entrano cioè nell’istituzione sociale). Le delusioni e le frustrazioni affettive, invece, incidono pesantemente sulla motivazione scolastica e sulle capacità di concettualizzazione. Il piacere nel pensare e nel sapere è uno dei godimenti più puri. Nel bambino in difficoltà, invece, l’ignoto non ingenera piacere e curiosità ma ansia e demotivazione. Non provare piacere nella scuola è un problema affettivo, ma se la scuola va male, crolla l’autostima.
Il dono dell’autorità
L’autorità, dice la parola, è l’aiuto che fa crescere. Nella famiglia contemporanea lo spazio di incontro tra genitori e figli si assottiglia. Manca spesso agli adulti un comportamento autorevole, eticamente coerente. La preoccupazione dell’avere diventa il modo privilegiato attraverso cui si regolano i rapporti familiari. La violenza verbale dell’adolescente in casa assume il tono di una sfida: mettere alla prova i genitori per saggiarne l’affidabilità. Colludere con questa violenza impedisce di fare dono ai figli dell’autorità che definisce i confini e testimonia i valori. Il figlio gravemente irrispettoso manca al dovere del legame, cui è tenuto sia in famiglia sia a scuola e nella società. L’aumento della violenza familiare è anche conseguenza di un doppio messaggio insostenibile della cultura occidentale. Da una parte si dice ai ragazzi: «Punta sulla tua individualità, realizzati, cogli le occasioni! Puoi avere una libertà senza vincoli». Libertà di godimento e di espressione. Lo sa bene la gioventù sessualmente «liberata» (T. Hargot). Lo sa bene anche l’industria pornografica. Dall’altra si ripete: «Impara dalla scienza, sii realista! La tua genialità è mera opera genetica, la sessualità un meccanismo adattivo. Anche l’amore è solo questione di neurotrasmettitori. Il tuo pensiero? Una macchina può far meglio di te. Accettati: provieni dal caso e dalla necessità». Massima libertà, massima umiliazione. Il «doppio vincolo», sosteneva G. Bateson, fa ammalare la mente. Le giovani generazioni stanno morendo di questa trappola. L’aggressività insensata è specchio di questo nichilismo, la delusione per le promesse mancate, l’origine della rabbia.
C’è una via di uscita: sciogliere quella contraddizione. Dimostrare stima e fiducia nei giovani, saperli capaci di rinuncia creativa. Sacrificando il godimento pulsionale immediato, la vita umana si eleva, riceve un significato, un senso spirituale. Il futuro del mondo e del lavoro esige creatività autentica: quella che trova libertà e piacere anche nella Legge.
Le nostre comunità hanno ancora tante risorse educative. Per molti anni accolgono e accompagnano bambini e adolescenti con le loro famiglie. Bisogna solo avere idee chiare e concentrarsi sull’essenziale. Nel disorientamento di oggi il Vangelo è seme di salvezza.
Fonte: Domenico Cravero, Giovani e violenza: l’emergenza educativa, «La Voce e il Tempo», p. 12, 24 settembre 2017, www.lavocedeltempo.it